Il capannone di San Bernardo, il più contaminato.
«L’ammontare del costo per bonificare la struttura – spiega Giuseppe Cerbone –
era di oltre un miliardo di lire. La bonifica non venne effettuata perché la
Olivetti cedette il capannone ad un certo Merletti, che non fece in tempo a
bonificarlo perché, a quanto ne so, venne arrestato»
02/10/2014
giampiero maggio
Ivrea
Tre testimonianze. Forti, dettagliate. Per la Procura di Ivrea, impegnata a
far luce sul caso di 15 vittime colpite da mesotelioma pleurico quando erano
dipendenti alla Olivetti, sono fondamentali. Assieme alle oltre mille pagine
della perizia di Giancarlo Guarini, che ha ricostruito gli organigrammi
societari nel periodo compeso tra la metà degli anni Sessanta e la fine degli
anni Novanta, quelle testimonianze sono una delle architravi dell’inchiesta.
Il lavoro dei pm, Lorenzo Boscagli e Gabriella Viglione e degli ufficiali di polizia giudiziaria dello Spresal, ha portato fin qui a 39 indagati, tra cui Carlo De Benedetti, Corrado Passera, Elserino Piol, Roberto Colaninno. Tutti accusati di omicidio colposo plurimo (tranne Colaninno, che ha soltanto le lesioni) aggravato dalla violazione delle norme sulla sicurezza negli ambienti di lavoro. Ecco, allora, alcuni passaggi delle testimonianze, racchiusi nelle oltre 20 mila pagine che inchiodano gli ex vertici dell’azienda di Ivrea.
I monitoraggi
Quando le analisi riscontravano presenza di amianto superiori alla norma, piuttosto che inserirli nei documenti ufficiali non si citavano. Insomma, venivano formalmente omessi. «Perché si faceva così. Lo facevano altre aziende e lo facevamo anche noi». È questo uno dei passaggi chiave della testimonianza di Luisa Arras, 57 anni, responsabile del Servizio prevenzione e protezione della Olivetti dal 1991 al 1996.
Il 26 maggio di quest’anno la Arras viene sentita a sommaria informazioni dai due pm, Boscagli e Viglione. Lei si mostra inizialmente reticente. I magistrati le chiedono dei monitoraggi e delle bonifiche delle officine di San Bernardo e delle ex Officine H, due degli stabilimenti maggiormente contaminati. Le mostrano un documento «sintesi degli adempimenti previsti dal DL 277/91» ed in particolare la relazione del Comitato aziendale ecologia del 13 aprile 1992 e in cui si evidenziava l’opportunità di procedere alla bonifica delle due officine.
I pm le chiedono perché, dal ’92 al ’95, non si è provveduto a sanare quegli ambienti. «Non lo so – risponde lei -, immagino che la situazione fosse tenuta sotto controllo con ispezioni visive. Ricordo che l’ingegner Abelli insisteva molto sulle bonifiche con chi poteva spendere, quindi in particolare con Tarizzo». Pierangelo Tarizzo, così come Luigi Pescarmona, entrambi indagati, erano delegati, in quegli anni, ad attuare tutte le misure di legge nel campo della sicurezza e della prevenzione.
«Avevano una speciale procura rilasciata nel 1993 dal Cda dell’azienda – scrivono i magistrati - e che dava loro potere di spesa fino a 300 milioni di vecchie lire per ogni singolo intervento». Il placet per opere di bonifica più costose, però, doveva arrivare dai vertici aziendali.
Le prove documentali
C’è di più. Sempre nel corso dell’interrogatorio alla Arras vengono mostrati due documenti, a firma della dirigente, in cui si fa riferimento ai monitoraggi e al rispetto dei valori limite del DL 277/91 e del Decreto ministeriale 94, quest’ultimo molto più stringente in termini di prevenzione sul rischio di esposizione all’amianto dei lavoratori. Gli inquirenti le contestano che quando i valori superavano la soglia imposta dal DM del ’94, questi non comparivano nelle carte ufficiali. Perché?
Arras prima tentenna, poi diventa un fiume in piena: «Da noi tutte le volte che c’erano dati che non andavano bene o si ripeteva l’esame o non si citava il dato». Arras arriva al punto: «Era una prassi che seguivamo. Già dall’inizio del mio servizio in azienda ho visto che si faceva così, i miei responsabili mi dicevano di fare così: se c’erano dei valori che non andavano mi dicevano di ripetere l’esame e se i dati erano ancora critici mi dicevano di non riportare il dato».
