domenica 22 novembre 2020

pc 22 novembre - Oggi assemblea nazionale del Patto d'azione anticapitalista - documento proposto

LA PANDEMIA E' IL CAPITALISMO

RAFFORZARE IL PATTO D'AZIONE PER RILANCIARE L'OPPOSIZIONE DI CLASSE

Giungiamo a questa assemblea nazionale nel pieno della seconda ondata pandemica di Covid 19. Sebbene in gran parte delle regioni lo scenario di emergenza sanitaria sia del tutto analogo a quello a cui abbiamo assistito durante il lockdown di marzo-aprile, dal punto di vista sociale sembrano trascorsi anni dalla scorsa primavera: all'accettazione passiva, e in larga parte convinta, delle misure di contenimento dettate dalle istituzioni con l'attesa ottimistica del “ce la faremo” e dell'”andrà tutto bene” che ha prevalso durante la prima ondata, sta facendo posto in queste settimane un senso diffuso di scoraggiamento, di frustrazione e, a tratti, di rabbia, frutto da un lato della consapevolezza che i governi nazionali e locali in questi sei mesi non hanno fatto nulla per prevenire e arginare un nuovo dilagare dei contagi, dall'altro che quelle stesse istituzioni hanno fatto poco e male per limitare il drammatico impatto economico della crisi sanitaria.

La fine del clima diffuso di “unità nazionale“ che aveva contrassegnato la prima fase pandemica sta portando sempre più in superficie le contraddizioni e gli antagonismi di classe sinora sapientemente occultati dietro l'ipocrisia del comune richiamo al tricolore, e la sempre più evidente inconciliabilità tra gli interessi dei padroni e quelli dei lavoratori e delle masse proletarie.

Tutto ciò in un quadro di una crisi internazionale (al tempo stesso sanitaria, economica, sociale e

politica), le cui dimensioni sono testimoniate dallo scontro sociale e istituzionale in corso negli USA: uno scontro manifestatosi negli scorsi mesi con le rivolte e le mobilitazioni del movimento Black Lives Matters in risposta alle violenze razziste della polizia e alle politiche reazionarie dell'amministrazione Trump, e che nelle ultime settimane si è riversato sul piano istituzionale in concomitanza con le elezioni presidenziali, caratterizzate dapprima da un clima di polarizzazione e di tensione sociale senza precedenti nella storia recente della democrazia borghese a stelle e strisce, poi, a urne chiuse, sfociato in un empasse istituzionale e in un sostanziale dualismo di potere (tuttora in corso) tra i due contendenti alla casa bianca. Fatti, questi ultimi, talmente inediti da portare non pochi lacchè nostrani della “più grande democrazia del mondo“ a proclamare (a ragion veduta) la fine di un'intera epoca storica del capitalismo.

A dispetto dell'ampio spettro di varianti “di pancia“ (che vanno dall'ossessione securitaria all'esplicito negazionismo) con cui il disastro economico-sanitario viene percepito a livello “popolare“, i dati e i fatti di questi mesi confermano inequivocabilmente le tesi da noi sostenute nelle assemblee di marzo e aprile, ossia:

  1. questa pandemia (così come le altre a cui abbiamo assistito in questi decenni) è il prodotto degli sconquassi determinati dal sistema capitalista sull'ambiente e sull'ecosostema, e la zoonosi (salto di specie del virus) è intimamente connessa col sistema predatorio di deforestazione e di sfruttamento intensivo delle risorse naturali che sono alla base dei disastri e delle catastrofi connesse al cambiamento climatico;

  2. le politiche di tagli massicci e indiscriminati alla sanità, all'istruzione, al trasporto pubblico e alla spesa sociale perseguite negli ultimi decenni dai governi nazionali e sovranazionali in tutto l'occidente imperialista e senza soluzione di continuità, hanno smantellato e distrutto ogni possibile linea di difesa e di contenimento della pandemia, determinando in tempi record il collasso dei sistemi sanitari nazionali e la moltiplicazione esponenziale dei contagi;

  3. i governi nazionali, e in Italia il governo Conte, gli apparati statali e le amministrazioni regionali hanno perseguito, scientemente e sistematicamente, una politica di riduzione del danno improvvisata e raffazzonata, orientata quasi esclusivamente alla difesa senza se e senza ma dei profitti del grande capitale, e sacrificando sul suo altare la tutela dei salari, della salute e della vita stessa di milioni di proletari.

