Libia. L'Italia si prepara all'intervento militare.
- Avvisato Contropiano
Giovedì alla Camera si discuterà dell'ormai imminente
intervento militare in Libia.
La ministra della Difesa Pinotti ha
parlato del possibile invio di almeno 5.000 militari nel territorio
libico. “Se in Afghanistan abbiamo mandato fino a 5mila uomini, in un
paese come la Libia che ci riguarda molto più da vicino e in cui il
rischio di deterioramento è molto più preoccupante per l'Italia, la
nostra missione può essere significativa e impegnativa, anche
numericamente", ha detto la ministra Pinotti. "Ne discutiamo da mesi, ma
ora l'intervento è diventato urgente" ha sottolineato in una
intervista.
Intanto a Tripoli, l’ambasciata italiana è stata chiusa e tutte le
attività sono state sospese “a causa del peggioramento delle condizioni
di sicurezza”. Un ulteriore segnale che l'Italia si prepara ad un
intervento armato in Libia. Ieri una nave con un centinaio di italiani
ha lasciato il porto di Tripoli diretta prima a Malta per una sosta e
poi al porto di Augusta “per la crescita della minaccia dell'Isis”
dicono fonti governative. La nave è stata scortata militarmente da una
nave della flotta militare italiana e sorvegliata dal cielo da un
Predator.
Nel frattempo ieri si è prodotto un piccolo – e forse cercato – casus belli, quando una motovedetta della Guardia Costiera italiana impegnata in una operazione di soccorso di una barca di profughi, sarebbe stata minacciata con le armi da un altra imbarcazione proveniente dalla Libia che avrebbe preteso la restituzione del naviglio una volta imbarcata la gente che era bordo della barca alla deriva. Immediatamente ha tuonato il governo italiano tramite il ministro Lupi: "Nella tragedia dei migranti e dell'azione di soccorso della nostra Guardia Costiera oggi è successo un fatto allarmante, che segna un ulteriore salto di qualità" degli scafisti. E' "indispensabile un intervento delle istituzioni internazionali in Libia" . “Il peggioramento della situazione (in Libia) richiede ora un impegno straordinario e una maggiore assunzione di responsabilità, secondo linee che il governo discuterà in Parlamento a partire dal prossimo giovedì 19 febbraio” ha annunciato il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni.
Sul piatto restano alcuni problemi da risolvere ed alcune ipotesi intorno ad un intervento militare a
guida italiana che ha come obiettivo quello di controllare la fascia costiera della Libia (dove però ci sono le città più importanti).
Il primo problema sarà quello della legalità dell'intervento militare. Il governo italiano parla di un intervento di “peace keeping”, una menzogna utile solo ad ottenere un mandato dalle Nazioni Unite. L'intervento in Libia infatti non può che avere il carattere di “peace enforcing”, cosa ben diversa da un ruolo di interposizione tra forze belligeranti per assicurare la pace. Al contrario si tratterebbe di un intervento teso a sostenere alcune forze combattenti (il cosiddetto “governo legittimo” ritiratosi a Tobruk) contro le forze dell'Isis che si sono installate a Derna e Sirte ed, eventualmente, contro le altre forze islamiche insediatesi a Tripoli.
In secondo luogo l'intervento militare italiano, che mirando a controllare la fascia costiera non potrebbe fare a meno di combattere nelle città costiere – le più importanti – come Derna e Sirte, avverrebbe in collaborazione con le forze armate dell'Egitto che agirebbero da Est (l'Egitto sostiene e protegge il governo insediatosi a Tobruk) ed eventualmente con le forze armate francesi che ormai si sono insediate stabilmente in Mali e in Ciad e agirebbero da sud in particolare nel sudovest della Libia dove ci sono alcuni dei campi petroliferi.
In qualsiasi caso l'Italia si troverebbe attivamente coinvolta in un intervento e in un conflitto militare a tutto campo, una sorta di Afghanistan italiano.
