Non calamità naturale
imprevedibile né tsunami ma strage epidemica colposa. Bisogna smettere
di proporre rimozioni e manovre ipnotiche. Occorre guardare in faccia la
realtà. Prospettive per il futuro a partire dalla riflessione critica
sul passato: per affermare verità e giustizia.
APPELLO ALL’INCHIESTA POPOLARE “DAL BASSO”
Riflessioni dall’osservatorio del territorio della Ausl di Bologna (non la situazione peggiore) con osservazioni forse utili per tutto il territorio italiano.
PREMESSA
Senza dubbio siamo stati travolti dagli eventi. Via via che passavano le settimane si è fatto fatica a comprendere quali dovessero o potessero essere i punti su cui concentrare la nostra attenzione e i nostri interventi. Dopo la redazione di numerosi documenti (citati in calce e tutti reperibili anche attraverso “la bottega del barbieri”) con il tentativo infruttuoso di ottenere maggiori informazioni e dati epidemiologici dagli enti istituzionali, abbiamo comunque cercato di essere presenti soprattutto su uno dei fronti più problematici di questa guerra non dichiarata: la sicurezza nei luoghi di lavoro. Detto per inciso abbiamo appreso che presso la Ausl ha lavorato un gruppo di persone (fino a 40) specificatamente sulle indagini epidemiologiche ma i loro risultati non sono stati socializzati se non molto parzialmente. Probabilmente il Dipartimento di sanità pubblica non ha ritenuto di dover girare i nostri quesiti a questo gruppo, preferendo “non rispondere”. La logica è che i dati devono rimanere nelle mani delle istituzioni perché evidentemente i cittadini meritano di rimanere all’oscuro o, peggio, le loro richieste di accesso sono “pericolose”.
Ci sarà da lavorare. A esempio nel confrontare i riscontri del gruppo Ausl di via Gramsci
(Bologna) con quelli dell’Inail per valutare se – o meglio: in che misura – le osservazioni sui dati occupazionali coincidano; la totale coincidenza è impossibile per la differente platea di riferimento.
Il bilancio dell’epidemia in termini di vite umane e di costi sociali-economici pur non potendosi considerare chiuso è già catastrofico. Va analizzato in dettaglio anche per avviare le necessarie azioni di risarcimento che rimangono comunque un problema “minore” rispetto alla questione centrale: comprendere dove si è sbagliato e cosa occorre fare per prevenire nuovi eventi analoghi.
Macro-prevenzione planetaria e nazionale: tardiva e lacunosa, quasi zero.
Le omissioni cominciano dall’alto. Alcuni media più accorti hanno denunciato l’inesistenza di un “piano pandemia” – nonostante che questo sia “obbligatorio”- mettendo sotto accusa anche l’OMS e altre agenzie sia internazionali e nazionali. Ed è stato documentato (da Rai Report, a esempio) come in differenti circostanze l’Oms abbia messo in atto una solerzia degna di miglior causa: rivelatasi molto utile per i profitti delle multinazionali farmaceutiche ma inutile per la salute pubblica e per le casse degli Stati nazionali. Nel caso del coronavirus invece l’approccio “rallentato” ha coinvolto negativamente sia i tempi della comunicazione che persino l’approntamento dell’ultima “difesa all’arma bianca” cioè utile nel “corpo a corpo” col virus; perché tali dobbiamo considerare i ddppii (dispositivi di protenzione individuali) per le vie respiratorie.
Parafrasando lo slogan del movimento pacifista «svuotare gli arsenali, riempire i granai» se solo avessimo avuto i magazzini pieni di ddppii adeguati avremmo creato quel solido “cordone sanitario” – noto alla società dai tempi della peste – che avrebbe fatto assumere agli eventi un andamento completamente diverso.
Viene in mente un vecchio episodio: l’Italia dei Palazzi mentre si preparava alla guerra contro Saddam Hussein (che in verità è stata fin dall’inizio contro il popolo irakeno) – ricordate la “provetta” agitata all’ONU da Colin Powell per “dimostrare” l’esistenza di un vasto arsenale di armi biologiche – comprò e stoccò enormi quantità di vaccino antivaiolo. Notizia esagerata? Noi che siamo alla periferia dell’impero non lo sappiamo con esattezza; ma quell’evento fa pensare a una lungimiranza che certo nella vicenda corona virus le istituzioni sanitarie pubbliche non hanno voluto adottare.
Realisticamente le informazioni sufficienti per adottare misure urgenti di prevenzione erano disponibili già dal dicembre 2019, tutt’al più dal gennaio 2020, anche se cadevano nel “buco” della colpevolissima inesistenza del piano nazionale pandemico.
I dati sierologici oggi disponibili parlano di una percentuale di soggetti portatori di anticorpi, a Milano, di circa 4% della popolazione già a febbraio. Risulta peraltro una comunicazione alle Regioni italiane, il 5 gennaio 2020, che allertava circa una «pericolosa polmonite». La notizia è rimbalzata su diversi media e rappresenta la data dalla quale ragionevolmente dovevano e potevano materialmente partire le macromisure di prevenzione, avviate invece con disatroso ritardo.
