martedì 10 ottobre 2017

pc 10 ottobre - PARLIAMO DELLA TUNISIA - SOPRATTUTTO DELLE LOTTE CHE NON SI SANNO - Dal seminario di proletari comunisti di quest'estate

Da questo paese è scoppiata la prima rivolta araba che con un effetto domino ha coinvolto quasi tutti i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente e non solo. In Tunisia questa Rivolta Popolare è riuscita ad abbattere il regime autocratico di Ben Ali al potere da oltre 20 anni.

La Tunisia è un paese pieno di contraddizioni, e tra quelli che definiamo “oppressi dall’imperialismo”, cioè alcuni paesi imperialisti (in particolare Francia, Italia, Germania e USA) che sfruttando le materie prime e le risorse del paese lo mantengono in uno stato semi-coloniale. Nonostante questo il paese ha una struttura economica simile a quella di un paese sviluppato. Infatti il settore che contribuisce maggiormente al PIL è il settore terziario (servizi) con il 55,5% segue quello secondario (industria) con il 28,5% e infine quello primario (allevamento, agricoltura e pesca) con il 16%. Ciò significa che nel paese la classe operaia ha o può potenzialmente avere un peso relativo non indifferente. Significa anche che vi sono contemporaneamente caratteristiche da paese sottosviluppato che convivono con caratteristiche simili al nostro paese in cui il settore terziario è predominante. Anche la divisione della forza lavoro tra i settori rispecchia le stesse proporzioni.

A quasi 8 anni da quella rivolta siamo in un processo di restaurazione, la borghesia compradora tunisina è rimasta alla guida del paese e anzi ha allargato la propria base ad una sezione di essa filo-”orientale” legata principalmente a Qatar e Turchia che adesso è al potere insieme al resto della borghesia compradora che fin dall’indipendenza guida il paese: quella dipendente dall’imperialismo, francese in primis, e a seguire da quello italiano, tedesco e statunitense.

Nonostante lo stato di polizia non sia stato minimamente scalfito dalla Rivolta, infatti viene utilizzato dalla borghesia per questa progressiva restaurazione, ciò non è possibile farlo in pace.
Il popolo tunisino da quasi 8 anni non ha smesso di scendere in piazza sia sotto forma di vertenze episodiche di vari settori dei lavoratori, sia sotto forma di lotte popolari che a volte sono sfociate in
rivolte locali e anche nazionali.

Quella che è sembrata quasi una replica della Rivolta del 2010/2011, è stata la Rivolta di Kasserine nell’inverno del 2016. Scoppiata nell’omonima città si è diffusa in circa un mese su tutto il territorio nazionale. Motivo scatenante il suicidio di un giovane “laureato disoccupato” dopo settimane di sit-in davanti la sede del governo locale insieme a decine di altri giovani nelle sue stesse condizioni per protestare contro la manomissione di una graduatoria d’impiego in maniera clientelare (pratica mai cessata e tipica dei regimi precedenti). In tutto il paese sono scoppiati scontri con la polizia: in tutte le città principali (compresi i sobborghi della capitale) tutte le principali rotonde stradali erano bloccate da pneumatici in fiamme, cosi come tutte le strade principali del paese, caserme della polizia date alle fiamme e cosi via. Per due mesi è stato imposto il coprifuoco in tutto il paese, spesso violato dai giovani ribelli in alcune città. Infine questa rivolta si è spenta da sé dopo due mesi ma ha fatto realmente tremare la classe dominante facendole ricordare la recente rivolta precedente.

Un’altra rivolta importante scoppiata qualche mese dopo è stata quella nelle isole Kerkennah che sono un piccolo arcipelago di pescatori al largo della città di Sfax in cui l’attività economica principale oltre alla pesca è lo sfruttamento di un giacimento petrolifero da parte di una compagnia britannica: la Petrofac.
Nel caso specifico vi sono due problemi: l’attività petrolifera cosi svolta danneggia la pesca che è l’attività principale dell’arcipelago. Inoltre gli abitanti reclamano più posti di lavoro nella compagnia petrolifera: se una risorsa dell’arcipelago permette di fare ingenti profitti ad una compagnia straniera perché la compagnia non assume più manodopera locale disoccupata?
Al rifiuto di queste richieste l’arcipelago è insorto: è stato bloccato l’accesso alla compagnia petrolifera ed è stato fatto un blocco nell’isola principale, in cui si trova il porto da cui arrivano i traghetti da Sfax, che è collegata tramite ponti alle altre isole principali. Vere e proprie truppe di occupazione sono state mandate dalla terraferma. La risposta dei lavoratori è stata da manuale, i portuali di Sfax ad un certo punto hanno rifiutato di imbarcare i mezzi della polizia e in seguito hanno anche interrotto i collegamenti. Le truppe di occupazione rimaste isolate sull’arcipelago non avevano tregua giorno e notte, emblematiche le immagini delle camionette della polizia buttate in mare giù dalla banchina del porto. Come a Kasserine il governo ha agitato lo spauracchio delle infiltrazioni terroristiche stavolta facendo riferimento a “estremisti religiosi ed estremisti di sinistra”.

Oltre a questi grandi movimenti sociali, non passa giorno in cui non vi siano scioperi più o meno estesi in tutti i settori popolari che hanno partecipato alla rivolta: studenti e insegnanti, i minatori di Gafsa, le operaie della fabbrica tessile Mamotex di Chebba, gli operai della Coreplast (multinazionale tedesca) di Kef dove l’azienda vuole chiudere i battenti e riaprirli vicino ad Hammamet per un solo motivo: risparmiare sul trasporto delle merci. Infatti Kef è una regione interna e mal collegata, invece vicino Hammamet vi sono infrastrutture sviluppate come l’autostrada A1 che nel tratto Tunisi-Hammamet è provvista di 3 corsie, dell’aeroporto internazionale di Enfidha e soprattutto del porto in acque profonde sempre ad Enfidha, il più grande porto del paese adibito per ricevere containers.

