Da infoaut
Il punto zero dell'8 marzo: di donne, sciopero e sovversione sociale
"La
schiavitù alla catena di montaggio non è la liberazione dalla schiavitù
del lavandino di cucina. Quelli che lo negano negano anche la schiavitù
della catena di montaggio, provando ancora una volta che se non si conosce quanto le donne sono sfruttate non si conosce realmente quanto gli uomini lo sono"
"Donne e sovversione sociale", Mariarosa Dalla Costa.
Nell'avvicinarci
e costruire la data dell'otto marzo è stato prezioso il punto vista di
alcune militanti operaiste, marxiste e femministe degli anni '70. Uno
sguardo indirizzato verso la dimensione di classe all'interno della
subordinazione femminile, distante da un'orizzontalismo delle
rivendicazioni "di genere", soggette, in tanti casi, a un facile
recupero nei processi di trasformazione capitalistica, capaci di
tollerare e comprendere un'ampia differenziazione orizzontale della
soggettività di classe senza però rincunciare un'alta gerarchizzazione
verticale del comando su queste.
Di
queste militanti è il merito di aver tematizzato il ruolo del conflitto
nel lavoro riproduttivo e domestico analizzandolo all'interno dello
scontro capitalistico in atto. Una lotta per il salario domestico, una
lotta in cui produzione e riproduzione sociale venissero negate, in cui
l'identità ed il ruolo sociale si ridiscutessero nel processi in
divenire aperti sul conflitto del negarsi nella propria funzione-per. "Quando
l'operaio salariato lotta per avere un aumento salariale attacca il suo
ruolo sociale ma ne rimane all'interno. Quando noi lottiamo per il
salario lottiamo direttamente e senza ambiguità contro il nostro ruolo
sociale" (Mariarosa Dalla Costa, Potere femminile e sovversione
sociale, Marsilio, Padova, 1972, p.35). È il "punto zero" della
rivoluzione, quello più profondo: il porsi contro il proprio ruolo
sociale, produttivo e riproduttivo, finanche simbolico, attraverso un
conflitto per costruire una nuova identità nella cooperazione della
lotta, "identità che appunto può consistere solo in un nuovo grado di potere sociale" (p. 32), perché è su questo nodo che uno scontro si apre.
Gli
anni Settanta sono finiti, ma alcune contraddizioni rimangono e si
approfondiscono nella nuova divisione internazionale del lavoro che ha
ridisegnato centri e periferie del rapporto globale di
capitale. In questra ristrutturazione è stata centrale la tendenza alla cosiddetta "femminilizzazione del lavoro": le caratteristiche dello sfruttamento prima riservate solo alle donne, a una determinazione storica, materiale e simbolica del femminile, nel loro lavoro domestico - in cui ad un'occultazione del valore del lavoro produttivo viene unita una naturalizzazione di quello riproduttivo, non considerandone la produttività - sono ora allargate ad una più ampia dimensione della subalternità proletaria, non solo in base al genere.
capitale. In questra ristrutturazione è stata centrale la tendenza alla cosiddetta "femminilizzazione del lavoro": le caratteristiche dello sfruttamento prima riservate solo alle donne, a una determinazione storica, materiale e simbolica del femminile, nel loro lavoro domestico - in cui ad un'occultazione del valore del lavoro produttivo viene unita una naturalizzazione di quello riproduttivo, non considerandone la produttività - sono ora allargate ad una più ampia dimensione della subalternità proletaria, non solo in base al genere.
La
crisi di valorizzazione del capitale cerca vie d'uscita
nell'espropriazione di capacità umana vivente per rimercificarla dentro
nuovi rapporti di sfruttamento: abbassandone il costo, trasformandone la
soggettività. Il capitale accumula sulla distruzione dell'umano. È
sulle spalle dei giovani e delle donne che quest'accumulazione affonda
in questa fase della crisi alle nostre latitudini. La nevralgica
contraddizione tra disoccupazione (considerata improduttiva, nella quale
i costi della riproduzione sociale sono totalemtne scaricati verso il
basso) e sfruttamento ottocentesco una volta trovato un lavoro descrive
una parabola che forma una soggettività grata al padrone, disposta a
tutto pur di avere un rinnovo contrattuale, ma sconvolta dal costo che
questo ha per la propria vita. Si dà una dipendenza, un'assenza di
autoderminazione alla quale sono però accompagnati comportamenti di
rifiuto, per quanto nascosti, per quanto molte volte autodistruttivi.
"Il punto zero della rivoluzione è la trasformazione della nostra vita quotidiana e la creazione di nuove forme di solidarietà",
scrive Silvia Federici. Solidarietà e cooperazione sociale antagonista
nella lotta. Il punto zero, quello della quotidianità nei suoi più
diversificati aspetti, è punto di partenza e di arrivo. Di partenza: dai
quartieri popolari, dai posti di lavoro, dalla casa, dai rapporti con i
servizi sociali e i lavori di cura. Di arrivo: perchè questi non sono
ambiti a sé stanti ma si interconnettono nella vita come dimensioni
dello sfruttamento (nella riproduzione sociale, nel consumo oltre che
nella produzione) tra sé comprenetranti.
