martedì 18 febbraio 2020

pc 18 febbraio - Il viscido revisionista Veltroni e la retorica delle vittime "tutte uguali". I compagni antifascisti caduti erano e sono al servizio della classe operaia e del popolo, i fasci sempre al guinzaglio dei padroni, c'è una bella differenza!


I cuori nerissimi di Walter Veltroni
Christian Raimo
jacobinitalia
17 Febbraio 2020

Per ricordare un giovane ucciso negli anni Settanta l'ex segretario del Pd equipara fascisti e antifascisti e riscrive una storia simile a quella che piace alle estreme destre
Ieri sul Corriere della sera Walter Veltroni, ex segretario della Fgci, ex militante del Pci, ex sindaco di Roma, ex segretario del Pd, ex ministro della cultura, ha scritto un lungo articolo su Sergio Ramelli, un giovanissimo militante neofascista massacrato barbaramente nel 1975 in un agguato, e morto dopo più di un mese di agonia. 

La storia di Ramelli è nota a chiunque conosca un po’ delle vicende politiche degli ultimi quarant’anni italiani. Ramelli dal suo funerale è diventato, anche suo malgrado, un’icona del neofascismo: la sua storia è quella di un camerata martire, al quale ogni anno a Milano migliaia di
militanti di CasaPound, Forza Nuova, Fratelli D’Italia, Lealtà e Azione, eccetera, vanno a rendere omaggio, con il saluto romano e il «Presente!» urlato tre volte.

Perché Ramelli sia diventato l’icona delle destre non è difficile da spiegare anche se occorre onestà intellettuale e amore per la complessità, ossia un approccio storico, per non sminuire il riconoscimento e lo sdegno per la brutalità dell’agguato senza astrarre e destoricizzare l’accaduto. Veltroni fa il contrario: apre il suo pezzo con un preambolo intellettualmente disonesto e tossico.

«Di storie come quella che sto per raccontare ce ne sono state molte, troppe, quando eravamo ragazzi. Vale la pena usare la memoria, non solo per un giorno, oggi che vediamo l’odio riemergere sui muri delle case di deportate morte da tempo e impazzare incontrollato su schermi tecnologici e moderni».

In un solo paragrafo, mettendo insieme in un unico minestrone indigesto il riemergere terribile dell’antisemitismo e del negazionismo, le storie diversissime di violenza degli anni Settanta e un giudizio paternalista contro le tecnologie moderne, squalifica da subito il suo approccio.

«Bisognerebbe scrivere l’antologia di Spoon River di quegli anni balordi e bastardi. Sono tanti, i ragazzi che non ci sono più. Potevano avere una divisa addosso, potevano essere di destra, potevano essere di sinistra. ‘Tutti, tutti dormono sulla collina’».

È chiaro quale sia l’intento che da anni persegue Veltroni: togliere dal dibattito storico l’analisi degli avvenimenti, e relegarli a una dimensione astratta, velenosamente mielosa, astorica e vischiosamente memorialistica, omologante, in cui esistono solo le vittime, tutte uguali e confuse, umiliante persino per i famigliari che vogliono preservarne la memoria.



Non è nemmeno il caso di scomodare René Girard, Giovanni De Luna, Daniele Giglioli, Slavoj Žižek, Richard Sennett, Annette Wieviorka e tutti quelli che hanno ragionato su come lo statuto della vittima abbia invaso il dibattito pubblico e persino la storia. Quello che fa Veltroni è molto più grossolano e scorretto. Sergio Ramelli viene ridotto a una figurina che non è mai stata né in vita né in morte: uno come tanti altri.

«Questo ragazzo, in niente dissimile fisicamente dai suoi coetanei di sinistra, ha idee di destra. Pier Paolo Pasolini, a smentire una diversità quasi antropologica, aveva scritto in una lettera a Italo Calvino: ‘Quando parlo di omologazione di tutti i giovani, per cui, dal suo corpo, dal suo comportamento e dalla sua ideologia inconscia e reale (l’edonismo consumistico) un giovane fascista non può essere distinto da tutti gli altri giovani, enuncio un fenomeno generale’».