OSSERVAZIONI GENERALI
I dati nazionali sono noti. Nel solo territorio della Ausl di Bologna alla data del 21 maggio si sono contati 597 decessi: di cui 284 donne e 303 uomini. I soggetti positivi riconosciuti alla data del 17 maggio (poi il dato non è più dato ufficialmente) sono stati 2492 donne e 2005 uomini. Alcuni ricerche hanno asserito che il rischio non ha evidenziato differenze tra maschi e femmine. Ma i dati per ora dicano altro. Npn sappiamo ovviamente se la conta ufficiale dei decessi sia esaustiva o fortemente approssimata per difetto, né quando il coronavirus sia stato causa unica o concausa determinante oppure marginale. Nonostante questa ultima annotazione, rimane fondata l’ipotesi di un dato di mortalità fortemente sottostimato.
Fin dall’inizio della epidemia abbiamo focalizzato l’attenzione sui luoghi di lavoro.
Col tempo – molto tardi – sono comparsi i dati sulla percentuale dei positivi “occupazionali”. La Ausl di Bologna ha prima pubblicato numeri riguardanti il comparto sanitario per poi sdoppiare questa coorte in sanitario e socio-assistenziale. E siamo passati da un primo dato ufficiale del 25% dei positivi provenienti dal comparto sanitario a una successiva differenziazione (e crescita) calcolata sui due comparti contigui che diventavano complessivamente il 27%. Da una certa data – attorno al 12 maggio – il dato occupazionale nella rendicontazione giornaliera della Ausl di Bologna è scomparso. Fin dall’inizio abbiamo chiesto a Inail e Ausl, senza ricevere alcuna risposta, dati più precisi: non era ipotizzabile che i casi occupazionali emergessero solo dal comparto sanitario e socio assistenziale. Questa nostra semplice previsione è stata poi confermata dall’Inail a livello regionale e nazionale.
Da questa ultima fonte Inail (nota 1) risultava che il 73% dei positivi occupazionali riguardasse i due comparti citati. Possiamo dunque ipotizzare che la quota complessiva dei casi occupazionali a Bologna e in generale possa essere del 32-33%. Ma questo presumibilmente solo per i dati registrabili dall’Inail che non comprendono medici di base, farmacisti, badanti “in nero” e altri settori lavorativi non coperti dall’assicurazione dell’Istituto. Per dare una idea dell’abituale approssimazione per difetto dobbiamo ricordare che una decina di anni fa uno studio della Regione Toscana evidenziò che i morti sul lavoro censiti dall’Inail erano poco più del 50% dl totale.
Dunque i dati non rilasciatici ma poi pubblicati in maniera generica dall’Inail confermano la nostra ipotesi iniziale che la “frana” si sia verificata nel comparto lavorativo. Non possiamo dare per scontato che la direzione del contagio sia stata sempre da operatore verso assistito o da operatore verso familiare ma se ogni lavoratore ha poi contagiato due persone allora, a partire da quel 33% di cui abbiamo parlato, arriviamo a spiegare quasi l’intera mappa epidemica verificatasi in Italia. Non si può escludere che qualche contagio si sia verificato nella direzione che va dal visitatore (di solito un parente) all’assistito per poi colpire gli operatori. La catena andrà ricostruita caso per caso ma viste le misure restrittive adottate (dalle case di riposo alle carceri, agli ospedali) la parte essenziale del problema è stata certamente interna al luogo di lavoro. Rispetto ai contagi – eventuali – dall’esterno: anche questi dovevano essere gestiti meglio. Un rischio neanche considerato all’inizio che è stato poi affrontato con scelte troppo drastiche, ed evitabili che hanno comportato gravissime forme di deprivazione sociale ed affettiva. A ogni buon conto, dopo decenni di discussioni , grazie ai contributi chiarificatori di alcuni magistrati (in primis Raffaele Guariniello) si è dovuto prendere atto che una organizzazione sana e orientata alla prevenzione deve tenere conto anche dei rischi per così dire “esterni” cioè non legati direttamente al ciclo produttivo della singola azienda in esame ma incombenti dall’esterno. Gli ospedali e le case di riposo sono luoghi cui riservare la massima protezione. Nel Settecento nei dintorni dell’ospedale veniva cosparsa paglia per evitare che il rumore delle carrozze disturbasse i malati: l’uomo deve saper attingere alla saggezza che in passato ha saputo mettere in campo… Facciamo riferimento ad esempio al “rischio rapina” che certe organizzazioni hanno faticato a includere nella propria valutazione dei rischi; non certo con l’illusione di annullare il rischio alla fonte ma di tenerlo, per quanto possibile, sotto controllo, mitigandone l‘impatto sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori. Le relazioni tra persone anziane e familiari come quelle fra persone detenute e loro congiunti potevano esser gestite senza forme penose ed estreme di segregazione, adottando altre misure di sicurezza. Evitando così sia le rivolte carcerarie che le drammatiche vicende di persone anziane morte in solitudine.