Il punto zero perché nella lotta si mettono in discussione le contraddizioni che venano la nostra vita, i rapporti di potere tra i generi e nei generi, emergono una solidarietà e cooperazione antagoniste al sistema capitalistico.
Il punto zero perché nella lotta si mettono in discussione le contraddizioni che venano la nostra vita, i rapporti di potere tra i generi e nei generi, emergono una solidarietà e cooperazione antagoniste al sistema capitalistico.
Per
questo l'8 marzo sarà una prima tappa, ma non un punto d'arrivo.
Combattere la violenza di genere è un processo che passa per la
riconquista del potere di contare, di valere, di rifiutare le
imposizioni considerate "normali". Nella quotidianità – nella media
della trasversalità di classe della condizione femminile - esser donne
implica un'ulteriore violenza: parte delle attività che svolgiamo ogni
giorno sono un carico solo nostro. Si tratta della cura della famiglia,
delle preoccupazioni per l'affitto e le spese, delle visite mediche,
dell'assenza di reddito che colpisce noi o il nostro compagno o
compagna, quando lo abbiamo. È un ricatto a cui è considerato normale
sottostare.
Nella
questione abitativa possiamo trovare anche il fulcro dei diversi tipi
di violenza a cui principalmente le donne (e le dimensioni
femminilizzate dello sfruttamento) sono sottoposte. Per sostenere i
costi di un affitto o di un mutuo, dunque per avere una casa, è
necessario acconsentire a dei ritmi di lavoro massacranti.
L'intermittenza o scarsità di reddito permettono un maggiore
sfruttamento per la ricattabilità a cui si è sottoposti, per la paura di
perdere il tetto sopra la testa.
Nel
momento in cui il reddito a disposizione non basta per sostenere i
costi di un mercato immobiliare inflazionato, la violenza (a volte anche
fisica e ogni volta psicologica) viene perpetrata dai padroni di casa.
Umiliazioni e giudizi nei confronti delle famiglie; violenze e minacce
nei confronti delle donne. Di qui il tentativo di accedere a delle forme
di welfare previste per l'emergenza abitativa. In questo caso la
violenza è quella delle istituzioni e degli assistenti sociali:
disciplinamento, colpevolizzazione e umiliazione.
Perché
se lo stipendio misero che guadagni lavorando come una schiava non
basta per comprare i libri a tua figlia E' COLPA TUA; perché se per
pagare bollette e affitto non hai più i soldi per la spesa E' COLPA TUA e
vieni mandata al supermercato della caritas in cui ci sono solo cibi
scaduti. Perchè se per riuscire a portare a termine la quantità di
lavoro che ti è assegnata ti fai male non c'è la malattia E' COLPA TUA.
Perchè se vieni molestata mentre lavori da sola E' COLPA TUA.
Combattere
la violenza di genere è individuare dei responsabili per le condizioni
di ricattabilità lavorativa e abitativa; è pretendere dei servizi
dignitosi e funzionanti per salute ed educazione; è costruire la
sicurezza di attraversare i propri luoghi; è rifiutare ogni
discriminazione.
La
condizione di indebitamento e impotenza in cui ci schiacciano come
donne è direttamente proporzionale alla forza che possiamo esprimere, al
male che possiamo fare negandoci nel nostro ruolo. Ogni volta ancora,
quando la violenza dei rapporti sociali vorrebbe ricondurci a noi
stesse, o meglio al nostro ruolo per la riproduzione dell'esistente a
quel noi-per-loro. Il punto zero va ristabilito di continuo. È questa la
natura di una battaglia su un rapporto dinamico e variabile e in quanto
tale revocabile nei suoi termini. Risalire i diversi livelli di
sfruttamento e violenza è un processo, ed è a partire dal conflitto e
dalla riconquista di una quota di reddito nello scontro che si aprono
nuovi spazi di lotta e di dignità. Come già visto nella partecipazione
straordinaria alla giornata del 26 novembre, lo sciopero internazionale
dell'8 marzo è un momento da attraversare in tutta la sua complessità e
potenzialità: è la possibilità di aprire un ambito di conflitto
strategico. Questa specificità ci parla delle forme della crisi e
dell'attacco neoliberista in atto, ci interroga tutti e tutte sul come a
nostra volta rispondere. Per questo, al di là delle bandiere già alzate
sulla testa delle donne, nelle tante iniziative di natura istituzionale
che vorrebbero normalizzare nel già noto un'istanza di sovversione e
trasformazione, quello che è importante è non lasciar persistere una
separazione tra campi aperti e chiusi, tra ciò che si è già dato e tutto
quello che ancora deve emergere.
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