di
Alba Vastano
26/11/16
“Quel
che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un
rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato
fra gli uomini stessi” (Karl Marx, sul feticismo della merce).
Secondo
Manuel
Castells,
illustre sociologo e attualmente docente di comunicazione presso
l’University of Southern California “Le
reti internet costituiscono la nuova morfologia sociale delle nostre
società, e la diffusione della logica della messa in rete determina
ampiamente il processo di produzione, d’esperienza, di potere e di
cultura”.
Castells
afferma che le organizzazioni che hanno dominato, negli ultimi
decenni, le moderne società industriali, hanno lasciato il passo
alla rivoluzione digitale che ha creato un nuovo sistema di
produzione basato sull’informazionalismo.
In questo nuovo modello svolgono infatti un ruolo dominante tre
aspetti legati all’informazione automatizzata: elaborazione,
memorizzazione e trasmissione dei dati ricevuti.
Nasce
così nella rete una repubblica indipendente e anarchica formata da
tecnici informatici, scienziati e hackers. A partire dagli anni
ottanta la rete si popola con le prime comunità virtuali. Solo negli
anni novanta, con un possibile maggior accesso nel world
wide web,
il mondo internettiano inizia a vivere la rete come una seconda vita.
Quella della
realtà virtuale a cui affidare scelte commerciali, emozioni, professioni, velleità artistiche, desiderio di socializzare e di incontri amorosi. E’ l’amo a cui abboccano milioni di utenti.
realtà virtuale a cui affidare scelte commerciali, emozioni, professioni, velleità artistiche, desiderio di socializzare e di incontri amorosi. E’ l’amo a cui abboccano milioni di utenti.
La
massificazione del mezzo digitale foraggia i mercati e gli interessi
commerciali convergono sui network carpendo preferenze e gusti degli
utenti. E la lunga mano della net
economy
sommerge la rete con una nuova forma di capitalismo, invisibile ma
sfrontato. Per il quale l’innovazione tecnologica e culturale
(secondo Castells) non è più un fattore esterno, ma “il
motore
fondamentale”.
I
guru/imprenditori dell’economia digitale non temono fallimenti,
grazie ad un mercato in internet sempre più proficuo, ad un sistema
di vendite che abbraccia infiniti settori commerciali. Dall’editoria
al fitness, dai prodotti musicali a quelli informatici,
dall’industria del fashion alla salute.
E’
l’era dei “venture
capitalist”
che realizzano un’impresa digitale a basso rischio, perché non ci
sarà alcuna remissione personale, qualora la dot.com
fallisse.
Il
business digitale nasce da un creativo che intenda lanciare in rete
un prodotto o un servizio. L’ideatore organizza uno staff di
knowledge
workers,
disposti a condividere il business. Infine vende il prodotto ad un
venture capitalist. E fin qui il business, generalmente, non presenta
ricadute inerenti lo sfruttamento della forza lavoro, né il mini
capitalist ne ricaverà grandi profitti.
Ben
diverso è quanto accade nel sistema capitalistico dei grandi colossi
Usa.
Amazon,
Facebook,
Google,
Microsoft e Apple,
colossi del mercato mondiale, figli della Silicon
Valley
sono i leader assoluti della rete e ne hanno il monopolio, superando
nei profitti capitalistici mondiali anche quelli della old
economy
dei petrolieri. Dietro i tycoon,
le sofisticate tecnologie informatiche, la velocità e cortesia degli
addetti alla comunicazione di queste mega aziende, si nasconde il
mondo sommerso e invisibile dello sfruttamento del lavoro. Si
nasconde il medioevo dei diritti umani.
Sul
colosso Amazon di Jeff
Bezos,
con sede a Seattle (Usa), azienda lanciata in rete nel 1995 come
libreria online, pesano capi d’accusa e denunce per attività
antisindacali riguardanti le pessime condizioni di lavoro dei suoi
dipendenti.
Parliamo
di una delle maggiori aziende online che oggi offre ai visitatori del
sito qualsivoglia prodotto. Non solo libri, ma un mercato globale
enorme che comprende ogni genere di consumi. Dai software, ai DVD ai
CD musicali, ai videogiochi, all’abbigliamento. L’azienda ha un
fatturato di 75
miliardi annui.
Quello dichiarato. Nessuno potrebbe però stabilire esattamente tutte
le fonti da cui proviene il capitale enorme che l’impresa possiede.