Occorreva avere le idee molto chiare sui mezzi da usare per evitare i contagi mentre si sono riscontrate prassi improvvisate, lacunose e persino controproducenti (nel senso di indurre illusioni di sicurezze in verità inesistenti): invece quando si tratta di reprimere sadicamente lo Stato ha saputo inventare i vetri divisori fra il padre detenuto e il bambino di 4 anni…
Altri virus hanno avuto una parabola diversa dal Covid. Pensiamo a Ebola: è come se a un certo punto sia entrato in un vicolo cieco nel quale si è estinto.
Se nei luoghi di cura e di assistenza il virus avesse trovato una barriera insormontabile, o comunque sostanziale, i lavoratori non si sarebbero contagiati e ammalati nella misura in cui è avvenuto e non avrebbero contagiato altri pazienti, assistiti o familiari o amici che siano. L’andamento del contagio non sarebbe stato azzerato ma sarebbe stato molto più lento con l’effetto anche di non sovraccaricare simultaneamente fino allo spasimo le strutture ospedaliere specialistiche.
La “diga” non ha funzionato, per certi versi non è esistita.
Rispetto alle narrazioni che tendono a interpretare l’epidemia come imprevedibile, occorre ribadire che se l’imperativo categorico della protezione dei lavoratori – che è fondato peraltro su obblighi morali e giuridici che prescindono dagli allarmi dell’ultimo minuto – fosse stato messo in pratica oggi l’epidemia sarebbe stata praticamente cancellata o comunque circoscritta a un ristretto numero di casi molto più facilmente gestibili dal punto di vista anche della presa in carico sanitaria e terapeutica.
Sin dall’inizio abbiamo assistito a pratiche e messaggi fortemente contraddittori. Da un lato i richiami chiari e inequivocabili (Guariniello) all’aggiornamento della valutazione del rischio e alla conseguente rigorosa adozione di misure procedurali, organizzative e individuali di prevenzione (decreto 81/2008, «RISCHIO BIOLOGICO»). Dall’altro prassi del tutto inadeguate come la distribuzione dei dispositivi di protezione individuale solo a chi ne facesse espressa richiesta o anche uso di ddppii assolutamente inefficaci e persino il divieto a usare ddppi per le vie respiratorie “per non allarmare” gli assistiti o come pare essere successo nelle carceri, per non allarmare le persone detenute.
A proposito dell’ efficacia dei dddppii utilizzati:
Un’altra epidemia è (era) possibile
Molte fonti politiche e istituzionali hanno dunque proposto una chiave lettura degli eventi come naturali e sostanzialmente ineluttabili.
Il commissario straordinario della Regione Emilia-Romagna, nel suo saluto di commiato, ha parlato di tsunami. Già prima aveva messo “le mani avanti” facendo inopportuni commenti sul decesso della lavoratrice Anna Caracciolo (sulla vicenda abbiamo inviato un esposto alla Procura della Repubblica di Modena); inopportuni nel senso che il commissario straordinario ha rivelato dati sanitari relativi alla lavoratrice (forse autorizzato dai familiari?) il che è parso una giustificazione sulla defaillance del sistema dal punto di vista dell’omissione o quantomeno lacunosità nell’utilizzo delle misure di prevenzione. Abbiamo sempre diffidato del concetto di «calamità naturali»; uno storico libro di Federico Chabod argomentò come in verità siano prevedibili; il campo di osservazione di Chabod erano la natura e l’ambiente in senso lato ma il pensiero critico si può estendere a tutto lo scibile umano.
Il citato commissario straordinario – nominato per imperscrutabili motivi – aveva ampie ragioni per mettere le mani avanti. Il terreno di coltura (nel senso quasi letterale che si dà a questo termine in biologia) dell’epidemia sono state le strutture sanitarie di cui egli ha avuto la responsabilità politico-amministrativa negli ultimi 5 anni e le case di riposo per anziani che, pur non essendo sotto la diretta gestione della Regione Emilia-Romagna, dovevano e potevano ben essere controllate meglio dal punto di vista della gestione delle misure di prevenzione. Quel che non è direttamente gestito dalla Ausl e dalla Regione viene dalla Regione comunque accreditato e pur di difendere l’idea dell’Emilia-Romagna come “il migliore dei mondi possibili” quale argomento più convincente della «calamità naturale»? Sia detto non per tacere di altre situazioni certamente più critiche come quella dalla Lombardia.
Ovvio che certe dichiarazioni hanno il senso del tentativo di autoassoluzione. E nonostante tutto il commissario – al momento delle dimissioni – è stato salutato dai media con grandi encomi. Congedandosi con dimissioni anticipate rispetto all’incarico ricevuto, si è affidato a metafore riguardanti se stesso (si è paragonato a un colibrì) e i suoi collaboratori (hanno insieme guadato i fiumi e lui augura chi rimane di incontrare sul suo percorso solo torrenti estivi): tutto molto poetico ma il commissario nulla ha detto sulle macroscopiche falle del sistema di prevenzione.