C'è una documentazione smisurata sulla ignominia dell'avventurismo neocoloniale che nel 2011 ha portato Francia e Italia – più marginalmente gli Stati Uniti – a destabilizzare il regime di Gheddafi ed a far saltare la stabilità in Libia aprendo la strada alla guerra per bande e all'espansione dei gruppi jihadisti. Lo deve ammettere anche Romano Prodi in una intervista a Il Fatto dove ha parole esplicite sugli interessi economici della Francia e l'irresponsabilità italiana contro i propri stessi interessi nella sciagurata avventura militare contro Gheddafi del 2011.
Nel frattempo ieri si è prodotto un piccolo – e forse cercato – casus belli, quando una motovedetta della Guardia Costiera italiana impegnata in una operazione di soccorso di una barca di profughi, sarebbe stata minacciata con le armi da un altra imbarcazione proveniente dalla Libia che avrebbe preteso la restituzione del naviglio una volta imbarcata la gente che era bordo della barca alla deriva. Immediatamente ha tuonato il governo italiano tramite il ministro Lupi: "Nella tragedia dei migranti e dell'azione di soccorso della nostra Guardia Costiera oggi è successo un fatto allarmante, che segna un ulteriore salto di qualità" degli scafisti. E' "indispensabile un intervento delle istituzioni internazionali in Libia" . “Il peggioramento della situazione (in Libia) richiede ora un impegno straordinario e una maggiore assunzione di responsabilità, secondo linee che il governo discuterà in Parlamento a partire dal prossimo giovedì 19 febbraio” ha annunciato il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni.
Sul piatto restano alcuni problemi da risolvere ed alcune ipotesi intorno ad un intervento militare a
guida italiana che ha come obiettivo quello di controllare la fascia costiera della Libia (dove però ci sono le città più importanti).
Il primo problema sarà quello della legalità dell'intervento militare. Il governo italiano parla di un intervento di “peace keeping”, una menzogna utile solo ad ottenere un mandato dalle Nazioni Unite. L'intervento in Libia infatti non può che avere il carattere di “peace enforcing”, cosa ben diversa da un ruolo di interposizione tra forze belligeranti per assicurare la pace. Al contrario si tratterebbe di un intervento teso a sostenere alcune forze combattenti (il cosiddetto “governo legittimo” ritiratosi a Tobruk) contro le forze dell'Isis che si sono installate a Derna e Sirte ed, eventualmente, contro le altre forze islamiche insediatesi a Tripoli.
In secondo luogo l'intervento militare italiano, che mirando a controllare la fascia costiera non potrebbe fare a meno di combattere nelle città costiere – le più importanti – come Derna e Sirte, avverrebbe in collaborazione con le forze armate dell'Egitto che agirebbero da Est (l'Egitto sostiene e protegge il governo insediatosi a Tobruk) ed eventualmente con le forze armate francesi che ormai si sono insediate stabilmente in Mali e in Ciad e agirebbero da sud in particolare nel sudovest della Libia dove ci sono alcuni dei campi petroliferi.
In qualsiasi caso l'Italia si troverebbe attivamente coinvolta in un intervento e in un conflitto militare a tutto campo, una sorta di Afghanistan italiano.
C'è una documentazione smisurata sulla ignominia dell'avventurismo neocoloniale che nel 2011 ha portato Francia e Italia – più marginalmente gli Stati Uniti – a destabilizzare il regime di Gheddafi ed a far saltare la stabilità in Libia aprendo la strada alla guerra per bande e all'espansione dei gruppi jihadisti. Lo deve ammettere anche Romano Prodi in una intervista a Il Fatto dove ha parole esplicite sugli interessi economici della Francia e l'irresponsabilità italiana contro i propri stessi interessi nella sciagurata avventura militare contro Gheddafi del 2011.
