mercoledì 7 dicembre 2016

pc 7 dicembre - Dietro i Tycoon dei colossi della Silicon Valley si nasconde un mondo sommerso e invisibile di lavoratori sfruttati

di Alba Vastano
26/11/16
Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi” (Karl Marx, sul feticismo della merce).
Secondo Manuel Castells, illustre sociologo e attualmente docente di comunicazione presso l’University of Southern California “Le reti internet costituiscono la nuova morfologia sociale delle nostre società, e la diffusione della logica della messa in rete determina ampiamente il processo di produzione, d’esperienza, di potere e di cultura”.
Castells afferma che le organizzazioni che hanno dominato, negli ultimi decenni, le moderne società industriali, hanno lasciato il passo alla rivoluzione digitale che ha creato un nuovo sistema di produzione basato sull’informazionalismo. In questo nuovo modello svolgono infatti un ruolo dominante tre aspetti legati all’informazione automatizzata: elaborazione, memorizzazione e trasmissione dei dati ricevuti.
Nasce così nella rete una repubblica indipendente e anarchica formata da tecnici informatici, scienziati e hackers. A partire dagli anni ottanta la rete si popola con le prime comunità virtuali. Solo negli anni novanta, con un possibile maggior accesso nel world wide web, il mondo internettiano inizia a vivere la rete come una seconda vita. Quella della
realtà virtuale a cui affidare scelte commerciali, emozioni, professioni, velleità artistiche, desiderio di socializzare e di incontri amorosi. E’ l’amo a cui abboccano milioni di utenti.
La massificazione del mezzo digitale foraggia i mercati e gli interessi commerciali convergono sui network carpendo preferenze e gusti degli utenti. E la lunga mano della net economy sommerge la rete con una nuova forma di capitalismo, invisibile ma sfrontato. Per il quale l’innovazione tecnologica e culturale (secondo Castells) non è più un fattore esterno, ma “il motore fondamentale”.
I guru/imprenditori dell’economia digitale non temono fallimenti, grazie ad un mercato in internet sempre più proficuo, ad un sistema di vendite che abbraccia infiniti settori commerciali. Dall’editoria al fitness, dai prodotti musicali a quelli informatici, dall’industria del fashion alla salute.
E’ l’era dei “venture capitalist” che realizzano un’impresa digitale a basso rischio, perché non ci sarà alcuna remissione personale, qualora la dot.com fallisse.
Il business digitale nasce da un creativo che intenda lanciare in rete un prodotto o un servizio. L’ideatore organizza uno staff di knowledge workers, disposti a condividere il business. Infine vende il prodotto ad un venture capitalist. E fin qui il business, generalmente, non presenta ricadute inerenti lo sfruttamento della forza lavoro, né il mini capitalist ne ricaverà grandi profitti.
Ben diverso è quanto accade nel sistema capitalistico dei grandi colossi Usa.
Amazon, Facebook, Google, Microsoft e Apple, colossi del mercato mondiale, figli della Silicon Valley sono i leader assoluti della rete e ne hanno il monopolio, superando nei profitti capitalistici mondiali anche quelli della old economy dei petrolieri. Dietro i tycoon, le sofisticate tecnologie informatiche, la velocità e cortesia degli addetti alla comunicazione di queste mega aziende, si nasconde il mondo sommerso e invisibile dello sfruttamento del lavoro. Si nasconde il medioevo dei diritti umani.
Sul colosso Amazon di Jeff Bezos, con sede a Seattle (Usa), azienda lanciata in rete nel 1995 come libreria online, pesano capi d’accusa e denunce per attività antisindacali riguardanti le pessime condizioni di lavoro dei suoi dipendenti.
Parliamo di una delle maggiori aziende online che oggi offre ai visitatori del sito qualsivoglia prodotto. Non solo libri, ma un mercato globale enorme che comprende ogni genere di consumi. Dai software, ai DVD ai CD musicali, ai videogiochi, all’abbigliamento. L’azienda ha un fatturato di 75 miliardi annui. Quello dichiarato. Nessuno potrebbe però stabilire esattamente tutte le fonti da cui proviene il capitale enorme che l’impresa possiede. E nessuno sa quanti siano i suoi dipendenti e se abbiano un contratto regolare e regolato secondo le leggi del lavoro del paese di appartenenza.