Circa l’ineluttabilità del contagio mortifero.
E’ in sintonia con la narrazione dello tsunami ineluttabile una ricostruzione del decesso in ospedale a Bologna di un giovane uomo trapiantato di rene. La versione giornalistica induce un forte sentimento di stupore: «il virus uccide anche nel reparto inviolabile» narra Il Resto del Carlino del 24 aprile 2020. Il reparto «inviolabile» è quello di nefrologia, in cui certo occorre una dose supplementare di attenzione considerato che i trapiantati sono più vulnerabili. Però mentre raccogliamo informazioni su severissimi ed “eccessivi” protocolli per l’ammissione in certi reparti (si riferiscono a struttura ospedaliera psichiatrica della Regione in cui il ricovero sarebbe preceduto dal tampone faringeo e dalla Tac polmonare) prendiamo atto di come viceversa nel reparto di nefrologia la persona deceduta era entrata in condizioni di covid-negatività ma sarebbe stata assistita e accudita da personale positivo che, tuttavia non è ancora stato identificato. Dobbiamo chiederci a questo punto: se un lavoratore positivo ha contagiato il paziente, quali mezzi di prevenzione ha avuto a disposizione e ha usato? Con quale evidenza di efficacia?
Anche il riferimento al «reparto inviolabile» appare auto-assolutorio e sfocia nel mare magnum della ineluttabilità. Ma dobbiamo ricordare che un reparto contiguo (sempre di nefrologia) fu teatro di un clamoroso “errore di lato” solo qualche anno fa: a una donna fu asportato un rene sano e morì poi per inadeguatezza anche del trattamento medico successivo! Errore di lato significa asportare invece che l’organo malato quello laterale, sano. Non si è trattato, negli ultimi trenta anni, di eventi eccezionalmente rari .
Dunque a fronte del decesso di una persona pare fuori luogo lo stupore attribuito alla (presunta) inviolabilità. Occorre invece analizzare la dinamica reale degli eventi e mettere in discussione presunte certezze che sono sempre molto pericolose.
La Procura della Repubblica di Bologna
Alla “ratio” dei tentativi di autoassoluzione del commissario regionale dell’E-R (già il termine è significativo: a cavallo fra il commissario del popolo e quello di polizia : è un guaio quando la sanità pubblica ha bisogno di commissari) vengono in soccorso le concilianti dichiarazioni del Procuratore della Repubblica di Bologna che ha fatto alcune affermazioni discutibili e sorprendenti (intervista a Il Resto del Carlino, 10.5.2020). Anzitutto rassicura che non ci sarà “terrorismo giudiziario”: questo, a caratteri cubitali era il titolo dell’intervista. Una terminologia berlusconiana dunque stupefacente se pronunciata da un procuratore in quanto tutti i cittadini si attendono una “giustizia giusta” senza assoluzioni preventive fondate su convinzioni (quelle del procuratore appunto) più politiche che tecniche. Sostiene il procuratore che «qui non c’è stato un caso Pio Albergo Trivulzio»; come è noto sulle vicende dell’istituto suddetto incombe una indagine per epidemia colposa. Sostiene il procuratore (che può avere informazioni su Milano solo, presumiamo, di tipo giornalistico) che a Bologna le cose sono andate «diversamente», che sono stati aperti 20 fascicoli ma – lascia intendere – saranno chiusi tutti con un classico «non luogo a procedere». Forse grazie all’argomento che funziona da panacea universale: appunto l’imprevedibilità degli eventi (inverosimile tuttavia che gli eventi siano imprevedibili a Bologna e non a Milano). I quali eventi, come già detto, sono stati tutt’altro che imprevedibili e comunque avrebbero, più o meno tardivamente, potuto essere meglio fronteggiati se le misure di prevenzione si fossero ispirate a quello che era giusto e, per fare un esempio, alle chiare indicazioni fornite da Raffaele Guariniello: cioè aggiornamento del documento di valutazione del rischio, adozione tempestiva delle misure procedurali, organizzative e individuali previste come obbligatorie dal decreto 81/2008 al capitolo rischio biologico. Purtroppo diversi consulenti dei datori di lavoro si sono attardati – col virus non alle porte ma già in casa – a discutere se e in che misura si dovessero applicare le norme del decreto 81/2008 e (addirittura) se il documento di valutazione dei rischi dovesse o no essere aggiornato !
Al momento non sappiamo se qualcuno di quei 20 fascicoli riguardi il carcere di Bologna o “casi” occupazionali cioè relativi a lavoratori ammalatisi o se invece tutti riguardino solo pazienti e utenti dei servizi sanitari. Sarà comunque nostra cura seguire queste indagini, avanzare istanza di costituzione di parte civile, a maggiore ragione a sostegno di parti lese rappresentate dai familiari colpiti da lutti e/o eventuali maltrattamenti.
