La madre di Demasi: "I tedeschi sono a piede libero, gli italiani escono di cella e lavorano: che condanna è?"
Dieci come una inesorabile permanenza agli inferi.
Senza più una vita, senza speranza. Dalla notte del 6 dicembre 2007. "Guardo gli
amici di mio figlio che ne aveva 26 quando è morto nel rogo della Thyssen e ogni
volta piango. Li vedo sposati, vanno a passeggio con i loro bambini e penso a
come sarebbe stata la nostra di vita, se non ce lo avessero portato via": Rosina
Platì, è la mamma di Giuseppe Demasi, morto a 26 anni nell'incendio scoppiato
sulla linea 5. Aspetta ancora che per gli "assassini" di suo figlio si aprano le
porte del carcere. Li chiama proprio così. "Certo che sono assassini. Tutte le
sentenze
lo hanno stabilito. Solo che non vengono trattati come tali dalla giustizia
- dice - vengono protetti. Mentre i nostri ragazzi sono da dieci anni ormai
dentro un cimitero ".
La sentenza per Harald Espenhahn e Gerard Priegnitz non è ancora stata eseguita dieci anni dopo la tragedia, e un anno e mezzo dopo la sentenza definitiva. Come vivete questa attesa?
"La nostra vita non esiste. Non c'è attesa perché non c'è più speranza. Stiamo sempre peggio anno dopo anno. Alla fine è diventato persino difficile sopportarci tra di noi familiari. Siamo disillusi: non è rimasto quasi nulla del processo che era incominciato. I tedeschi si fanno la loro vita in Germania, Moroni e Pucci escono dal cacere per andare a lavorare. Non possiamo nemmeno chiamarla una vera condanna questa".
Sapere che sono stati condannati è stata, almeno questa, una consolazione?
"Ci sono voluti cinque gradi di giudizio. E poi li hanno messi in carcere insieme a due a due, come se dovessero partire per una vacanza. Harald Espenhahn è stato condannato la prima volta a 16 anni. Adesso, se andrà mai in carcere, ne sconterà a malapena cinque. Credevamo nella giustizia all'inizio, ci ha dato grande coraggio e forza pensare che si potesse arrivare a una punizione giusta per gli assassini dei nostri figli. Oggi sappiamo che era solo un'illusione. Che si sono spesi soldi, tempo ed energia per ottenere quasi nulla".
Li chiama assassini come se avessero impugnato una pistola e avessero sparato, ma non è proprio così.
"È quasi peggio, se ci penso. Ricordo bene come cercarono di nascondere le prove. Chiamarono i testimoni prima del processo minacciandoli perché non parlassero.
Sparare con una pistola richiede più coraggio. Loro avevano solo paura della condanna".
E il progetto di un monumento in ricordo delle vittime della Thyssen? Anche questa è stata una lunga gestazione.
"Dopo Chiamparino e Fassino, Appendino aveva promesso di realizzarlo. Ci aveva detto che sarebbe stato pronto per il decennale. Ma per mesi è scomparsa anche lei. Le ultime notizie sono che il 6 dicembre sarà posata la prima pietra. Speriamo solo che dopo ne seguano delle altre".
La sentenza per Harald Espenhahn e Gerard Priegnitz non è ancora stata eseguita dieci anni dopo la tragedia, e un anno e mezzo dopo la sentenza definitiva. Come vivete questa attesa?
"La nostra vita non esiste. Non c'è attesa perché non c'è più speranza. Stiamo sempre peggio anno dopo anno. Alla fine è diventato persino difficile sopportarci tra di noi familiari. Siamo disillusi: non è rimasto quasi nulla del processo che era incominciato. I tedeschi si fanno la loro vita in Germania, Moroni e Pucci escono dal cacere per andare a lavorare. Non possiamo nemmeno chiamarla una vera condanna questa".
Sapere che sono stati condannati è stata, almeno questa, una consolazione?
"Ci sono voluti cinque gradi di giudizio. E poi li hanno messi in carcere insieme a due a due, come se dovessero partire per una vacanza. Harald Espenhahn è stato condannato la prima volta a 16 anni. Adesso, se andrà mai in carcere, ne sconterà a malapena cinque. Credevamo nella giustizia all'inizio, ci ha dato grande coraggio e forza pensare che si potesse arrivare a una punizione giusta per gli assassini dei nostri figli. Oggi sappiamo che era solo un'illusione. Che si sono spesi soldi, tempo ed energia per ottenere quasi nulla".
Li chiama assassini come se avessero impugnato una pistola e avessero sparato, ma non è proprio così.
"È quasi peggio, se ci penso. Ricordo bene come cercarono di nascondere le prove. Chiamarono i testimoni prima del processo minacciandoli perché non parlassero.
Sparare con una pistola richiede più coraggio. Loro avevano solo paura della condanna".
E il progetto di un monumento in ricordo delle vittime della Thyssen? Anche questa è stata una lunga gestazione.
"Dopo Chiamparino e Fassino, Appendino aveva promesso di realizzarlo. Ci aveva detto che sarebbe stato pronto per il decennale. Ma per mesi è scomparsa anche lei. Le ultime notizie sono che il 6 dicembre sarà posata la prima pietra. Speriamo solo che dopo ne seguano delle altre".
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