Il dato, però, informalmente arrivava ai suoi diretti superiori. Che, poi, avrebbero dovuto relazionare a chi stava più in alto di loro. A chi? Per i magistrati – lo ricostruisce la perizia di Guarini - al Consiglio di amministrazione, all’amministratore delegato e al presidente. Erano, quelli, gli anni di De Benedetti alla guida della Olivetti.
Il servizio ecologia
Il talco contaminato da tremolite d’amianto si usava nelle officine. Ad Agliè, dove si montavano le macchine per scrivere. A San Bernardo e alle Officine Ico, dove si svolgeva una parte della produzione. Si scopre nell’81 che quel talco ha quantità d’amianto 500 mila volte superiore al consentito. Ma la Olivetti provvede a sostituire quel prodotto con talco esente da fibre asbestiforme soltanto nell’86. Il 28 agosto 2013 i pm interrogano Paolo Fornero, 72 anni, all’epoca membro del Servizio ecologia ambiente e della commissione permanente istituita nel ’74 per valutare i rischi ambientali in azienda. I pm chiedono conto dei ritardi. Fornero risponde: «Noi del servizio ecologia avevamo rilevato la presenza dell’amianto. Ci hanno messo cinque anni a decidere». I magistrati insistono e gli chiedono chi doveva decidere sulla sostituzione: «La Commissione per l’ecologia avrebbe dovuto dare l’input, ma in quegli anni non ci riunivamo spesso a causa dei cambiamenti avvenuti dopo il passaggio ai De Benedetti».
Il caso San Bernardo
Il capannone San Bernardo Sud, dove gli operai lavorano fino alla fine degli anni Novanta, è lo stabilimento più contaminato. Non verrà mai bonificato. Su come sia stata gestita la partita di quella struttura gli inquirenti lo scoprono da Giuseppe Cerbone, dal ’70 al 2001 dirigente Olivetti e dal ’90 membro del Sesl, il Servizio ecologia. Cerbone nel 2002, ormai fuori dall’azienda e dipendente di una società che si occupa di rimozione amianto, viene contattato dalla Olivetti per un preventivo di bonifica del capannone di San Bernardo: «L’ammontare del costo – spiega Cerbone – era di oltre un miliardo di lire. La bonifica non venne effettuata perché la Olivetti cedette il capannone ad un certo Merletti, che non fece in tempo a bonificarlo perché a quanto ne so venne arrestato».
Le deleghe
Dice Guarini: «L’Olivetti aveva un’organigramma verticistico». A decidere i grandi interventi, comprese le bonifiche dai costi elevati, per i magistrati erano i dirigenti con l’avvallo del Cda, dell’amministratore delegato e del presidente. «Le deleghe non erano piene, i dirigenti non potevano decidere in autonomia» spiega, in sintesi, il procuratore capo della Repubblica di Ivrea, Giuseppe Ferrando.
Il lavoro dei pm, Lorenzo Boscagli e Gabriella Viglione e degli ufficiali di polizia giudiziaria dello Spresal, ha portato fin qui a 39 indagati, tra cui Carlo De Benedetti, Corrado Passera, Elserino Piol, Roberto Colaninno. Tutti accusati di omicidio colposo plurimo (tranne Colaninno, che ha soltanto le lesioni) aggravato dalla violazione delle norme sulla sicurezza negli ambienti di lavoro. Ecco, allora, alcuni passaggi delle testimonianze, racchiusi nelle oltre 20 mila pagine che inchiodano gli ex vertici dell’azienda di Ivrea.
I monitoraggi
Quando le analisi riscontravano presenza di amianto superiori alla norma, piuttosto che inserirli nei documenti ufficiali non si citavano. Insomma, venivano formalmente omessi. «Perché si faceva così. Lo facevano altre aziende e lo facevamo anche noi». È questo uno dei passaggi chiave della testimonianza di Luisa Arras, 57 anni, responsabile del Servizio prevenzione e protezione della Olivetti dal 1991 al 1996.
Il 26 maggio di quest’anno la Arras viene sentita a sommaria informazioni dai due pm, Boscagli e Viglione. Lei si mostra inizialmente reticente. I magistrati le chiedono dei monitoraggi e delle bonifiche delle officine di San Bernardo e delle ex Officine H, due degli stabilimenti maggiormente contaminati. Le mostrano un documento «sintesi degli adempimenti previsti dal DL 277/91» ed in particolare la relazione del Comitato aziendale ecologia del 13 aprile 1992 e in cui si evidenziava l’opportunità di procedere alla bonifica delle due officine.
