Da questo paese è scoppiata la prima
rivolta araba che con un effetto domino ha coinvolto quasi tutti i
paesi del Nord Africa e del Medio Oriente e non solo. In Tunisia
questa Rivolta Popolare è riuscita ad abbattere il regime
autocratico di Ben Ali al potere da oltre 20 anni.
La
Tunisia è un paese pieno di contraddizioni, e tra quelli che
definiamo “oppressi dall’imperialismo”, cioè alcuni paesi
imperialisti (in particolare Francia, Italia, Germania e USA) che
sfruttando le materie prime e le risorse del paese lo mantengono in
uno stato semi-coloniale. Nonostante questo il paese ha una struttura
economica simile a quella di un paese sviluppato. Infatti il settore
che contribuisce maggiormente al PIL è il settore terziario
(servizi) con il 55,5% segue quello secondario (industria) con il
28,5% e infine quello primario (allevamento, agricoltura e pesca) con
il 16%. Ciò significa che nel paese la classe operaia ha o può
potenzialmente avere un peso relativo non indifferente. Significa
anche che vi sono contemporaneamente caratteristiche da paese
sottosviluppato che convivono con caratteristiche simili al nostro
paese in cui il settore terziario è predominante. Anche la divisione
della forza lavoro tra i settori rispecchia le stesse proporzioni.
A
quasi 8 anni da quella rivolta siamo in un processo di restaurazione,
la borghesia compradora tunisina è rimasta alla guida del paese e
anzi ha allargato la propria base ad una sezione di essa
filo-”orientale” legata principalmente a Qatar e Turchia che
adesso è al potere insieme al resto della borghesia compradora che
fin dall’indipendenza guida il paese: quella dipendente
dall’imperialismo, francese in primis, e a seguire da quello
italiano, tedesco e statunitense.
Nonostante
lo stato di polizia non sia stato minimamente scalfito dalla Rivolta,
infatti viene utilizzato dalla borghesia per questa progressiva
restaurazione, ciò non è possibile farlo in pace.
Il
popolo tunisino da quasi 8 anni non ha smesso di scendere in piazza
sia sotto forma di vertenze episodiche di vari settori dei
lavoratori, sia sotto forma di lotte popolari che a volte sono
sfociate in
rivolte locali e anche nazionali.
Quella
che è sembrata quasi una replica della Rivolta del 2010/2011, è
stata la Rivolta di Kasserine nell’inverno del 2016. Scoppiata
nell’omonima città si è diffusa in circa un mese su tutto il
territorio nazionale. Motivo scatenante il suicidio di un giovane
“laureato disoccupato” dopo settimane di sit-in davanti la sede
del governo locale insieme a decine di altri giovani nelle sue stesse
condizioni per protestare contro la manomissione di una graduatoria
d’impiego in maniera clientelare (pratica mai cessata e tipica dei
regimi precedenti). In tutto il paese sono scoppiati scontri con la
polizia: in tutte le città principali (compresi i sobborghi della
capitale) tutte le principali rotonde stradali erano bloccate da
pneumatici in fiamme, cosi come tutte le strade principali del paese,
caserme della polizia date alle fiamme e cosi via. Per due mesi è
stato imposto il coprifuoco in tutto il paese, spesso violato dai
giovani ribelli in alcune città. Infine questa rivolta si è spenta
da sé dopo due mesi ma ha fatto realmente tremare la classe
dominante facendole ricordare la recente rivolta precedente.
Un’altra
rivolta importante scoppiata qualche mese dopo è stata quella nelle
isole Kerkennah che sono un piccolo arcipelago di pescatori al largo
della città di Sfax in cui l’attività economica principale oltre
alla pesca è lo sfruttamento di un giacimento petrolifero da parte
di una compagnia britannica: la Petrofac.