Un’altra grande lotta interessante è stata quella dei contadini dell’Oasi di Jemna i quali hanno occupato l’oasi il giorno prima che Ben Ali scappasse e autorganizzandosi in cooperativa hanno impiegato più contadini rispetto alla gestione precedente legata al regime, hanno aumentato la produzione piantando inoltre 2.000 palme da dattero in più. Inoltre i profitti sono stati reinvestiti all’interno della comunità (ristrutturazione di scuole, cimitero, moschee, costruzione del mercato coperto, acquisto di un ambulanza) oltre a questo i contadini finanziano associazioni per la cura del cancro in altre città del paese e hanno inviato aiuti finanziari e in natura ai rifugiati libici scappati dall’aggressione occidentale in quel paese. Quest’esperienza di lotta contadina è salita alla ribalta quando nel settembre 2016 il governo ha vietato ai contadini di vendere il raccolto intimando loro di consegnarlo alle autorità cosi come di abbandonare l’oasi. Come risposta i contadini hanno indetto una 2 giorni di solidarietà, in cui sarebbero stati organizzati dibattiti e infine avrebbe avuto luogo l’asta di vendita del raccolto di datteri. Sono accorsi migliaia di solidali da tutto il paese. In seguito alcune università hanno invitato i contadini per conoscere meglio questa esperienza e un’università ha anche inviato alcuni studenti in gita per conoscere direttamente questa esperienza.

Nell’estremo Sud del paese, a Tataouine più recentemente si è sviluppata un’importante lotta sociale. Nonostante sia la principale regione del paese in cui vi siano giacimenti petroliferi, essa è tra le più povere del paese con oltre il 50% di disoccupazione. La popolazione locale ha occupato il principale pozzo in località Borma facendo due richieste: assunzione di una persona per ogni famiglia della regione e che il governo reinvesta il 30% dei profitti petroliferi nella regione. Le richieste sono rimaste inascoltate quindi nel giro di pochi giorni la popolazione ha organizzato blocchi stradali in ogni villaggio, arteria, capoluogo della regione e accesso ad essa per un totale di circa 35 sit-in. Come a Jemna i manifestanti si sono organizzati in maniera interessante: ogni sit-in ha eletto un rappresentante che insieme agli altri faceva parte di una sorta di “assemblea regionale popolare” la quale a sua volta ha eletto 3 rappresentanti deputati a parlamentare nelle trattative con il governo. La regione è rimasta virtualmente isolata per due mesi fino a quando il governo ha provato la prova di forza inviando centinaia di poliziotti per sgomberare i sit-in e in particolare quello di el Borma. Durante gli scontri un giovane è stato investito da un mezzo della polizia con il risultato che i commissariati di polizia, il municipio di Tataouine (capoluogo) e del governo regionale sono stati dati alle fiamme e la regione è rimasta senza forze di polizia per quasi 10 giorni. Infine il governo ha formalmente aderito ad alcune richieste con la contropartita di smobilitare i sit-in e riprendere l’estrazione di petrolio. Simbolicamente è stato lasciato il sit in di el Borma per monitorare sull’implementazione di tali accordi.

Un movimento di altra natura principalmente presente nella capitale e nelle grandi città, animato dalla piccola e media borghesia intellettuale, in particolare studenti, è quello di “Manich Msemah” (io non perdono n.d.a.) un movimento nato per contestare l’ormai approvata legge di “riconciliazione economica” con gli uomini d’affari legati al regime di Ben Ali (vedi recente reportage su questo blog n.d.a.).

In tutte queste lotte politiche e sociali le donne hanno un ruolo particolare, d’altronde anche durante la Rivolta Popolare son state in prima linea nella cacciata di Ben Ali. Ad esempio in una lotta dei diplomati disoccupati a Sidi Bouzid (la stessa città in cui il giovane Mohamed Bouazizi si diede fuoco innescando la rivolta) le donne hanno formato un comitato separato dagli scioperanti maschi in quanto non venivano mai consultate per quanto concerne le decisioni inerenti la lotta o quando c’era da fare incontri con la controparte.

In questo contesto generale ci interessa come agiscono nella lotta di classe le forze soggettive organizzate guidate da una strategia rivoluzionaria. Su questo possiamo dire che la galassia della sinistra parlamentare racchiusa nel Fronte Popolare ormai appartiene al campo nemico, appestata com’è da riformismo ed elettoralismo. A “sinistra” del FP vi sono alcuni partiti marxisti-leninisti e micro gruppi trotskisti anch’essi inconcludenti, anche se la base di tutte queste forze partecipa a molti movimenti di lotta e in particolare un partito stalinista, il Watad (rivoluzionario) [watad in arabo significa patriottico/patria; questo partito si chiama “watad rivoluzionario” in quanto è una scissione del partito Watad, il secondo partito all’interno del FP n.d.a.] è particolarmente attivo nel Comitato Tunisino per la Liberazione di Georges Ibrahim Abdallah.

Per quanto riguarda invece le forze rivoluzionarie appartenente alla galassia maoista e che hanno l’obiettivo di perseguire la strategia della Guerra Popolare esse sono costituite da due organizzazioni e da un partito, tutte si pongono l’importante questione del partito come strumento per incominciare un processo rivoluzionario nel quadro della strategia generale. Questi compagni sono presenti in tutti i movimenti politici e sociali e in alcuni casi hanno avuto importanti ruoli di direzione in essi.

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