Il Pasolini che usa Veltroni, quello per cui fascismo e antifascismo sarebbero uguali, e per cui il nemico è la modernità, è una caricatura revisionista di comodo accesso a una lettura superficiale del recente libercolo Il fascismo degli antifascisti (Garzanti) (Qui c’è un pezzo di Wu Ming 1 che ricostruisce bene il disgusto per il fascismo e la militanza antifascista di Pasolini). Sergio Ramelli è un ragazzo che ha idee fasciste, confuse, ingenue, come possono essere quando si è solo dei liceali chiaramente. Ha cominciato a costruirsi un’ideologia e un impegno politico da giovanissimo, e a esporsi. In nome di questa esposizione, verrà preso come bersaglio e ucciso.

La sua storia non assomiglia a quella di altri perché ha i capelli lunghi, e perché rossi e neri sono tutti uguali, ma perché per come tutta la sua generazione la politica è ovunque. E la violenza politica fa parte della militanza. Tutto questo ha chiaramente un impatto drammatico, dolorosissimo per milioni di persone. Ma immaginare di leggere quegli anni senza la consapevolezza di un’età trasfigurata dalla militanza anche violenta, dimenticare che c’erano milioni di persone che pensavano di poter trasformare la realtà attraverso una rivoluzione (accadeva in altri paesi) o di difendersi dalla violenza dello Stato (era un’ipotesi che in altri paesi – di fatto tutto il mondo mediterraneo e latino – portava a dittature feroci) vuol dire, ancora, essere scorretti se non dei revisionisti. Comprendere in modo complesso la storia non vuol dire giustificare o rivendicare i suoi momenti più brutali: vuol dire chiamare le cose con il proprio nome, lasciare ai protagonisti della storia le responsabilità e le scelte, ricostruendone la genesi e l’evoluzione.

Ramelli, scrive Veltroni facendosi scudo delle parole di un amico d’infanzia, «non era né di destra né di sinistra, e tanto bastava a etichettarlo come fascista». Anche qui è chiaro come, persino dando corda a quello che è un revisionismo amicale, chiamiamolo così, ciò che passava per la testa a un ragazzo di diciott’anni contasse e conti poco per la storia. Ramelli, che era un militante neofascista, è diventato un martire neofascista, anche ovviamente malgrado sé. Come ricostruisce Elia Rosati sul n. 42 della rivista Zapruder, i funerali di Ramelli furono la prima occasione per una strategia mitopoietica molto consapevole nel Movimento sociale italiano e nella destra neofascista tutta:

«Tra il 1968 ed il 1976 il neofascismo italiano si trovò a vivere un periodo intensissimo, in primis il Movimento sociale: tra fermenti neosquadristi, strategia della tensione, scontri di piazza, grandi successi/tonfi elettorali e un’infruttuosa lotta con i liberali di Malagodi e Bignardi per diventare l’unico partito d’ordine alla destra della Dc. Giorgio Almirante – segretario ininterrottamente dal 1969 al 1986 – provò a gestire questa fase, sfruttando con spregiudicatezza tutte le carte in suo possesso, in primis le piazze, con il perenne problema di governare emotivamente le varie fazioni interne al suo mondo, anche costruendo un nuovo capitolo dell’altra-memoria. […] L’occasione con cui sperimentare la propria narrazione storica si concretizza il 5 maggio 1975, durante il funerale per la morte di Sergio Ramelli, il futuro cuore nero ufficiale del partito. La vicenda – oggettivamente tragica – venne presentata come un caso storico paradigmatico: chiaro il movente e il colpevole – l’antifascismo militante – incorruttibile e pura la figura della vittima – giovanissima, sconosciuta alle cronache, perseguitata a scuola dalla sinistra extraparlamentare, colpita di notte sotto casa e lasciata lì semimorente».

L’operazione mitopoietica è selettiva e strumentale. I Cuori neri, come li chiamerà Luca Telese in un fortunato e velenosissimo libro anni dopo, sono giovani e vittime, a volte nemmeno dichiaratamente militanti, spesso hanno frequentato per qualche mese le sezioni del Fronte della gioventù, uccisi in agguati brutali, a cui vengono dedicate le sezioni neofascisti dagli anni Settanta fino a oggi; non più i militanti missini o di altre formazioni come Avanguardia Nazionale o Terza Posizione, morti in degli scontri con altri militanti di sinistra. I ragazzi, i giovanissimi, vengono cameratizzati soprattutto a cadavere caldo. Il Movimento sociale italiano a guida Almirante si rende conto che ha bisogno di eroi, e sfrutta – scrive ancora Elia Rosati – il massacro di giovanissimi per costruire una narrazione metastorica «secondo la quale: la violenza politica dei lunghi anni Settanta aveva trovato nell’uccidere un fascista non è reato il suo filo rosso; cominciando dai missini padovani morti nella sede del partito – in seguito a un’azione delle Brigate rosse – fino a quello che è considerato a destra come l’ultimo  strascico violento degli anni Settanta, la morte di Di Nella».