Gli avvocati dei possibili imputati
La vicenda dell’Ilva di Taranto ha fatto scuola; si sa che la gramigna, una volta attecchito, è dura da sradicare. Dopo la penosa vicenda dello «scudo penale» Ilva (di per sé ignobile che equivale a dire: per un certo numero di anni depenalizziamo l’omicidio o la rapina) l’idea dello «scudo» ha eccitato alcuni azzeccagarbugli.
Intanto va detto che un piccolo scudo – non tanto piccolo – è stato già messo in campo da quel fedele destriero dei datori di lavoro che è l’Inail il quale, fin da subito, ha chiarito come gli eventi infortunistici riconosciuti come «covid correlati» non avrebbero comportato un aumento del premio assicurativo. Non sappiamo se questa clemenza sia dettata dal governo in carica o sia un’autonoma iniziativa dell’Inail. Si tratta ancora di uno «scudo» debole. Il nocciolo è costituito dalla responsabilità civile e dalla responsabilità penale. La vicenda di un lavoratore deceduto per corona virus può configurare un omicidio colposo; questo peraltro il senso del nostro esposto alla Procura di Modena per la morte della signora Anna Caracciolo, defunta a 36 anni. E se i morti sono più d’uno, nella stessa azienda, si deve parlare di omicidio colposo plurimo.
In verità l’argomento «scudo penale per i medici» è, almeno in questo momento, un diversivo. I medici hanno già uno scudo: la legge Gelli. La questione vera non è la responsabilità penale o civile del medico ma dell’organizzazione lavorativa a cui il medico o l’infermiere appartiene in quanto lavoratore dipendente e dunque CREDITORE DI SICUREZZA.
Fra quanti (pochi) hanno bene focalizzato il problema c’è l’Anaao, il sindacato di medici ospedalieri, con cui abbiamo anche condiviso una critica all’ISS sulla questione dei ddppii. Con un comunicato stampa Anaao distingue tra singolo lavoratore e organizzazione a cui appartiene.
Alcuni avvocati hanno addirittura paventato il rischio dell’avvento di “sciacalli” che sarebbero le persone, ancora in lutto, nella cui mente può essere balenata qualche idea di ottenere giustizia e, in subordine, risarcimenti. Sono risarcimenti che in verità i familiari chiedono – quando li chiedono – con senso di colpa e vergogna; persone che hanno diritto a essere rispettate nel loro dolore.
Per ora lo scudo è stato bocciato dal Parlamento (di questo appunto alcuni avvocati si sono lamentati) ma potrebbe essere utile ai datori di lavoro che infatti si vanno già organizzando. Per esempio minacciando o spiccando querele nei confronti di lavoratori che hanno denunciato non solo la mancata adozione di misure di prevenzione (obbligatorie già da prima e a prescindere dai decreti del governo) ma che hanno denunciato addirittura il divieto d’uso della mascherina – magari persino anche quella chirurgica – “per non allarmare”.
Alcuni “coraggiosi” parlano e denunciano nonostante i rischi che corrono; sono lavoratori che hanno il nostro incondizionato sostegno.
I datori di lavoro si stanno anche lamentando di poter essere in futuro sovraccaricati di oneri e richieste di danni per ipotetici casi di contagio o di malattia contratti da lavoratori ma non in occasione di lavoro. Si tratta di paure prive di fondamento in quanto la definizione della natura occupazionale di un evento è vagliata sempre dall’Inail in maniera talmente rigorosa da tracimare quotidianamente in frequentissimi eccessi “negazionisti” peraltro quasi sempre scaricati sull’INPS che manifesta su questa “discarica” un atteggiamento consenziente,
L’organizzazione del lavoro
Dalle crisi si può uscire arretrando o avanzando; impossibile mantenere lo status quo ante.
Molte contraddizioni si sono manifestate alla luce del sole:
Inquinamento ambientale
Fin dall’inizio della epidemia abbiamo visto aleggiare l’interrogativo sul nesso fra inquinamento ambientale e coronavirus. Il problema è duplice: se il virus sia più facilmente diffuso da condizioni di inquinamento ambientale; e se il virus abbia impatto sanitario più negativo su persone esposte a particolari forme o livelli di inquinamento. La questione può inoltre avere due aspetti: un tema generale ma rapportato a questo specifico virus; o possono esistere variabili fra un agente patogeno e un altro, pur tra loro simili.
Se non ci facciamo tentare da interpretazioni aprioristiche e valutiamo quello che è davvero successo dobbiamo al momento concludere che la questione rimane quantomeno sub iudice. E’ una incertezza dovuta anche al modo con cui le fonti istituzionali hanno ritenuto di divulgare o tenere sotto chiave i dati. Ognuno ha detto la sua opinione ma spesso “tirando a indovinare”.
La sindaca di Monghidoro ha attribuito il basso attecchimento del virus nel suo Comune alla spontanea e abituale condizione di distanziamento sociale (nel senso urbanistico del termine). Questo parametro di valutazione pare condivisibile. Ma la sindaca ha anche parlato di migliore qualità dell’aria; se la migliore qualità dell’aria di Monghidoro rispetto all’area metropolitana è un dato oggettivo non pare tuttavia che il numero di soggetti positivi di Monghidoro sia inferiore a quello, per esempio, di Bentivoglio o di San Pietro in Casale che sono due Comuni di pianura per i quali è impossibile ipotizzare una qualità dell’aria “migliore” di Monghidoro.