E' oramai noto che l'Italia fosse del tutto priva di un piano pandemico e come quest'ultimo non fosse più aggiornato dal 2006, ed è altrettanto noto che negli ultimi mesi del 2019, malgrado il Sars-Cov 2 fosse già ben presente in Cina, il governo Conte, il ministro Speranza e i vertici sanitari abbiano sistematicamente ignorato (fino al punto di secretarle) le segnalazioni e i dossier dei più autorevoli rappresentanti della comunità medico-scientifica internazionale, i quali sollecitavano una “terapia d'urto“ immediata per scongiurare decine di migliaia di morti.

Oggi che quelle previsioni si sono rivelate un autentico e macabro presagio, nel mentre assistiamo allo spettacolo indecorosso dei rimpalli di responsabilità tra governo, regioni e comuni e nel mentre le attività di screening e di tracciamento sono completamente saltate sin dagli inizi di ottobre, la “seconda ondata“ ha svelato in maniera chiara che gli unici a trarre vantaggio dal tracollo della sanità pubblica sono stati i laboratori di analisi privati, a cui sono stati nei fatti appaltati quasi per intero i tamponi dei casi sospetti e dei contatti stretti, con costi lievitati alle stelle e un business che si è vergognosamente alimentato di pari passo con l'aumento dei contagiati e con la saturazione dei posti-letto negli ospedali: lo scandalo dei costi delle ambulanze private che a Napoli sono lievitati fino a 1000 euro per paziente rappresenta solo la punta dell'iceberg di una cosciente e sistematica opera di sciacallaggio compiuta da padroni e speculatori senza scrupoli, ma che non sarebbe stata possibile qualora lo Stato borghese non avesse operato uno sfascio generalizzato della sanità pubblica con chiusure di ospedali, tagli di personale e alla spesa per le infrastrutture.

In questo contesto di crisi rovinosa si inserisce la nuova “luna di miele“ tra i padroni e Cgil-Cisl-Uil, suggellata dai tappetini rossi che Landini ha riservato a Bonomi nel corso dell'evento “Futura“: al di la di qualche apparente puntura di spillo a uso e consumo mediatico, è evidente che il meeting cigiellino è servito a suggellare, nei fatti prima ancora che sulla carta, quel “Patto per l'Italia“ di cui Confindustria ha bisogno per mettere al guinzaglio la classe lavoratrice per tutto il periodo pandemico e spegnere ogni residuo conflitto sul rinnovo del CCNL dei metalmeccanici, tantopiù all'indomani di uno sciopero nazionale che si è rivelato essere davvero tale solo in un numero limitatissimo di fabbriche, grosso modo coincidenti con le principali roccaforti storiche della Fiom.

Tutto lascia presagire che entro la prossima primavera i padroni “concederanno“ ai confederali la vittoria di Pirro di un rinnovo che in cambio di qualche spicciolo in più di salario, porterà in dote a Confindustria un triplice risultato: l'aumento esponenziale dei ritmi e dei carichi di lavoro (sapientemente spacciato per “produttività“, il via libera ai contratti precari senza limiti di durata e soprattutto lo stop alla moratoria sui licenziamenti a partire dalla primavera. E tutto lascia presagire che questo schema, una volta passato nei metalmeccanici, diverrà un modello da replicare in sedicesimo (magari senza neanche gli aumenti salariali) i tutte le restanti categorie interessate dal rinnovo.

Nel frattempo, il fronte padronale continua a dormire comodamente sugli allori, grazie al nuovo via libera alla Cig senza limiti, il cui libero accesso garantitogli dal governo viene finanche sgravato dall'onere di dover giustificare un calo di fatturato riconducibile alla pandemia.

Quella Cig che nella gran parte dei casi si traduce nella miseria di 700-800 euro al mese in busta paga, viene ipocritamente presentata dal governo e dai confederali come una misura di tutela per i lavoratori, ma in realtà non è altro che uno strumento per consentire ai padroni di privatizzare gli utili e socializzare le perdite: il silenzio di Cgil-Cisl-Uil di fronte ai dati della guardia di Finanza che attestano come più del 25% delle aziende si sia accaparrata la Cig pur non avendo alcun calo di fatturato nel metre milioni di lavoratori sono di fatto ridottti alla fame, è di gran lunga più eloquente degli slogan e delle dichiarazioni d'intenti su “lavoro, sviluppo e contratti“ che i vertici conferedali continuano a ripetere come un disco rotto.