E nessuno sa quanti siano i suoi dipendenti e se abbiano un contratto
regolare e regolato secondo le leggi del lavoro del paese di
appartenenza.
E’
un mondo invisibile quello di lavoratori di Amazon, una moltitudine
di persone costrette ad agire dietro le quinte e a lavorare a tempi
frenetici, sotto mobbing permanente e sotto la minaccia del
licenziamento in tronco. Lo documentano testimonianze di giornalisti
che sono riusciti a vivere in diretta i tempi e le modalità con cui
lavorano i dipendenti, infiltrandosi segretamente fra le file degli
enormi magazzini dell’azienda, sparsi in tutto il pianeta.
Ne
parla, nel suo libro-denuncia “En
Amazonie, infiltrè dans le meilleur des mondes”,
Jean
Baptiste
Malet,
un giornalista francese che è riuscito a far parte per due settimane
di quel girone infernale dei dipendenti Amazon, facendosi assumere
come magazziniere in un deposito del Sud della Francia. “I
dipendenti sono trattati alla stregua di robot, ben 1.200 di loro
hanno contratti precari e sono soggetti a compiti faticosi e
ripetitivi, come percorrere venti chilometri ogni giorno tra i
reparti di immensi depositi. Ho scoperto che tutti i dipendenti non
avevano diritto a esprimersi sulle condizioni di lavoro, né sui
media, né con la famiglia, nonostante le regole del codice del
lavoro lo consentano. Invece l’azienda limita qualsiasi forma di
comunicazione”
racconta Malet in un’intervista.
Dietro
la formula patinata “efficienza, velocità, risparmio”, appare
alle inchieste un mondo di lavoratori sfruttati, costretti a vivere
la loro condizione di sfruttati a ritmi incessanti e disumani. La
dimensione è conforme a quella dell’alienazione massima espressa
in “Tempi
moderni” di Chaplin.
Sul
New
York Time
è apparso un reportage sulle condizioni di lavoro:
Il
giornalista è riuscito a raccogliere le confidenze degli sfruttati e
degli ex dipendenti. Tutti concordi nel definire l’ambiente di
lavoro al pari di una caserma. Nessun diritto umano per i dipendenti,
dal divieto alla libertà di parola e opinione, al controllo continuo
da parte dei “capetti”, tramite i geolocalizzatori per
controllare i tempi di lavoro e la posizione. Ogni 33 secondi i
commessi devono portare a termine un ordine, pena il licenziamento,
per un compenso economico al limite della sopravvivenza.
E
hanno il divieto assoluto di iscriversi a un sindacato. Meritocrazia
ai massimi livelli e divisione fra buoni (chi lavora 24 ore su 24, 7
giorni su 7) e cattivi. Ovviamente il tycoon, Jeff Bezos, interrogato
sulla questione, nega.
L’altro
aspetto con ricaduta negativa, provocata da Amazon sul mercato reale
dell’editoria, è che 4.000
negozi di libri hanno dichiarato fallimento,
creando così un mare di disoccupati. Gli editori, per i prezzi
troppo concorrenziali della più grande libreria digitale, hanno
dovuto dimezzare
i
prezzi dei libri.
E mentre Bezos è soggetto ad aspre critiche per condurre un’azienda
miliardaria che si regge sullo sfruttamento invisibile dei
lavoratori, i consumatori digitali, ignari di quanto accade dietro le
quinte di questi colossi made in USA, continuano a mettere nel
carrello online prodotti a bon marché. E nelle tasche dei tycoon
entrano alla velocità del nanosecondo fiumi di danaro.
Ma
ciò che accade nel mondo sommerso dei lavoratori Amazon, e che, dai
sondaggi effettuati, colpisce soprattutto le donne per una maggiore
disponibilità ad acconsentire a questa tipologia di lavoro, è lo
stesso fenomeno che si verifica in tutte le altre grandi catene
commerciali sia virtuali che reali. I chain
workers
di Mc
Donald e IKEA
e i pikers
delle
grandi aziende, per mantenere il lavoro spesso si assoggettano allo
stesso trattamento degli invisibili di Amazon. Senza contare che
utilizzando sistematicamente i network, di cui Facebook è il massimo
esponente, sono gli stessi consumatori della rete che forniscono la
prima merce, ad esclusivo profitto dei grandi magnati del
capitalismo.
Pensiamoci...
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