Antonino Mingolla è morto il 18 aprile 2006, dopo 4 giorni di agonia, per aver inalato gas letale fuoriuscito dalla tubazione di un altoforno dello stabilimento Ilva di Taranto, dove stava lavorando alla sostituzione di una valvola.
Il processo per la sua morte è iniziato oggi 6 ottobre 2010, quattro anni e mezzo dopo. Quattro anni e mezzo che sanno già di giustizia negata.
C'era all'udienza la moglie, Franca, che in questi anni, con coraggio e dolcezza, ha trasformato il suo dolore in determinazione a chiedere giustizia per Antonino e tutti gli altri assassinati sul lavoro.
C'era la figlia, che ha avuto il tempo di diventare maggiorenne e costituirsi oggi parte civile.
C'erano i compagni dello Slai cobas per il sindacato di classe e della rete nazionale per la sicurezza sui posti di lavoro, che in occasione del terzo anniversario della morte di Antonino organizzarono a Taranto la seconda manifestazione nazionale, dopo quella a Torino, per chiudere simbolicamente qui una carovana di mobilitazione, dalla Thyssenkrupp all'Ilva, contro i padroni assassini e c'erano fuori del tribunale il loro striscione di solidarietà e denuncia.
Mancavano, quasi tutti, gli imputati: i responsabili della CMT, la ditta per cui Antonino lavorava, dell'Ilva e di un'altra ditta, la ISM che a quanto pare aveva in subappalto la competenza sulle pratiche relative alla sicurezza.
Il processo si è aperto con l'esame dei testimoni che avevano redatto le relazioni sull'incidente. In particolare è stato ascoltato l'ispettore del lavoro Severini, a cui a più di anno di distanza dai fatti il PM affidò il compito di relazionare sulla morte di Antonino, a integrazione della prima, dei tecnici della ASL, che evidentemente non chiariva a sufficienza la dinamica dei fatti.
Nella sua testimonianza Severini ha chiarito diversi punti chiave.
- Il gas che ha ucciso Mingolla non avrebbe dovuto essere nella tubatura a cui stava lavorando. C'era, e ha ucciso, perché non era stato intercettato prima, forse a causa di valvole difettose, o perché le tubazioni non erano state "lavate", con passaggio di azoto e ossigeno a pressione, entrambe pratiche previste dalle procedure di sicurezza;
- La postazione su cui lavorava - un ballatoio a 20 metri d'altezza poco più grande del tubo - non aveva vie di fuga, se anche Antonino avesse avuto dispositivi che rivelano la presenza di gas, non avrebbe potuto mettersi in salvo. Perfino per soccorrerlo e portarlo all'ambulanza i suoi compagni di lavoro hanno dovuto rischiare, improvvisando una una passerella con tavoloni;
- Responsabili della mancata sicurezza della lavorazione sono l'Ilva, tenuta ad effettuare le operazioni di svuotamento delle tubazioni prima della consegna dell'impianto alla manutenzione, e la ditta per cui Mingolla stava lavorando, che non ha predisposto alcuna impalcatura o altro accorgimento per facilitare il rapido abbandono della postazione di lavoro.
Conclusa la testimonianza di Severini L'udienza si è chiusa con l'acquisizione agli atti, della prima relazione realizzata il giorno dei fatti, senza esame del teste che l'ha redatta, e aggiornando la prossima udienza al 24 novembre.
Non sappiamo se qualcuno pagherà per la morte di Antonino Mingolla.
Non sappiamo se questa volta si riconosceranno le responsabilità di chi, Riva, impone e trae profitto da un intero sistema di lavoro insicuro, se al massimo si puniranno alcuni capi come per gli altri 43 operai morti da lavoro in Ilva dal 95 (anno dell'acquisizione da parte di Riva) a oggi, o se, come per la maggioranza degli oltre mille assassini da lavoro ogni anni, i colpevoli resteranno impunti.
Sappiamo però che contro i principali colpevoli della morte di Antonino e degli altri, contro il sistema del profitto al primo posto dei padroni assassini, contro lo Stato e il governo che li proteggono garantendo impunità e depotenziando le norme già blande per perseguirli, nei tribunali non si punta il dito, né le sentenze possono fermarli.
Per farlo occorre un'intera rivoluzione sociale e politica che affermi il primato della vita e il potere di chi lavoro contro quelli di chi se ne appropria.
Per questo continueremo a lottare come Rete insieme a Franca e agli altri che si sono uniti in questa battaglia per fermare la guerra di sterminio da lavoro, anche nei tribunali.
5.10.2010
Nessun commento:
Posta un commento