Ovviamente rimane un’ulteriore incognita di fondo: se e in che misura, a monte del numero di soggetti positivi riscontrati, vi sia stata una ricerca attiva dei casi (numero di tamponi effettuato). Avevamo concentrato la nostra attenzione su due Comuni: Anzola Emilia e Castenaso.
Anzola perché era parsa la emersione di un numero di positivi “alto” (è un Comune in posizione non tanto favorevole per la qualità dell’aria) e Castenaso perché l’inceneritore è collocato ai margini del suo territorio e risulta essere investito (stante la abituale direzione dei venti) dai 2 terzi delle emissioni dell’impianto. Una valutazione più puntuale si potrebbe fare se avessimo i dati Comune per Comune relativi all’incidenza di casi positivi per ragioni occupazionali. In sostanza gli “eccessi” in teoria correlabili a un maggior inquinamento ambientale potrebbero invece celare una particolare incidenza di casi occupazionali. Ma il DSP non mette a disposizione questi numeri e anzi ha smesso di pubblicare il dato generale della coorte generale territoriale degli occupazionali (già prima reso noto in maniera parziale).
Va fatta una sottolineatura. Attorno al 12 maggio la Ausl di Bologna ha cambiato l’impostazione grafica della organizzazione dei dati. E’ scomparsa l’abituale piantina a colori che effettivamente poteva essere fuorviante: dall’Appennino verso la città e poi verso la pianura il colore diventava sempre più scuro ma il riscontro induceva equivoci perché la graduazione del colore effettivamente cresceva verso lo scuro ma era coerente col numero dei casi positivi senza tener conto della densità della popolazione residente. A prima vista pareva trovasi di fronte a un gradiente che cresceva dall’Appennino verso la pianura; non era così perché il colore oltre e non tener conto della densità della popolazione residente non teneva conto neppure della anzianità della stessa (più avanzata nella parte collinare del territorio Ausl).
DIVERSA E’ LA QUESTIONE DEL NESSO TRA LESIVITA’ DEL VIRUS ED ESPOSIZIONE PREGRESSA O IN ATTO AD INQUINAMENTO
Se i dati per asserire un nesso fra inquinamento ed entità numerica dei soggetti contagiati al momento non sono probanti, più difficile è valutare il rapporto fra inquinamento ed entità dell’impatto sanitario del virus sul singolo soggetto. Molti sono intervenuti per sostenere un pari livello di rischio sanitario fra maschi e femmine, tra loro la ricercatrice – mediaticamente molto nota – Ilaria Capua.
La professoressa Capua pare avere lanciato un programma di indagine sui “numeri” che per essere efficace deve essere “open” e questa proposta appare utile; meno condivisibile è invece la precoce negazione di una differenza di genere.
A fronte delle limitazioni imposte alla “plebe” abbiamo assistito a grande elasticità nei confronti della libertà di impresa. Sin dall’inizio il governo ha fatto scelte inaccettabili sui codici ATECO dei comparti lavorativi “autorizzati”. Fin dall’inizio nessuno stop sia all’industria del tabacco che a quella delle armi.
Una attenzione affettuosa e particolare dobbiamo riservare a bambini per le deprivazioni relazionali che hanno subìto, in particolare alla forte limitazione della libertà e del gioco fra pari. Una preoccupazione che non compare nelle previsioni e nei piani a impostazione economicista ma dobbiamo in tutti i modi cercare di recuperare. Si tratta di una esperienza per tutti – ma soprattutto per i bambini – difficile da dimenticare e dobbiamo cercare che si concluda senza postumi.
Gestione dei rifiuti
In molti hanno richiamato l’attenzione sulla gestione dei rifiuti. Dovremo infatti fare i conti con montagne di ddppii dismessi, smaltiti in maniera emergenziale e discutibile, che hanno una notevole componente in plastica e carta. Un mix favorevole, in caso di combustione, alla produzione di diossina.
Le norme di prevenzione igienistica indicano nei dispositivi di protezione individuale l’ultimo ed estremo presidio. Se si è dovuto invece fare ricorso a un uso massiccio è stato anche per la carenza di misure di prevenzione collettiva (ad esempio separazione delle situazioni più a rischio, ambienti in depressione d’aria ecc). Non si vuol dire che di ddppii se ne è usati troppi, è un discorso diverso: si doveva fare un uso più mirato di mezzi effettivamente efficaci e qualche volta anche in numero maggiore. Pensiamo alle linee guida attualmente proposte dagli odontoiatri ; operatori in posizione difficile in quanto operano con pazienti che non possono indossare una mascherina per ovvie ragioni. Gli odontoiatri hanno inserito nelle loro linee guida il ricambio dei ddppii dopo ogni singolo paziente; diamo per scontato che questa procedura sia stata rispettata anche nelle case di riposo?