Come contraltare alle pagliacciate dei vertici confederali, al momento continua a distinguersi per il livello di combattività diffusa solo il settore del Trasporto merci e logistica, nel quale lo scorso 23 ottobre SI Cobas e ADL Cobas hanno organizzato uno sciopero nazionale capace di fermare la gran parte del flusso di merci di tutti i principali operatori, portando a casa, come primi importanti risultati, da un lato la disponibilità a trattare di una parte delle principali associazioni datoriali, dall'altro l'apertura di un tavolo di confronto col governo sul tema della sicurezza sul lavoro e della prevenzione dei contagi da coronavirus.

Le “tre piazze“ di ottobre

Se da un lato il patto tripartito tra governo, Confindustria e sindacati collaborazionisti (Cgil-Cisl-Uil-Ugl) ha permesso a questi ultimi di preservare il clima di pace sociale sui luoghi di lavoro attraverso lo scambio tra l'aumento della produttività e della precarietà (quindi dei profitti) e un nuovo rinvio della moratoria sui licenziamenti, dall'altro in queste settimane hanno iniziato a manifestarsi dei primi, inequivocabili segnali di malessere sociale per gli effetti della crisi e delle nuove restrizioni imposte dal Covid. Com'era prevedibile in un paese come il nostro, caratterizzato da un'estrema polverizzazione delle filiere produttive e da un peso significativo del commercio e e dei servizi, a rompere il ghiaccio sono state in larga parte mobiliazioni dal segno e dalla composizione confusa, di carattere apparentemente populista e interclassista, ma alla cui testa è emerso fin da subito l'interesse specifico della piccola e media borghesia, dei commercianti e di quel pulviscolo di “mezze classi“ fatte di padroni e padroncini colpiti dalle misure restrittive.

Non a caso, le parole d'ordine e le rivendicazioni spesso maggioritarie in queste piazze (“no alla dittatura sanitaria“, “no alle chiusure“, ecc.) si siano mostrate molto più permeabili dalla retorica reazionaria dei fascisti e al delirio negazionista dei “no mask“ che non alle istanze dalle lotte sociali proletarie (vedasi su tutte le piazze di Milano, Venezia, Bologna e quella del quartiere Vomero a Napoli): ciò a riconferma che gli interessi del “ceto medio produttivo“ sono oggettivamente antagonisti e inconciliabili con le lotte operaie per la difesa della salute e per il diritto a restare a casa a salario pieno e a non morire di CoVid in nome dei profitti, piccoli o grandi che siano.

Dal ventre di queste manifestazioni, a partire dall'ormai celebre notte del 23 ottobre a Napoli, si è materializzata la “seconda piazza“, composta in larga parte da settori sottoproletari, semiproletari e/o studenti (come nel caso di Firenze), la quale in maniera confusa, genuina ma spesso completamente disorganizzata, ha riversato nelle strade una rabbia e un malessere che poco o nulla aveva a che vedere con le istanze dei commercianti (i quali non a caso si sono subito affrettati a prendere le distanza dai “violenti“) e che si è espressa attraverso cortei non autorizzati e scontri di piazza, cui è seguita, puntuale come sempre, la dura repressione delle forze dell'ordine e un'ondata di criminalizzazione ad opera dei media, intenti a bollare questi episodi come opera di “cammorristi“, fascisti o negazionisti.

In realtà queste brevi ed estemporanee fiammate, più che la mafia o i fascisti (da sempre molto più a loro agio nelle aule parlamentari e nelle stanze del potere nazionale e locale che non nelle proteste di piazza), rimandano a forme di ribellione spontanea e in larga parte apolitica analoghe a quelle delle banliue parigine o ad alcune frange dei Jillet Jeune in Francia: rivolte spesso prive di un chiaro connotato di classe, ed il cui unico comun denominatore è l'odio verso lo stato e le forze di polizia.