E’ un mondo invisibile quello di lavoratori di Amazon, una moltitudine di persone costrette ad agire dietro le quinte e a lavorare a tempi frenetici, sotto mobbing permanente e sotto la minaccia del licenziamento in tronco. Lo documentano testimonianze di giornalisti che sono riusciti a vivere in diretta i tempi e le modalità con cui lavorano i dipendenti, infiltrandosi segretamente fra le file degli enormi magazzini dell’azienda, sparsi in tutto il pianeta.
Ne parla, nel suo libro-denuncia “En Amazonie, infiltrè dans le meilleur des mondes”, Jean Baptiste Malet, un giornalista francese che è riuscito a far parte per due settimane di quel girone infernale dei dipendenti Amazon, facendosi assumere come magazziniere in un deposito del Sud della Francia. “I dipendenti sono trattati alla stregua di robot, ben 1.200 di loro hanno contratti precari e sono soggetti a compiti faticosi e ripetitivi, come percorrere venti chilometri ogni giorno tra i reparti di immensi depositi. Ho scoperto che tutti i dipendenti non avevano diritto a esprimersi sulle condizioni di lavoro, né sui media, né con la famiglia, nonostante le regole del codice del lavoro lo consentano. Invece l’azienda limita qualsiasi forma di comunicazione” racconta Malet in un’intervista.
Dietro la formula patinata “efficienza, velocità, risparmio”, appare alle inchieste un mondo di lavoratori sfruttati, costretti a vivere la loro condizione di sfruttati a ritmi incessanti e disumani. La dimensione è conforme a quella dell’alienazione massima espressa in “Tempi moderni” di Chaplin.
Sul New York Time è apparso un reportage sulle condizioni di lavoro:
Il giornalista è riuscito a raccogliere le confidenze degli sfruttati e degli ex dipendenti. Tutti concordi nel definire l’ambiente di lavoro al pari di una caserma. Nessun diritto umano per i dipendenti, dal divieto alla libertà di parola e opinione, al controllo continuo da parte dei “capetti”, tramite i geolocalizzatori per controllare i tempi di lavoro e la posizione. Ogni 33 secondi i commessi devono portare a termine un ordine, pena il licenziamento, per un compenso economico al limite della sopravvivenza.
E hanno il divieto assoluto di iscriversi a un sindacato. Meritocrazia ai massimi livelli e divisione fra buoni (chi lavora 24 ore su 24, 7 giorni su 7) e cattivi. Ovviamente il tycoon, Jeff Bezos, interrogato sulla questione, nega.
L’altro aspetto con ricaduta negativa, provocata da Amazon sul mercato reale dell’editoria, è che 4.000 negozi di libri hanno dichiarato fallimento, creando così un mare di disoccupati. Gli editori, per i prezzi troppo concorrenziali della più grande libreria digitale, hanno dovuto dimezzare i prezzi dei libri. E mentre Bezos è soggetto ad aspre critiche per condurre un’azienda miliardaria che si regge sullo sfruttamento invisibile dei lavoratori, i consumatori digitali, ignari di quanto accade dietro le quinte di questi colossi made in USA, continuano a mettere nel carrello online prodotti a bon marché. E nelle tasche dei tycoon entrano alla velocità del nanosecondo fiumi di danaro.
Ma ciò che accade nel mondo sommerso dei lavoratori Amazon, e che, dai sondaggi effettuati, colpisce soprattutto le donne per una maggiore disponibilità ad acconsentire a questa tipologia di lavoro, è lo stesso fenomeno che si verifica in tutte le altre grandi catene commerciali sia virtuali che reali. I chain workers di Mc Donald e IKEA e i pikers delle grandi aziende, per mantenere il lavoro spesso si assoggettano allo stesso trattamento degli invisibili di Amazon. Senza contare che utilizzando sistematicamente i network, di cui Facebook è il massimo esponente, sono gli stessi consumatori della rete che forniscono la prima merce, ad esclusivo profitto dei grandi magnati del capitalismo.
Pensiamoci...

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