Veltroni avvalora in tutto e per tutto, anzi corrobora questa narrazione che s’inaugura proprio al funerale di Ramelli. Lo scenario storico che ricostruisce Veltroni è questo:

«Sono giorni orribili, a Milano. La città è l’epicentro della strategia della tensione, definizione non impropria. Tutto comincia non con Piazza Fontana, ma con la morte dell’agente Annarumma, nel novembre del 1969, ucciso durante scontri tra manifestanti marxisti-leninisti e polizia. Siamo nel pieno dell’autunno caldo. Che diventerà presto inverno. Il giorno dei funerali la città partecipa tutta intera. La tensione è alle stelle. La destra cavalca il dolore e l’indignazione. Un giovane con un fazzoletto rosso al collo si avvicina alla bara e la folla, nella quale ci sono molti neofascisti, lo aggredisce. Viene salvato a stento dalla polizia. Scrive la cronaca del Corriere della Sera: ‘Al salvataggio hanno contribuito l’onorevole Bettino Craxi, il sindacalista Giulio Polotti e Mario Aniasi, fratello del sindaco che si trovavano in quel punto. Poco lontano è avvenuto l’episodio di Capanna…’. Mario Capanna viene aggredito e picchiato dai fascisti. C’è una foto che racconta quegli anni folli. Il commissario Calabresi — che un mese dopo si troverà al centro della vicenda Pinelli e al culmine di un’odiosa campagna denigratoria sarà ucciso vigliaccamente davanti alla sua 500 — accompagna Capanna, dopo averlo salvato dal linciaggio. A Milano, esattamente un anno dopo Piazza Fontana, ci sarà la morte, di nuovo durante scontri con la polizia, dello studente ventitreenne di sinistra Saverio Saltarelli. La sua morte verrà raccontata dolorosamente da una canzone di Virgilio Savona, raffinato intellettuale che guidava, gramscianamente, il popolare Quartetto Cetra. Poi moriranno Roberto Franceschi, e tanti altri. Ragazzi di destra e di sinistra. Sono anni di sangue, a Milano».

Letto così è tutto un grande papocchio, scritto male, astorico, incomprensibile, confuso, colpevolmente sciatto, in cui tutti aggrediscono tutti, manifestano non si sa perché, si sparano a casaccio. Proviamo invece a concentrarci sul contesto neofascista per comprendere qualcosa.

Il Movimento sociale italiano fino al 1973, Elia Rosati lo ricostruisce bene, è il partito dell’ordine, sta tentando un maquillage che lo affranchi dalla storia mussoliniana, un affiancamento alla Dc e ai liberali in parlamento, già nelle elezioni precedenti del 1972, in nome di un atlantismo che paga, almeno sembra, in termini di consensi elettorali. Ma molti giovani militanti non hanno nessuna simpatia né per l’idea di partito dell’ordine, né per quella di fare da sostegno alla Dc andreottiana, né per l’atlantismo.

«Infatti il 12 aprile del 1973 a Milano una manifestazione nazionale del Msi, vietata e poi disconosciuta dal partito stesso, degenerò in forti scontri che tennero in ostaggio la parte nord est del centro cittadino per diverse ore. Durante gli incidenti di piazza alcuni sanbabilini uccisero con una bomba a mano l’agente di Ps Antonio Marino: nel giro di pochi istanti tutta la campagna missina per presentarsi come partito d’ordine crollò; in una manifestazione del Msi era stato ucciso un poliziotto. Fu così che la vicenda tragica di Sergio Ramelli, deceduto in seguito ai traumi ricevuti dopo un’agonia di quarantotto giorni (il 29 aprile 1975), offrì la cinica occasione per un riscatto mediatico e storico».