L'esito di questo primo round di proteste è oramai sotto gli occhi di tutti: il settore della media distribuzione, dagli esercizi commerciali e quello turistico-ricettivo hanno in poche ore portato a casa il “decreto-ristori“, con il quale lo stato si impegna ad accollarsi la gran parte delle perdite di fatturato, mentre l'esercito dei precari, dei lavoratori del settore, dei garzoni in nero e dei disoccupati hanno nella migliore delle ipotesi difeso a malapena la miseria delle poche centinaia di euro di CIG o di reddito di cittadinanza “concesse“ a suo tempo dal governo; il fatto che all'indomani del suddetto Dpcm sia le prime che le seconde piazze si siano svuotate quasi ovunque è da un lato la riprova che la piccola e media borghesia ha rappresentato la componente sociale maggioritaria in quelle mobilitazioni era di, dall'altro che in assenza di un forte movimento di classe ogni tentativo, per quanto generoso, di “attraversamento proletario“ di una rabbia tanto diffusa quanto confusa è inevitabilmente votato al fallimento, sia in termini politici sia sul piano rivendicativo parziale.

Fare un bilancio obbiettivo e lucido degli eventi di fine ottobre, per noi non significa certo negare apriori e per principio la possibilità (e in determinati frangenti anche la necessità) di saldare e allargare le lotte operaie e proletarie con le istanze provenienti da strati del ceto medio impoverito dalla crisi e/o in via di proletarizzazione, ne tantomeno volersi trastullare in sterili quanto infantili richiami a una presunta “purezza“ del movimento proletario. A nessuno sfugge che nelle piazze italiane di ottobre, le istanze del grande ristoratore che paga 30 euro al giorno (e magari al nero) i suoi dipendenti e dell'albergatore che evade milioni di euro fossero “mescolate“ con quelle del garzone o del piccolo esercente a gestione familiare. Si tratta tuttavia di non confondere la realtà con i propri desideri, e di comprendere che fin quando i salariati e gli sfruttati non saranno capaci di dotarsi di un autonomo percorso di lotta per i propri interessi di classe immediati e futuri, nessun'alleanza e nessuna scorciatoia movimentistica sarà capace di togliegli le castagne dal fuoco e permettergli la difesa di quegli interessi, men che meno lo saranno ipotetici “fronti popolari“ con gli strati inferiori della classe dominante.

Da questo punto di vista, le mobilitazioni messe in campo dal Patto d'azione nella giornata del 24, hanno rappresentato a tutti gli effetti una sorta di “terza piazza“, distinta dalla seconda e alternativa alla prima, in quanto espressione dell'autonomia di classe e degli interessi immediati e futuri dei lavoratori e delle masse proletarie nel loro complesso.

abbiamo animato più di una decina di piazze convocate in tutte le principali città dall'assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi a seguito della riuscita iniziativa del 27 settembre a Bologna.

Il bilancio di questa giornata di mobilitazione nazionale è complessivamente positivo: in molte città (Napoli, Bologna, Torino e Roma su tutte) si è registrata la partecipazione di centinaia di lavoratori, studenti e realtà politiche e di movimento; in altre (come a Milano), la partecipazione è stata decisamente inferiore a quella registrata lo scorso 6 giugno.

La riuscita buona ma non straordinaria delle iniziative è senz'altro in parte ascrivibile al contesto profondamente diverso del 24 ottobre rispetto a quello di giugno: molti compagni, lavoratori e studenti sono stati costretti a casa perchè positivi al CoViD o in quarantena fiduciaria.

Si tratta però anche in questo caso di fare un bilancio scevro da falsi trionfalismi e facili autoassoluzioni, e di comprendere che il percorso che abbiamo con fatica ed entusiasmo messo in piedi in questi mesi è irto di ostacoli e deve fare i conti con le difficoltà di una fase ancora contrassegnata dalla stasi delle lotte e dalla passività della stragrande maggioranza dei lavoratori e dei proletari.

Anche in questo caso, scambiare i nostri desideri con la realtà sarebbe esiziale.

