Amianto killer: colossi sotto inchiesta
Indagini su Acmar e Compagnia Portuale
Le storie di Mario e Luigi, lavoratori morti per mesotelioma
Chiesto rinvio a giudizio per il console dei portuali ma è già morto
di Ivan Adonis
Anni di lavoro maneggiando amianto poi la malattia e la morte. La storia di due lavoratori i cui decessi sono finiti nel mirino della magistratura. Le imprese per cui lavoravano Mario e Luigi erano Acmar e Compagnia Portuali, colossi dell'industria ravennate. Lavori diversi ma le mansioni degli operai erano sempre attorno a quella sostanza in polvere. All’ex Sarom c’erano quei forni che andavano rifatti ogni tre-quattro anni. Dovevi entrare là dentro, raschiare via il materiale isolante con olio di gomito e uscire con la roba nei secchi. Certo, c’erano le mascherine e gli aspiratori, ma quella roba faceva lo stesso un sacco di polvere. Al porto c’erano quei sacchi di carta da spostare a spalla. Alle volte si rompevano e allora quella roba che stava dentro, cadeva e si sparpagliava. E così dalla carta si era passati alla plastica, più resistente direte voi. Ma tanto quella roba te la ritrovavi addosso lo stesso mentre sgomberavi certe stive o mentre lavoravi con il materiale isolante dei cantieri.
Perché quella roba è amianto, e per sua natura, una volta frantumata, sminuzzata, risollevata come polvere, finisce dappertutto. Il conto che può restituire dopo anni – alle volte tanti anni – si chiama mesotelioma. Quasi una firma per l’amianto. Questa è la storia di due fascicoli penali aperti per accertare eventuali responsabilità sugli allora rappresentanti di due colossi di settore dell’economia
ravennate. Anche se sarebbe più giusto scrivere che è la storia di due persone: due lavoratori che non hanno fatto in tempo a godersi la pensione, stroncati da un tumore riconducibile, secondo l’accusa, a una lunga esposizione all’ amianto.
Mario – il nome è di fantasia, tutto il resto no – era nato a Civitella di Romagna poco prima della guerra. Tra il 1963 e il 1987 aveva lavorato come dipendente della Compagnia Portuale. Poi gli era arrivata la pensione. Ma non gli era rimasto molto tempo perché già nell’autunno del 2003 gli era stata fatta una diagnosi con ben poche speranze: tumore ai polmoni. L’uomo era morto nel marzo dell’anno dopo, a 67 anni. E nel 2007 l’Inail aveva riconosciuto quel decesso come legato a una malattia professionale. L’esposizione all’amianto durata per 19 anni sarebbe stata cioè determinante nella morte del facchino Mario sebbene per quasi 50 anni l’uomo fosse stato un accanito fumatore. La ragione arriva dalla corposa relazione della Medicina del lavoro dell’Ausl allegata al caso. Siamo ancora negli anni ’60 e quegli involucri di carta – si legge nelle pagine – alle volte si spaccano, e poi tocca ai dipendenti pulire magazzini, piazzali, container. I miglioramenti arrivano solo negli anni Settanta quando iniziano a girare le maschere a doppio filtro, le tutte usa e getta, gli stivali, i guanti e gli aspiratori.
Ma non sapremo mai quanto amianto nel frattempo sia stato movimentato in banchina perché, a causa dei traslochi degli archivi delle Dogane, si hanno a disposizione dati solo a partire dal 1977. E così l’analisi riparte da quegli anni, da quando proprio su sollecitazione della Compagnia Portuale si hanno i primi interventi dell’allora servizio di Medicina del lavoro del Comune. Quattro-cinque puntate l’anno per dispersione amianto in banchina, seguite da vari suggerimenti per contenere quelle fughe.
Però l’esposizione a inalazione va avanti fino al 1982, poi si riduce alle sole stive che avevano trasportato il minerale.
Ecco perché, secondo l’Inail, Mario si era ammalato. Ma come si sarebbe potuto evitare? Per la procura, erano quattro le cose da fare: attuare le misure d’igiene previste, istruire i lavoratori sui rischi, fornire adeguati mezzi di prevenzione ed esigere che i dipendenti rispettassero le norme di sicurezza. E siccome – continua l’accusa – ciò non sarebbe accaduto tra il 1971 e il 1982, ecco che per l’allora console è stato chiesto il rinvio a giudizio per omicidio colposo. Ma l’uomo, che oggi avrebbe più di 80 anni, è già morto. Nessun processo allora per la morte di Mario? Non proprio, perché il giudice ha deciso di estendere le indagini all’allora consiglio d’amministrazione. E tutto è tornato nelle mani del pm.
E qui andiamo alla storia di Luigi – nome ancora di fantasia, il resto no – morto di mesotelioma a fine primavera del 2006. Era nato 74 anni prima a Pievequinta, nel Forlivese. E dal 1968 al 1992 aveva lavorato per la coop edile Acmar. Lui era tra quelli che, in appalto, avevano operato in un particolare reparto dell’allora raffineria Sarom: la manutenzione di forni e caldaie. Immaginateli come grandi silos, fuori di lamiera e dentro di amianto; e in mezzo, materiale refrattario. Quell’amianto bisognava raschiarlo via ciclicamente. C’erano apposite squadre di operai per farlo. Trenta ogni volta: 15 fuori e 15 dentro, e ogni mezz’ora si davano il cambio. E alla fine dell’anno potevi così avere passato a raschiare quella roba tra i due e i sei mesi. Tutto è andato avanti fino agli 1985-1990, almeno secondo quella relazione dell’Inail che a inizio 2010 è finita dritta dritta in un esposto-denuncia sul caso tirando dentro alle indagini i nomi di due responsabili Acmar dell’epoca. A gennaio prossimo i medici incaricati dalle parti si ritroveranno di fronte al giudice per tentare di dare una spiegazioni all’accaduto. Nel frattempo quella di Luigi (così come quella di Mario) rimarrà la storia di un fascicolo penale oltre a quella di uomo forse morto di lavoro.
19 - 09 - 2011
Nessun commento:
Posta un commento