In mezzo, non dimentichiamolo, c’è anche la strage di Brescia, 1974, che mostra in modo plateale la contiguità tra eversione neofascista e apparati dello Stato. Questa svolta decisiva viene ridotta da Veltroni a quattro elusive righe:

«Ignazio La Russa, che è stato avvocato della famiglia Ramelli, racconta come tutto, per la destra, cambia con la morte dell’agente Marino, quando due esponenti neofascisti gettano bombe a mano contro la polizia. Fino a quel punto, dice La Russa, ‘avevamo un rapporto privilegiato con le forze dell’ordine. Quella follia cambiò tutto’».

Attraverso la morte di Ramelli, come di altri, da Francesco Cecchin (18 anni) e Paolo Di Nella (20 anni), e attraverso soprattutto il processo nel 1987, in una fase storica completamente mutata, l’Msi trova una specie di rigenerazione. Invece di essere un partito che guarda ai colonnelli e al franchismo, sembra essere un capro espiatorio, e s’imbelletta da forza democratica: proprio quella narrazione che servirà a Gianfranco Fini, a Gianni Alemanno, a Giorgia Meloni, per provare a piegare l’antifascismo a violenza ingiustificata, e a presentare il neofascismo in un alveo democratico. Non a caso i primi a ringraziare Veltroni del suo articolo sono proprio Gianni Alemanno, Giorgia Meloni e Il Secolo d’Italia.

Ma da quando, nel 2008, Gianfranco Fini esce definitivamente dall’agone politico, la storia cambia completamente: i movimenti neofascisti, CasaPound in primis (sulla scorta ideologica di Terza Posizione, e quindi anche di una distanza storica dal Movimento sociale italiano) rivendicano la violenza, lo squadrismo, l’arditisimo, e Sergio Ramelli è uno dei morti con cui si cammina insieme, come i martiri di Acca Larentia a Roma, come tutto il pantheon di martiri degli anni Settanta e Ottanta.

Tutto questo piano storico e politico insieme, Veltroni non lo riconosce o non lo contempla o colpevolmente lo elide. Così finisce il suo articolo:

«Sergio e gli altri, divisi sanguinosamente in vita, devono oggi essere uniti nella memoria collettiva. Uniti, almeno sulla collina. Lontani dagli sciagurati che, in pianura, non erano capaci di capire e vivere la legittimità e la bellezza dell’altro da sé».

Quando era sindaco di Roma, Veltroni ha dedicato molta dell’odonomastica romana ai morti giovani di quegli anni, a quella che vorrebbe fosse un’unica Spoon River. A Villa Chigi per esempio, fece apporre una targa con scritto Paolo Di Nella, 1963-1983, vittima della violenza. Senza un aggettivo né una contestualizzazione storica. Come se in quegli anni fosse passato uno tsunami nelle piazze italiane. Paradossalmente c’è voluto il sindaco Gianni Alemanno per aggiungere Vittima della violenza politica.

Rimangono poi due questioni più cruciali. La prima riguarda la disgustosa associazione tra cuori neri e cuori rossi. Soprattutto in questi giorni in cui si commemora il quarantennale della morte (anche questo un massacro brutale) di Valerio Verbano. Verbano era un giovane antifascista e aveva raccolto un lungo dossier che mostrava i rapporti tra criminalità, eversione nera e forze dell’ordine, l’esatto patto letale che portò ad avere in Italia il rischio concreto di una deriva alla greca. Questa storia non è la stessa della militanza neofascista, non è nemmeno lontanamente assimilabile, come fa Veltroni nel suo articolo. Vogliamo davvero ridurre la conoscenza storica di quegli anni alla narrazione Telese-Veltroni?

La seconda riguarda il giudizio che dobbiamo dare come storici sulla violenza politica che fu tra i Settanta e gli Ottanta un fatto terribilmente drammatico e al tempo stesso di massa. È possibile farlo decontestualizzando la violenza, analizzandola a prescindere del contesto sociale, evitando di storicizzarla?  Questa è una domanda vera, laica, aperta, per gli storici. Gli ultimi libri di Monica Galfré e di Miguel Gotor ne ragionano, con l’ovvia complessità, e il dolore che serve. Senza facili semplificazioni che fanno specie quando le fa un ex sindaco di Roma, e fanno ancora più specie quando si scrivono editoriali sul Corriere della sera.

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