In conclusione: la montagna di rifiuti poteva essere ridotta alla fonte o quantomeno, se si fosse lavorato meglio, ci troveremmo a gestire come rifiuti ddppii che sono stati davvero utili invece di lasciar filtrare, in entrata e in uscita, l’agente infettivo.
Citato e sollevato il tema delle rigenerazione. Il problema è serio ma doveva essere programmato e affrontato nell’ambito dell’inesistente piano pandemico. Nella concitazione del momento il tema rigenerazione è stato affrontato con troppa approssimazione. Dovremmo comunque studiarlo meglio per la “prossima epidemia” se le previsioni per il futuro fatto da fonti autorevoli (Paolo Vineis e altri) sono fondate.
La condotta degli enti locali
Abbiamo già detto dell’atteggiamento di chiusura degli enti locali, contraddistinto da un vero e proprio “sequestro dei dati” da parte di Ausl e Inail. Nel non rispondere a richieste di accesso ai dati e alle informazioni, la ausl di Bologna ha addirittura invocato il blocco delle pratiche amministrative concesso dal governo, mostrando di fare grande confusione tra pratiche amministrative e compiti istituzionali. Anche la Regione – sollecitata sul problema della prevenzione per gli operatori che seguono le persone in difficoltà nell’uso delle mascherine – non ha risposto. Dal nostro canto abbiamo offerto ai sindaci dell’Unione Idice-Savena (più San Lazzaro) la nostra disponibilità al lavoro volontario per aiutare a decodificare nel territorio i numeri pubblicati in maniera poco decifrabile dalla Ausl; non abbiamo ricevuto riscontri, neppure nel senso “no grazie, facciamo da soli”. Nel 1800 nei comitati comunali, costituiti in tempi di epidemia, era presente il medico per un contributo alla lettura e comprensione dell’andamento del contagio; qui invece i sindaci hanno ritenuto sufficiente la circolazione dei dati pubblicati dalla Ausl. Via via che, anche dopo la crescita delle misure restrittive, cresceva il numero dei positivi sarebbe stato invece importante leggere la dinamica per comprenderne le motivazioni (occupazionali o dovute invece a palese incuranza delle restrizioni ?). Del tutto oscure per i cittadini le dinamiche relative alla crescita dei “positivi” : aumentavano davvero o era una maggiore ricerca? Per esempio con la tecnica sudcoreana del tampone fatto al paziente in macchina? Questa situazione di “buio” ha indotto senso di frustrazione e nitida percezione che le istituzioni chiedevano di obbedire senza discutere.
Sul versante Ausl / Inail la “trasparenza” è stata un disastro. L’Inail non ha mai risposto alla richiesta di informazioni sulla incidenza del fenomeno occupazionale infortunistico. Alla Ausl di Bologna abbiamo chiesto dati epidemiologici generali leggibili ma anche dati puntuali relativi per esempio al carcere di Bologna, alla Rems e alla coorte dei lavoratori della ASP (azienda servizi alla persona); questi ultimi dati li abbiamo chiesti all’Uopsal (servizio di medicina del lavoro) Ausl e all’Inail: silenzio totale.
Quanto al blocco delle pratiche amministrative: ci pare segno di grave confusione da parte della Ausl considerare le richieste di informazioni “pratiche amministrative” in quanto la diffusione delle informazioni costituisce un dovere istituzionale e giuridico previsto dell’articolo 20 della legge 833/1978 che attribuisce alla Usl il compito della valutazione dei rischi in fabbrica e nel territorio.
Ipotesi di lavoro
Non siamo partiti con esposti formali alle procure sulla morte di una lavoratrice e di persone detenute perché riteniamo questi eventi luttuosi più importanti di altri; siamo partiti dalle situazioni per le quali avevamo conoscenza degli elementi sufficienti per articolare un esposto. Contestualmente ai nostri ne sono partiti altri, quasi tutti avviati da familiari di persone ospedalizzate o soprattutto collocate in case di riposo .A questi ci affiancheremo, se possibile, anche come parte civile per dare un contributo alle indagini in corso e daremo un contributo.
Certamente la componente occupazionale della malattia e del decesso della persona anziana ricoverata è ben diverso dalla dinamica eziologica della malattia occupazionale vera e propria. Se il nesso eziologico non è sempre facile da dimostrare nel caso della malattia professionale, ancor più difficile è ricostruire il nesso dalle carenze di misure di prevenzione lavorativa alla infezione nosocomiale che colpisce la persona assistita. Una qualche analogia si può intravedere nella dinamica dei mesoteliomi paralavorativi (la donna che si ammala di mesotelioma per aver lavato la tuta del congiunto inquinata da amianto). In questi casi è vero che a volte non si è giunti a condanna in sede penale o addirittura neanche in sede civile ma ci sono state anche sentenze di condanna che hanno superato il vaglio particolarmente rigoroso del processo penale (Tribunale di Venezia, pm Felice Casson).
