Nella tua lettera a Bresciaoggi, giustamente tu dici che hai scelto di fare l’infermiere e che non ti sei Arruolato, visto che l’aggettivo Eroe, come ci hanno chiamati da Fontana a Conte, da mass media a Confindustria, ti suona come un linguaggio “bellico” (e che ha dato fastidio alla maggioranza di tutti gli operatori sanitari e servizi annessi) non consono al lavoro a cui eravamo, e siamo, chiamati a svolgere: combattere un’emergenza sanitaria e non una guerra. In linea teorica tutto giusto, ma ci sono dei ma che è necessario comprendere. Nella prima ondata della pandemia e non a caso questo termine, EROI, è stato usato, Fontana in testa, per dire che “che stavamo combattendo una guerra contro il virus” associandolo alla fake “un fulmine a ciel sereno”. Quindi, che piaccia o no, di fatto ci siamo trovati proiettati in uno scenario di guerra. Solo che i termini “guerra” e “fulmini a ciel sereno”, non solo non erano casuali, fuorvianti e disinformativi, ma che in parte era vero che era, ed è, in corso una guerra. Mi spiego meglio: non vi è stato nessun fulmine o tsunami: primo perché, sappiamo o dovremmo sapere bene, che le pandemie non sono un incidente di percorso, ma il frutto di
questo sitema di produzione capitalista; secondo perché la sanità pubblica, intesa come bene collettivo, non sfugge alle leggi di mercato, e di conseguenza la giunta Fontana ha usato questo termine per “giustificare” la devastazione della sanità pubblica in nome e per conto dei profitti dei padroni della sanità privata e della loro corruzione. Ma anche il termine guerra non è poi tanto inappropriato, PERCHÈ? Perché l’averci fatto lavorare a “mani nude” come “carne da macello” è stata la scelta criminale di chi ha trasformato una pandemia in strage; perché Fontana e company conoscevano bene il disastro che avevano prodotto; perché non avevano approntato, dopo la Sars del 2003, il piano prevenzione; perché durante la prima ondata hanno continuato nello sfascio della sanità pubblica e lucrare personalmente (do you remenber la vicenda camici di famiglia?). Da questo si deduce che di fatto SI una guerra era, ed è, in corso, ma una guerra di classe. E questo nella seconda ondata è ancor più evidente, dove tutti gli operatori sanitari, con la criminale direttiva Trivelli, si trovano senza i rafforzamenti promessi (assunzioni massicce; DPI per tutti; Tamponi e screaning di massa e a tappeto; riapertura delle strutture chiuse, in questi 30 anni, da Regione Lombardia), costretti a lavorare da contagiati ma asintomatici, dopo che ci hanno negato i tamponi nella prima fase e farci passare oggi per UNTORI, e ridotti allo stremo delle forze, fisiche e mentali. E si caro Mariano una guerra è in corso. Una guerra da chiamare con nome e cognome: GUERRA DI CLASSE, tra una minoranza di ricchi che si possono curare nelle loro cliniche private e la maggioranza dell’umanità, a partire dai lavoratori/lavoratrici della sanità uniti a operai e i lavoratori degli altri settori, che sono nelle stesse nostre condizioni: costretti a lavorare, contagiarsi e contagiare senza tutele, a morire, zittiti perché se rivendichi diritti vieni represso, senza una prospettiva di cambiamento. Quindi che piaccia o meno siamo costretti a ragionare e passare per un buco stretto: ARRUOLARSI O NO! Non per fare gli eroi ma per costruire collettivamente la forza necessaria, non solo per resistere ma per organizzarci e costruire l’unica alternativa possibile e necessaria: UN CAMBIAMENTO SOCIALE, dove allora si ha un senso la SALUTE E SICUREZZA COME BENE SOCIALE. È ORA DI ARRUOLARSI E SCEGLIERE DA CHE PARTE STARE!Gaglio Giuseppe Slai Cobas sc Sanità Milano - cobasint@tiscli.it
da Radio Onda D'urto
Mariano De Mattia, infermiere presso gli Spedali Civili di Brescia, ha scritto una lettera al direttore del Bresciaoggi dal titolo “Ho scelto di fare l’infermiere, non mi sono arruolato”. Il suo intervento, pubblicato sull’edizione di mercoledì 18 novembre 2020, propone una riflessione intorno all’utilizzo massiccio, in questi mesi, sui media, nei discorsi dei politici, e dunque nel discorso pubblico in generale, di un lessico di guerra per parlare in realtà di salute, di sanità e cura, nel contesto della pandemia di Covid-19.
“Quando ho scelto la professione infermieristica – scrive Mariano – mi sono iscritto alla facoltà di Medicina e chirurgia ed ho fatto, per quasi otto anni, la spola tra Università e ospedale. Non mi sono arruolato, alternando periodi di esercitazione al altri di guerra nè ho trasferito la mia residenza in una caserma“. “Diventare un buon soldato non è mai stata una mia aspirazione – prosegue l’infermiere del reparto di Oculistica dell’ospedale civile – Dunque mi pesa enormemente anche l’esser considerato un eroe. Ho invece cercato di misurare il dolore altrui ascoltando e dando credito a percezioni e vissuti personali, più che inseguendo diagnosi e storie cliniche. Ho imparato nomi, gusti ed abitudini facendo sì che queste varianti umane avessero sempre la precedenza su patologie, numeri di letto ed esami diagnostici. Ho spesso trovato addirittura un conforto nei pazienti, che mai ho considerato ‘clienti’“.
Abbiamo intervistato Mariano De Mattia, al quale abbiamo chiesto anche alcune sensazioni riguardo la sua esperienza di infermiere durante questi mesi di una pandemia che ha colpito duramente il nostro territorio (e in particolare proprio l’ospedale civile), ma anche le sue considerazioni sulla gestione, nazionale e locale, dalla prima alla seconda ondata, dell’emergenza sanitaria legata al Covid-19. Ascolta o scarica l’intervista.
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