L'attività del Patto di azione e la necessità di un passo avanti organizzativo

Per tutta la durata della fase pandemica il Patto d'azione ha saputo dare continuità alle iniziative, a sviluppare un confronto costruttivo e produttivo, mantenendosi coerente con i presupposti delineati nell'assemblea dell'8 febbraio a Roma. In alcune città iniziano a delinearsi forme embrionali di coordinamento e di iniziativa locale, segno che questo percorso ha effettive potenzialità per andare ben oltre la semlice programmazione di scadenze di piazza nazionali.

D'altra parte, i fatti ci dicono che ad oggi il Patto d'azione, al netto del SI Cobas che ne è stato promotore, conta sull'adesione reale di un'altra struttura sindacale (Slai Cobas sc), di numerosi partiti, collettivi e centri sociali di medie o modeste dimensioni (FDG, TIR, PCL, Iskra, CSA Vittoria. Frazione Anticapitalista, Campagne in Lotta, FIR, Proletari Comunisti, ecc.), su uno spettro variegato di realtà che finora hanno partecipato ad alcune iniziative ma mantenendo nei fatti un ruolo di osservatori (SA, Prc, Crash, Movimenti per la casa, ecc.), e altre realtà ancora (es. i Carc) che pur dichiarando di aderire al Patto d'azione e intervenendo nelle assemblee, nella pratica quotidiana assumono posizioni e scelte politiche spesso in evidente contrasto con i presupposti politici fondanti del Patto (su tutti l'approccio ambiguo al sovranismo e il collateralismo al Movimento 5 stelle, cioè alla componente parlamentare maggioritaria del governo Conte).

Per quanto in questi mesi le iniziative pubbliche del Patto d'azione abbiano in alcuni casi superato ampiamente i confini delle strutture che lo compongono e abbiano registrato un interesse crescente in settori diffusi dei movimenti e del sindacalismo combattivo, bisogna constatare che allo stato attuale le sue dimensioni effettive e militanti non si discostano significativamente dalla sommatoria delle sue componenti.

Questo “stato dell'arte“, beninteso, non toglie e non inficia minimamente il giudizio e la valenza estremamente positiva di questi primi 8 mesi di vita del Patto d'azione, che è e resta ad oggi l'unico percorso di ricomposizione reale messo in piedi in Italia nell'area della sinistra di classe e anticapitalista da anni a questa parte e senza il quale ciascuno di noi sarebbe rimasto a vivacchiare nei propri angusti recinti.

Se ci limitassimo a guardare alla pochezza e allo stato comatoso in cui versa la quasi totalità delle restanti aree della sinistra di classe, del movimento e del sindacalismo di base, potremmo senz'altro spingerci a facili trionfalismi e/o entusiasmi, ma si tratterebbe di una ben magra consolazione.

Al contrario, mettere bene a fuoco i limiti, le difficoltà e gli ostacoli oggettivi che si frappongono alla crescita e allo sviluppo del nostro percorso rappresentano il presupposto fondamentale per un suo effettivo sviluppo e rilancio. Nello specifico, lo stato di perdurante passività della classe costituisce il principale ostacolo oggettivo, in quanto tale non aggirabile con il semplice ricorso a spinte attivistiche e velleità volontaristiche: il “fronte unico di classe“ richiamato nelle nostre iniziative e nei nostri documenti costituisce ad oggi tutt'altro che un traguardo già raggiunto, bensì un orizzonte verso cui marciare, ma impossibile da proclamare in asssenza di una ripresa delle lotte e del protagonismo di massa dei lavoratori e degli sfruttati.

D'altro canto, i limiti e le difficoltà finora registrate sono principalmente ascrivibili a un deficit di strutturazione del Patto d'azione sia sul piano nazionale sia su quello locale, in quanto tali superabili attraverso la definizione di un modello organizzativo interno che sia adeguato ai compiti che ci prefiggiamo, capace di rifuggire ogni burocratizzazione ma anche di superare lo stato ancora estremamente “fluido“ e magmatico delle assemblee e dei processi decisionali.

Per superare l'attuale status di “intergruppi“ non bastano le dichiarzioni d'intenti: è necessario aprire il più possibile le porte del Patto d'azione ai lavoratori, ai proletari in lotta, agli studenti e agli attivisti che ne condividono i principi e gli obbiettivi immediati e favorire il loro coinvolgimento diretto nel confronto e nella costruzione delle iniziative. Pur in un clima non proprio esaltante, in questi mesi si è registrato lo sviluppo di vertenze e percorsi di lotta che hanno visto in prima fila nuovi segmenti del lavoro salariato; dai lavoratori dello spettacolo ai riders, dai precari della sanità alle lavoratrici del settore multiservizi.