|
C’è da meravigliarsi? No, sia perché già nell’aggressione militare
del 2011 Sel si schierò subito a favore della No Fly Zone in Libia –
vero e proprio preludio dell’intervento militare diretto – sia perché da
tempo nell’ambito dei movimenti pacifisti vicini alla sinistra
istituzionale si è andata affermando una filosofia di collaborazione con
l’interventismo militare dell'Unione Europea se non di quelli di
Washington. “Si è iniziato ad imparare direttamente sul campo e, con gli
anni, si è appreso che una collaborazione tra intervento civile e
militare non solo è utile ai militari, ma anche ai civili, per operare
in condizioni di maggiore sicurezza” è possibile leggere sul sito http://www.peacebuilding.it
. Un certo mondo pacifista, da tempo collaterale ai governi, ragiona
esplicitamente su come “Gli scenari per l’intervento civile possono
essere i più disparati: da periodi elettorali ai casi di bombardamento
dall’alto, ovvero con fattore di rischio estremamente variabile”. Non
stiamo leggendo da un sito di militari o di esperti strategici ma da un
sito "pacifista" che ha ispirato il progetto dei “Corpi di pace”.
Possiamo dire che sull’aggressione alla Libia nel 2011 e poi sulla Siria, il patrimonio “pacifista” della sinistra e dell’associazionismo collaterale al Pd sia andato definitivamente disperso, anzi si è consapevolmente arruolato negli interstizi dell’interventismo militare “umanitario” di matrice europea. Un interventismo che alcuni, arbitrariamente, ritengono meno dannoso di quello “pesante” statunitense.
Si gioca così sulle parole ben sapendo che hanno significati diversi, soprattutto nelle regole d’ingaggio sul campo. Per l’intervento militare italiano in Libia si parla di peacekeeping, quindi con un ingaggio simile a quello delle forze Unifil in Libano. In realtà non potrà che essere un intervento di “peace enforcing” cioè quello di costringere alla “pace” delle forze belligeranti ma intervenendo a sostegno – militare – di alcune di esse, contro altre. Prendendo dunque parte al conflitto ed essendone soggetto attivo. Certo la demonizzazione del nemico appare fondamentale e i tagliagole dell’Isis in Libia, in Siria, in Iraq, in Mali o in Nigeria si prestano a perfezione. Ma in fondo è stato sempre così, creando anche false notizie e falsi orrori per legittimare un intervento militare che "facesse giustizia". I risultati sul campo, anche a posteriori, confermano invece la strumentalità di quegli interventi o di quelle campagne mediatiche prima in Jugoslavia, poi in Libia o in Siria.....
Possiamo dire che sull’aggressione alla Libia nel 2011 e poi sulla Siria, il patrimonio “pacifista” della sinistra e dell’associazionismo collaterale al Pd sia andato definitivamente disperso, anzi si è consapevolmente arruolato negli interstizi dell’interventismo militare “umanitario” di matrice europea. Un interventismo che alcuni, arbitrariamente, ritengono meno dannoso di quello “pesante” statunitense.
Si gioca così sulle parole ben sapendo che hanno significati diversi, soprattutto nelle regole d’ingaggio sul campo. Per l’intervento militare italiano in Libia si parla di peacekeeping, quindi con un ingaggio simile a quello delle forze Unifil in Libano. In realtà non potrà che essere un intervento di “peace enforcing” cioè quello di costringere alla “pace” delle forze belligeranti ma intervenendo a sostegno – militare – di alcune di esse, contro altre. Prendendo dunque parte al conflitto ed essendone soggetto attivo. Certo la demonizzazione del nemico appare fondamentale e i tagliagole dell’Isis in Libia, in Siria, in Iraq, in Mali o in Nigeria si prestano a perfezione. Ma in fondo è stato sempre così, creando anche false notizie e falsi orrori per legittimare un intervento militare che "facesse giustizia". I risultati sul campo, anche a posteriori, confermano invece la strumentalità di quegli interventi o di quelle campagne mediatiche prima in Jugoslavia, poi in Libia o in Siria.....
Nessun commento:
Posta un commento