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Alessandra Cecchi alexik65@gmail.com
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CRONACA
DI UNA MONTATURA
28
gennaio 2016, ore 10.00. E’ freddo davanti ai cancelli del carcere di Modena,
quel freddo umido che ti entra nelle ossa.
E’
la prima volta che ci vengo, ma non è stato difficile trovarlo, seguendo i
gruppetti dei lavoratori che gli si avvicinano alla
spicciolata.
Dietro
quelle sbarre e quei muri c’è Aldo Milani, coordinatore nazionale del SI
Cobas.
Non
lo conosco personalmente. Sono qui per capire, anche se in realtà alcune
risposte me le sono già date, da quando i TG hanno cominciato ad infangarlo a
reti unificate.
“Avevano appena intascato una mazzetta. Due
sindacalisti della sigla SI Cobas sono stati arrestati in flagranza di reato
dalla polizia a Modena. L’ accusa è di estorsione aggravata e continuata nei
confronti di un noto gruppo industriale che opera nel settore della carne.
Motivo: ammorbidire le pressioni delle proteste”.
Un’accusa
infamante, l’accusa “perfetta” se vuoi distruggere un
compagno.
Perfetta
per i borghesi, inorriditi dal ricatto contro i poveri imprenditori vessati, ma
perfetta anche per insinuare il dubbio, stimolare la rabbia di chi viene indotto
a credere che le lotte siano state svendute per denaro.
I
TG hanno anche esibito la così detta “prova regina”, pochi secondi di un video
senza audio che mostra quattro persone attorno al tavolo di una trattativa
sindacale, due delle quali si passano una busta.
A
seguire, le immagini di repertorio delle cariche sui picchetti dei lavoratori
della logistica, poste ad arte per suggerire il teorema della “durezza dei
blocchi” come fase preliminare dell’epilogo estorsivo.
“Come
è possibile?” è stata
la mia prima domanda, e troppe cose mi sono passate per la testa tutte insieme:
il sorriso soddisfatto dei padroni e dei loro caporali cooperativi, i sorrisi di
CGIL, CISL e UIL, sempre pronti a stigmatizzare la “violenza dei picchetti”. E
poi la criminalizzazione di una lotta, il rischio che riescano a sconfiggerla, a
ricacciare migliaia di persone nell’ombra di uno sfruttamento senza
speranza.
Su
Milani, in quel momento, non sapevo cosa pensare.
Ero
incazzata, ma ho sospeso il giudizio fino a quando non sono emersi altri
elementi (non certo dai telegiornali, né dalle cronache dei quotidiani
principali).
In
particolare:
-
che
chi ha intascato la busta con un gesto plateale non era Milani, e neanche un
appartenente al Si Cobas o un consulente di parte sindacale, come sostenuto dai
TG, ma un cosiddetto “mediatore” (tale Piccinini) convocato in trattativa
dall’azienda;
-
che
nell’audio della trattativa Milani ha parlato solo dei 55 licenziamenti nella
logistica della Levoni e delle spettanze dei lavoratori, non di mazzette per il
sindacato;
-
che
solo Piccinini è stato arrestato in flagranza di reato con la busta addosso;
Milani è stato arrestato varie ore dopo, a casa sua, perchè non erano
insieme.
E’
una trappola.
Non
è la prima volta che succede. Anzi, è dai tempi di Haymarket Square che la
costruzione di accuse false viene utilizzata contro il movimento
operaio.
Cosa
dite? Che sono passati 131 anni e questi metodi non si usano
più?
Che
gli imprenditori di oggi non ne sarebbero capaci?
Dite
che adesso ci sono la democrazia, la legalità, le regole?
Dite
che la polizia non mena più gli operai davanti ai
cancelli?
Che
nessuno muore più nella forzatura di un picchetto?
Che
i sindacalisti combattivi non vengono più aggrediti in un
agguato?