I compagni e le compagne del Patto d'azione devono essere capaci di intervenire in queste lotte ovunque possibile, favorendo il collegamento diretto di queste mobilitazioni con l'assemblea nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi.

Per rendere praticabili questi obbiettivi occorre innanzitutto strutturare meglio il percorso sui singoli territori, dando vita in breve tempo ad assemblee cittadine del Patto, all'interno delle quali sia nominato un coordinamento cittadino del Patto d'azione tale da rispecchiare su ogni territorio la pluralità di tutte le sue componenti, e al cui interno vengano nominati dei membri che andranno a formare un gruppo operativo nazionale del Patto d'azione, tale da rispecchiare sia il pluralismo delle componenti sia il peso delle singole città.

A tal proposito si formula la seguente proposta di gruppo operativo nazionale:

5 rappresentanti da Milano, Roma, Napoli e Bologna;

4 rappresentanti da Piacenza e Torino;

3 rappresentanti da Brescia, Modena, Genova e Venezia;

2 rappresentanti da Bergamo, Taranto, Firenze, Foggia, Palermo e Messina;

1 rappresentante per tutte le altre province.

Al contempo, va definita una volta per tutte la diatriba sulla denominazione uniforme del percorso: se è del tutto fisiologico che in questa prima fase ciascuna componente, a seconda delle propria sensibilità e delle proprie convinzioni ha teso a mettere in evidenza il termine che gli stava maggiormente a cuore (“Patto d'azione“, “Fronte anticapitalista, “Fronte unico“), è altrettanto evidente che un percorso comune non può non dotarsi di un'unica denominazione su tutto il territorio nazionale.

Per i motivi esposti sopra, si propone come denominazione unica e definitiva la seguente: Patto d'azione anticapitalista- per il fronte unico di classe.

La piattaforma, i percorsi di lotta e le prossime scadenze

Le assemblee di marzo e aprile hanno riassunto in 13-14 punti le rivendicazioni comuni al Patto d'azione, ciascuna delle quali è espressione di lotte in corso o di forme di intervento potenziali o già in essere nei principali gangli delle contraddizioni capitalistiche.

Va altresì evidenziato che il programma di rivendicazioni non è una lista di desideri, e men che meno un feticcio da adorare, quanto piuttosto una guida per l'azione capace di orientare l'iniziativa politica quotidiana nella misura in cui sa rapportarsi alla evoluzione della situazione economico-sociale e politica italiana (e non solo). Il che significa, al 22 nov. 2020, rapportarsi all'acuirsi della crisi sanitaria ed economica.

Questo ci chiama a portare di nuovo in primo piano la auto-difesa della salute da parte dei lavoratori nei luoghi di lavoro e nella società, con il rilancio della critica generale non solo al taglio delle spese per la sanità pubblica, ma a tutto il processo di aziendalizzazione di essa, di accorpamento degli ospedali e di introduzione sempre più in profondità della finalità del profitto. A questo processo, che è responsabile n. 1 dell'attuale crisi sanitaria, va contrapposta la rivendicazione di una sanità centrata sulla prevenzione degli infortuni e delle morti sul lavoro, la prevenzione delle malattie e delle epidemie, la strutturazione di una medicina del territorio che non è mai stata integralmente costituita, l'opposizione frontale al vergognoso business dei tamponi e delle ambulanze, ecc.

Ciò partendo dalla consapevolezza che la tutela della salute dei lavoratori passa innanzitutto dalla sicurezza e dalla prevenzione sui luoghi di lavoro.

La realtà dei fatti sta (purtroppo) confermando le previsioni da noi fatte in primavera: questo sistema, fondato unicamente sulla rincorsa cieca ai profitti, non ha alcuna chance di superare la crisi pandemica in tempi brevi. Il fatto che nel bel mezzo della seconda ondata, e malgrado i continui annunci sull'imminenza del vaccino, si parli già di terza o di quarta ondata, è da questo punto di vista paradigmatico.