I pm le chiedono perché, dal ’92 al ’95, non si è provveduto a sanare quegli ambienti. «Non lo so – risponde lei -, immagino che la situazione fosse tenuta sotto controllo con ispezioni visive. Ricordo che l’ingegner Abelli insisteva molto sulle bonifiche con chi poteva spendere, quindi in particolare con Tarizzo». Pierangelo Tarizzo, così come Luigi Pescarmona, entrambi indagati, erano delegati, in quegli anni, ad attuare tutte le misure di legge nel campo della sicurezza e della prevenzione.
«Avevano una speciale procura rilasciata nel 1993 dal Cda dell’azienda – scrivono i magistrati - e che dava loro potere di spesa fino a 300 milioni di vecchie lire per ogni singolo intervento». Il placet per opere di bonifica più costose, però, doveva arrivare dai vertici aziendali.
Le prove documentali
C’è di più. Sempre nel corso dell’interrogatorio alla Arras vengono mostrati due documenti, a firma della dirigente, in cui si fa riferimento ai monitoraggi e al rispetto dei valori limite del DL 277/91 e del Decreto ministeriale 94, quest’ultimo molto più stringente in termini di prevenzione sul rischio di esposizione all’amianto dei lavoratori. Gli inquirenti le contestano che quando i valori superavano la soglia imposta dal DM del ’94, questi non comparivano nelle carte ufficiali. Perché?
Arras prima tentenna, poi diventa un fiume in piena: «Da noi tutte le volte che c’erano dati che non andavano bene o si ripeteva l’esame o non si citava il dato». Arras arriva al punto: «Era una prassi che seguivamo. Già dall’inizio del mio servizio in azienda ho visto che si faceva così, i miei responsabili mi dicevano di fare così: se c’erano dei valori che non andavano mi dicevano di ripetere l’esame e se i dati erano ancora critici mi dicevano di non riportare il dato».
Il dato, però, informalmente arrivava ai suoi diretti superiori. Che, poi, avrebbero dovuto relazionare a chi stava più in alto di loro. A chi? Per i magistrati – lo ricostruisce la perizia di Guarini - al Consiglio di amministrazione, all’amministratore delegato e al presidente. Erano, quelli, gli anni di De Benedetti alla guida della Olivetti.
Il servizio ecologia
Il talco contaminato da tremolite d’amianto si usava nelle officine. Ad Agliè, dove si montavano le macchine per scrivere. A San Bernardo e alle Officine Ico, dove si svolgeva una parte della produzione. Si scopre nell’81 che quel talco ha quantità d’amianto 500 mila volte superiore al consentito. Ma la Olivetti provvede a sostituire quel prodotto con talco esente da fibre asbestiforme soltanto nell’86. Il 28 agosto 2013 i pm interrogano Paolo Fornero, 72 anni, all’epoca membro del Servizio ecologia ambiente e della commissione permanente istituita nel ’74 per valutare i rischi ambientali in azienda. I pm chiedono conto dei ritardi. Fornero risponde: «Noi del servizio ecologia avevamo rilevato la presenza dell’amianto. Ci hanno messo cinque anni a decidere». I magistrati insistono e gli chiedono chi doveva decidere sulla sostituzione: «La Commissione per l’ecologia avrebbe dovuto dare l’input, ma in quegli anni non ci riunivamo spesso a causa dei cambiamenti avvenuti dopo il passaggio ai De Benedetti».
Il caso San Bernardo
Il capannone San Bernardo Sud, dove gli operai lavorano fino alla fine degli anni Novanta, è lo stabilimento più contaminato. Non verrà mai bonificato. Su come sia stata gestita la partita di quella struttura gli inquirenti lo scoprono da Giuseppe Cerbone, dal ’70 al 2001 dirigente Olivetti e dal ’90 membro del Sesl, il Servizio ecologia. Cerbone nel 2002, ormai fuori dall’azienda e dipendente di una società che si occupa di rimozione amianto, viene contattato dalla Olivetti per un preventivo di bonifica del capannone di San Bernardo: «L’ammontare del costo – spiega Cerbone – era di oltre un miliardo di lire. La bonifica non venne effettuata perché la Olivetti cedette il capannone ad un certo Merletti, che non fece in tempo a bonificarlo perché a quanto ne so venne arrestato».
Le deleghe
Dice Guarini: «L’Olivetti aveva un’organigramma verticistico». A decidere i grandi interventi, comprese le bonifiche dai costi elevati, per i magistrati erano i dirigenti con l’avvallo del Cda, dell’amministratore delegato e del presidente. «Le deleghe non erano piene, i dirigenti non potevano decidere in autonomia» spiega, in sintesi, il procuratore capo della Repubblica di Ivrea, Giuseppe Ferrando.
Nessun commento:
Posta un commento