Nel
caso specifico vi sono due problemi: l’attività petrolifera cosi
svolta danneggia la pesca che è l’attività principale
dell’arcipelago. Inoltre gli abitanti reclamano più posti di
lavoro nella compagnia petrolifera: se una risorsa dell’arcipelago
permette di fare ingenti profitti ad una compagnia straniera perché
la compagnia non assume più manodopera locale disoccupata?
Al
rifiuto di queste richieste l’arcipelago è insorto: è stato
bloccato l’accesso alla compagnia petrolifera ed è stato fatto un
blocco nell’isola principale, in cui si trova il porto da cui
arrivano i traghetti da Sfax, che è collegata tramite ponti alle
altre isole principali. Vere e proprie truppe di occupazione sono
state mandate dalla terraferma. La risposta dei lavoratori è stata
da manuale, i portuali di Sfax ad un certo punto hanno rifiutato di
imbarcare i mezzi della polizia e in seguito hanno anche interrotto i
collegamenti. Le truppe di occupazione rimaste isolate
sull’arcipelago non avevano tregua giorno e notte, emblematiche le
immagini delle camionette della polizia buttate in mare giù dalla
banchina del porto. Come a Kasserine il governo ha agitato lo
spauracchio delle infiltrazioni terroristiche stavolta facendo
riferimento a “estremisti religiosi ed estremisti di sinistra”.
Oltre
a questi grandi movimenti sociali, non passa giorno in cui non vi
siano scioperi più o meno estesi in tutti i settori popolari che
hanno partecipato alla rivolta: studenti e insegnanti, i minatori di
Gafsa, le operaie della fabbrica tessile Mamotex di Chebba, gli
operai della Coreplast (multinazionale tedesca) di Kef dove l’azienda
vuole chiudere i battenti e riaprirli vicino ad Hammamet per un solo
motivo: risparmiare sul trasporto delle merci. Infatti Kef è una
regione interna e mal collegata, invece vicino Hammamet vi sono
infrastrutture sviluppate come l’autostrada A1 che nel tratto
Tunisi-Hammamet è provvista di 3 corsie, dell’aeroporto
internazionale di Enfidha e soprattutto del porto in acque profonde
sempre ad Enfidha, il più grande porto del paese adibito per
ricevere containers.
Un’altra
grande lotta interessante è stata quella dei contadini dell’Oasi
di Jemna i quali hanno occupato l’oasi il giorno prima che Ben Ali
scappasse e autorganizzandosi in cooperativa hanno impiegato più
contadini rispetto alla gestione precedente legata al regime, hanno
aumentato la produzione piantando inoltre 2.000 palme da dattero in
più. Inoltre i profitti sono stati reinvestiti all’interno della
comunità (ristrutturazione di scuole, cimitero, moschee, costruzione
del mercato coperto, acquisto di un ambulanza) oltre a questo i
contadini finanziano associazioni per la cura del cancro in altre
città del paese e hanno inviato aiuti finanziari e in natura ai
rifugiati libici scappati dall’aggressione occidentale in quel
paese. Quest’esperienza di lotta contadina è salita alla ribalta
quando nel settembre 2016 il governo ha vietato ai contadini di
vendere il raccolto intimando loro di consegnarlo alle autorità cosi
come di abbandonare l’oasi. Come risposta i contadini hanno indetto
una 2 giorni di solidarietà, in cui sarebbero stati organizzati
dibattiti e infine avrebbe avuto luogo l’asta di vendita del
raccolto di datteri. Sono accorsi migliaia di solidali da tutto il
paese. In seguito alcune università hanno invitato i contadini per
conoscere meglio questa esperienza e un’università ha anche
inviato alcuni studenti in gita per conoscere direttamente questa
esperienza.