Occorre dunque prepararsi a una dura e lunga battaglia per il diritto alla salute e alla vita dei lavoratori, mettendo in piedi campagne per il varo di protocolli anti-Covid precisi e vincolanti per tutti i padroni, sostenendo le iniziative già in corso su questo tema (su tutte quella portata avanti in queste settimane dal SI Cobas), ma soprattutto lottando per il diritto a stare a casa con l'integrazione salariale al 100% in tutte le aziende in cui non si applicano o in cui non è oggettivamente possibile applicare le misure di prevenzione.

In secondo luogo, in barba alla moratoria sui licenziamenti, ad oggi abbiamo già oltre 800.000 nuovi disoccupati, sia a causa del mancato rinnovo dei contratti a termine, sia in conseguenza delle chiusure di attività (vedi Whirlpool), sia attraverso l'espediente dei finti licenziamenti disciplinari, nonchè maree di cassintegrati che hanno visto i loro salari ridotti all'osso e un'altra epidemia di disoccupazione in arrivo. In un tale contesto, foriero di precipitazioni improvvise, va messo in primo piano il salario medio operaio garantito a tutti i disoccupati - anche a quelli che siano, evidentemente, diventati tali per fallimento dei propri piccoli esercizi (cosa ben diversa dai ristori!). Questa rivendicazione va legata alla riduzione drastica e generalizzata della giornata lavorativa, per il lavoro socialmente necessario, proprio per portare a fondo la critica al modo di produzione capitalistico che in questa crisi produrrà montagne di disoccupati.

In terzo luogo, va smascherato con forza, senza se e senza ma, il disegno complessivo del capitalismo nazionale (in una con la UE e col governo Conte) teso a progettare un uso dei 209 miliardi del Recovery fund secondo la linea "come prima, peggio di prima", con il finto sviluppo "green", la micidiale Industria 4.0, la desocializzazione programmata con lavoro a distanza (a domicilio) e scuola a distanza, l'ulteriore incremento delle spese belliche (Mattarella&Co. hanno chiesto 10.000 soldati in più e nuovi armamenti), la tanto agognata fine del "sussidistan" (mai esistito, peraltro), nuove carceri e centri di detenzione per immigrati: il tutto finanziato, attraverso l'ingigantimento del debito di stato e il nuovo debito europeo, dalla classe lavoratrice e in particolar modo dalle future generazioni.

A questa prospettiva noi contrapponiamo il fronteggiamento dei disastri sociali creati dalla doppia crisi con una patrimoniale 10% sul 10%, i cui proventi vanno utilizzati secondo tutt'altre priorità: salario garantito, riduzione generalizzata e drastica orari di lavoro per il lavoro socialmente necessario: struttura sanitaria fondata sulla prevenzione, trasporti pubblici anti-inquinamento su rotaia, messa in sicurezza dei territori, risanamento ambientale, etc.

A partire da questi temi, occorre già a partire dai prossimi giorni sviluppare su tutti i territori iniziative di lotta e campagne di denuncia dello sfascio della sanità pubblica, dei trasporti e dell'istruzione e di agitazione rivolta alle condizioni di miseria che attanagliano la forza lavoro precaria e disoccupata: una campagna che viaggi in parallelo con la battaglia sul tema della sicurezza, della salute, dei salari e dei contratti in tutti i settori della produzione e distribuzione e di concerto con l'assemblea dei lavoratori combattivi.

Si tratta in sostanza di utilizzare le prossime tre settimane come una vera e propria fase di lavoro e di iniziativa agitatoria, tesa a denunciare le politiche borghesi di risposta alla crisi e gli interventi governativi sull’epidemia, affinché sia visibile sui territori e nei luoghi di lavoro un piano operaio e proletario di fuoriscita dalla crisi del capitalismo pandemico, e che possa confluire in una nuova iniziativa nazionale nel week-end 12-13 dicembre (in cui è prevedibile un alleggerimento delle misure restrittive a causa dell'avvicinarsi delle ricorrenze natalizie).