Che
i picchiatori delle aziende non si avventano più con i bastoni sui lavoratori in
sciopero?
Che
non vengono più utilizzati crumiri?
Che
non vengono più utilizzati caporali?
Che
non si licenzia più per rappresaglia antisindacale?
Che
i salari bastano per condurre una vita decente?
E
che queste cose fanno parte di un passato remoto, così come la costruzione di
montature mediatico/giudiziarie contro i sindacalisti.
Ne
siete sicuri?
Io
no, e la mattina del 28 gennaio, davanti al carcere di Modena, continuo a farmi
domande, del tipo “come si esce da
‘sta storia di merda?”.
Ho
cercato le risposte nei siti internet di varie organizzazioni del sindacalismo
di base, ma tace l’USB, tace la CUB. Bernocchi dei Cobas
purtroppo no: “invitiamo tutti i mezzi
di informazione ad evitare qualsiasi confusione tra i Cobas e il cosiddetto SI Cobas...”. Questa
è la sua unica preoccupazione.
C’è
chi prende le distanze, chi fa il vago. Solo l’ADL e la sinistra CGIL dimostrano
di comprendere la portata dell’attacco, rivolto non solo contro Milani e il SI
Cobas, ma contro tutto il sindacalismo di base e contro tutte le lotte, della
logistica e non.
Se
passa questa provocazione tutti potranno essere colpiti, prima o poi, allo
stesso modo.
Su
ogni picchetto potranno essere insinuate finalità malavitose, da quegli stessi
media che la mafia delle cooperative han sempre fatto finta di non
vederla.
La
posta in gioco è alta. Per le ditte che guadagnano milioni sullo sfruttamento
dei facchini, ma perdono milioni quando i facchini lottano. Per tutti i
lavoratori della logistica che rischiano di subire un colpo durissimo nel loro
percorso di liberazione.
Per
questo sento il bisogno di ritrovarmi alle 10 del mattino davanti a un carcere,
per dimostrare vicinanza ai primi destinatari dell’attacco, queste centinaia di
operai di ogni colore che accorrono al presidio.
E’
in loro la risposta che cercavo: “La solidarietà è un’arma”, è il calore che
unisce ragazzi neri, magrebini, sikh e pakistani, sindacalisti dai capelli
bianchi, compagne e compagni dei centri sociali.
L’italiano
è la lingua degli slogan, lo strumento che unisce queste genti, una lingua
“coloniale” usata per capirsi nella lotta. Oggi mi accorgo di amarla molto più
di quando me l’insegnavano a scuola.
Così
come non mi sembrano patetiche o retrò le canzoni della nostra resistenza
gridate dall’amplificazione. Perchè sono qui gli eredi degli operai delle
Fonderie Riunite, dei licenziati che nel ‘50 affrontarono, proprio in questa
città, il piombo della polizia.
Oggi
battono sui cancelli di un carcere per riavere indietro un loro compagno, mentre
altri come loro scioperano a Milano, Piacenza, Parma, Brescia, negli interporti
di Bologna e Roma.
Non
hanno creduto a una sola parola delle veline della Questura, e non ne sembrano
neanche tanto stupiti. Del resto, nel corso delle loro lotte, ne hanno già viste
di tutti i colori.
Sorprende
come in una situazione del genere possano esprimere anche allegria: ogni tanto
la pressione sui cancelli del carcere si allenta, e qualcuno grida “fate largo che Aldo sta uscendo”.
Allora nel presidio si apre un varco per farlo passare, come in un rito
propiziatorio.
Finchè,
nel pomeriggio, non esce davvero. Non proprio libero: con obbligo di dimora a
Milano. L’interrogatorio è andato bene, ma la storia non è certo finita, né a
livello giudiziario né mediatico.
La
macchina del fango è ancora in piena attività, ma se non altro, se volevano
assicurarsi la pace sociale, forse hanno sbagliato sistema.
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