Nell’estremo
Sud del paese, a Tataouine più recentemente si è sviluppata
un’importante lotta sociale. Nonostante sia la principale regione
del paese in cui vi siano giacimenti petroliferi, essa è tra le più
povere del paese con oltre il 50% di disoccupazione. La popolazione
locale ha occupato il principale pozzo in località Borma facendo due
richieste: assunzione di una persona per ogni famiglia della regione
e che il governo reinvesta il 30% dei profitti petroliferi nella
regione. Le richieste sono rimaste inascoltate quindi nel giro di
pochi giorni la popolazione ha organizzato blocchi stradali in ogni
villaggio, arteria, capoluogo della regione e accesso ad essa per un
totale di circa 35 sit-in. Come a Jemna i manifestanti si sono
organizzati in maniera interessante: ogni sit-in ha eletto un
rappresentante che insieme agli altri faceva parte di una sorta di
“assemblea regionale popolare” la quale a sua volta ha eletto 3
rappresentanti deputati a parlamentare nelle trattative con il
governo. La regione è rimasta virtualmente isolata per due mesi fino
a quando il governo ha provato la prova di forza inviando centinaia
di poliziotti per sgomberare i sit-in e in particolare quello di el
Borma. Durante gli scontri un giovane è stato investito da un mezzo
della polizia con il risultato che i commissariati di polizia, il
municipio di Tataouine (capoluogo) e del governo regionale sono stati
dati alle fiamme e la regione è rimasta senza forze di polizia per
quasi 10 giorni. Infine il governo ha formalmente aderito ad alcune
richieste con la contropartita di smobilitare i sit-in e riprendere
l’estrazione di petrolio. Simbolicamente è stato lasciato il sit
in di el Borma per monitorare sull’implementazione di tali accordi.
Un
movimento di altra natura principalmente presente nella capitale e
nelle grandi città, animato dalla piccola e media borghesia
intellettuale, in particolare studenti, è quello di “Manich
Msemah” (io non
perdono n.d.a.) un
movimento nato per contestare l’ormai approvata legge di
“riconciliazione economica” con gli uomini d’affari legati al
regime di Ben Ali (vedi
recente reportage su questo blog n.d.a.).
In
tutte queste lotte politiche e sociali le donne hanno un ruolo
particolare, d’altronde anche durante la Rivolta Popolare son state
in prima linea nella cacciata di Ben Ali. Ad esempio in una lotta dei
diplomati disoccupati a Sidi Bouzid (la stessa città in cui il
giovane Mohamed Bouazizi si diede fuoco innescando la rivolta) le
donne hanno formato un comitato separato dagli scioperanti maschi in
quanto non venivano mai consultate per quanto concerne le decisioni
inerenti la lotta o quando c’era da fare incontri con la
controparte.
In
questo contesto generale ci interessa come agiscono nella lotta di
classe le forze soggettive organizzate guidate da una strategia
rivoluzionaria. Su questo possiamo dire che la galassia della
sinistra parlamentare racchiusa nel Fronte Popolare ormai appartiene
al campo nemico, appestata com’è da riformismo ed elettoralismo. A
“sinistra” del FP vi sono alcuni partiti marxisti-leninisti e
micro gruppi trotskisti anch’essi inconcludenti, anche se la base
di tutte queste forze partecipa a molti movimenti di lotta e in
particolare un partito stalinista, il Watad (rivoluzionario) [watad
in arabo significa patriottico/patria; questo partito si chiama
“watad rivoluzionario” in quanto è una scissione del partito
Watad, il secondo partito all’interno del FP n.d.a.]
è particolarmente attivo nel Comitato Tunisino per la Liberazione di
Georges Ibrahim Abdallah.
Per
quanto riguarda invece le forze rivoluzionarie appartenente alla
galassia maoista e che hanno l’obiettivo di perseguire la strategia
della Guerra Popolare esse sono costituite da due organizzazioni e da
un partito, tutte si pongono l’importante questione del partito
come strumento per incominciare un processo rivoluzionario nel quadro
della strategia generale. Questi compagni sono presenti in tutti i
movimenti politici e sociali e in alcuni casi hanno avuto importanti
ruoli di direzione in essi.
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