In ultimo, occorre moltiplicare gli sforzi per dar vita a una rete di collegamento internazionale delle lotte anticapitaliste. In un frangente storico che vede una ripresa impetuosa del conflitto e della mobilitazione nel cuore della prima potenza imperialista mondiale, sarebbe del tutto miope che gli anticapitalisti italiani si limitino a guardare il proprio ombelico, magari illudendosi di poter venir fuori da soli dall'impasse che da molti anni caratterizza le forze di classe del nostro paese: alla devastante e velenosa campagna per l'Italexit, spesso portata avanti con argomenti apparentemente “di sinistra“, che alimenta la concorrenza e la reciproca diffidenza tra lavoratori, dobbiamo contrapporre la fraternizzazione e l'unità internazionalista, la globalizzazione delle lotte e dell'organizzazione di classe.

L'assemblea del Patto d'azione propone dunque di integrare i punti della piattaforma di lotta come segue:

1. autodifesa della salute da parte dei lavoratori, per sé e per tutta la popolazione; revisione dei Protocolli del 24 aprile, con l'introduzione dell'obbligatorietà dello screening e dei tamponi a tutti i lavoratori e il varo norme e misure stringenti e vincolanti per la prevenzione dei contagi sui luoghi di lavoro, in cui sia espressamente prevista la possibilità di chiudere le aziende laddove non sia possibile garantire il diritto alla salute e alla vita degli operatori; creazione in tutte le aziende di comitati dei lavoratori che vigilino sul rispetto dei protocolli; piano nazionale straordinario di assunzione di infermieri e medici, con l'immediato esaurimento delle graduatorie degli idonei e la stabilizzazione di tutti/e i/le precari/e, senza nessuna discriminazione nei confronti del personale sanitario d'immigrazione; integrale riorganizzazione del servizio sanitario pubblico unico, universale, gratuito, dotato di una diffusa rete territoriale, con al centro l'obiettivo della prevenzione delle malattie e la tutela della salute sui luoghi di lavoro; requisizione senza indennizzo di tutte le cliniche private, anche oltre l’emergenza; abolizione dei sistemi di "welfare" sanitario aziendale e di ogni altra forma di finanziamento indiretto alla sanità privata.

2. Salario medio garantito per disoccupati, sottoccupati, precari e cassintegrati.

3. Riduzione drastica e generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario: lavorare meno, lavorare tutti; per il lavoro socialmente necessario.

4. I costi della pandemia e della crisi siano pagati dai padroni, a partire da una patrimoniale del 10% sul 10% più ricco della popolazione.

5. Libertà di sciopero e agibilità sindacale, contro i divieti delle questure, dei prefetti e della Commissione di garanzia sugli scioperi: se si lavora, si ha anche il diritto di svolgere attività sindacale e di scioperare.

6. Diritto al lavoro per tutte le donne, contro la precarizzazione e il lavoro a distanza; per il potenziamento dei servizi di welfare, contro la conciliazione tra lavoro domestico ed extra-domestico; contro il sessismo e la violenza sociale e domestica; per il diritto di aborto assistito e l’auto-determinazione delle donne.

7. Abrograzione dei decreti-sicurezza: no alla militarizzazione dei territori e dei luoghi di lavoro.

8. Contro la regolarizzazione-beffa Conte-Bellanova, permesso di soggiorno europeo a tempo indeterminato per tutti gli immigrati e le immigrate presenti sul territorio nazionale; garanzia di salario diretto e indiretto, diritto all’abitare e assistenza sanitaria; chiusura dei CPR, riapertura dei porti.

9. Drastico taglio alle spese militari (un F35 costa quanto 7113 ventilatori polmonari) e alle grandi opere inutili e dannose (quali Tav, Tap, Muos).

10. Piano straordinario di edilizia scolastica e di assunzione di personale docente e non docente per garantire la salute nelle scuole e, appena possibile, la didattica in presenza. Abolizione dell’alternanza scuola-lavoro, programmi di formazione pagati a salario pieno. Critica della cultura, dell'arte e della scienza al servizio del profitto.

11. Blocco immediato degli affitti, dei mutui sulla prima casa e di tutte le utenze (luce, acqua, gas, internet) per i disoccupati e i cassintegrati; blocco a tempo indeterminato degli sgomberi per tutte le occupazioni a scopo abitativo.

12. Revoca di qualsiasi progetto di “Autonomia differenziata”, che penalizza i proletari e i lavoratori del Sud.

  1. Amnistia e misure alternative per garantire la salute di tutti i proletari e le proletarie detenuti.

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