Nel caso delle persone decedute per infezione nosocomiale certamente non si potrà invocare, in maniera aprioristica, la presunzione legale della esposizione come nei casi occupazionali. In teoria, in particolari e singole circostanze, il virus può essere stato importato da fuori e non veicolato con la dinamica paralavorativa che abbiamo citato a proposito dell’amianto. Si tratterà di discutere con rigore, caso per caso , approfondendo i dati epidemiologici e clinici.
Ben difficile, per fare un esempio, ipotizzare che la vicenda del carcere di Bologna non veda, nel contagio subìto dalle persone detenute, una dinamica paralavorativa.
Nelle case di riposo – dove gli eventi hanno seguito dinamiche diverse da quelle del carcere – CERTAMENTE IL VIRUS E’ VENUTO DA “FUORI”: bisognerà valutare caso per caso se le condizioni in cui gli assistenti hanno dovuto operare possano far supporre l’entrata del virus solo attraverso i contatti con i familiari; fermo restando che anche questo non assolverebbe l’organizzazione del lavoro.
A supporto dell’inconsistenza della tesi dello tsunami (imprevedibile e ineluttabile) pare giocare il riscontro di case di riposo “covid-free” o di luoghi che pur non totalmente indenni da contagi hanno registrato una mortalità uguale a zero. Questi esempi sono importanti. Possiamo ritenere che si tratti di casi particolarmente fortunati tanto da non essere stati contaminati da soggetti esterni: una fortuna alla quale si deve però essere associata anche una particolare e rigorosa strategia di prevenzione occupazionale? O quei casi sono l’esempio concreto di come il disastroso impatto verificatosi avrebbe potuto essere evitato ?
Attività giudiziaria e inchiesta popolare
Come abbiamo detto il procuratore della repubblica di Bologna ha manifestato un orientamento sbagliato. Ovviamente siamo ancora all’inizio e sarà importante dialogare con i pubblici ministeri e con i loro consulenti. Per questo occorre attivare collaborazioni e sinergie fra tutte le “parti lese” occupazionali e non occupazionali per giungere sia all’accertamento delle eventuali responsabilità penali sia a risarcimenti dignitosi e non offensivi come succede ancora oggi per l’amianto.
Il compito che ci assumiamo è avviare una grande indagine e anamnestica popolare raccogliendo informazioni dalle persone maggiormente coinvolte e maggiormente informate sulle dinamiche reali degli avvenimenti.
Riservando in questa indagine uno spazio particolare ai tragici fatti avvenuti nel mese di marzo nella carceri italiane (Modena, Bologna e Frosinone) che sono ascrivibili alla mancata prevenzione delle forme di deprivazione sociale assolutamente evitabili che sono state imposte e alla mancata prevenzione di tipo fisico, materiale e igienistico nei penitenziari.
Sono state fatte denunce eclatanti non solo da familiari ma anche e soprattutto da lavoratori sulla omissione di misure di sicurezza.
Per citarne alcune, credibili ma da verificare in ambito giudiziario:
Il vortice degli eventi, i cambiamenti di fronte, i cambi repentini di prospettiva, le discussioni rocambolesche anche tra “scienziati” su modalità di contagio, prevenzione e terapie… tutto ci ha effettivamente un po’ storditi.
Però abbiamo riflettuto, indagato, consultato. Abbiamo avuto l’impressione che, fra i nostri interlocutori ma anche in generale, maggiore fosse la conoscenza tecnica e professionale e più grande fosse la prudenza.
Con modestia abbiamo ragionato, a partire dalla idea che uno dei perni principali della vicenda epidemica sia costituito dalla critica alla organizzazione del lavoro e dalla necessità di comprendere, in quanto istruttivi e paradigmatici, sia la organizzazione del lavoro che il modello di funzionamento delle istituzioni totali. Non ci siamo limitati e nemmeno particolarmente focalizzati sulla ricerca di colpevoli, però la storia ci dimostra che il “sistema” accetta di mettersi in discussione solo quando è chiamato a pagare. In alternativa il sistema preferisce privatizzare i profitti (quante aziende improvvisate si sono buttate sull’affare della assistenza agli anziani) e socializzare le perdite. Una dinamica che ha fra i suoi pilastri la attività quotidiana dell’Inail che scarica sull’Inps e nega i giusti riconoscimenti ai lavoratori.
Anche in coerenza con questo approccio sistemico abbiamo:
Ringrazio quanti mi hanno dato informazioni, spunti e sostegno logistico: Daniele Barbieri, Davide Fabbri, Corrado Seletti, Maurizio Portaluri, Giuliana Porceli, diversi colleghi e amici medici, lavoratrici e lavoratori Usb del comparto sociosanitario (Domenica Lepera, Letizia Arcuri, Gennaro Mattera), l’avvocato Guglielmo Giuliano e altri ancora.
NOTE
Documenti e atti precedenti disponibili nell’archivio della «Rete per l’ecologia sociale»
APPELLO ALL’INCHIESTA POPOLARE “DAL BASSO”
Riflessioni dall’osservatorio del territorio della Ausl di Bologna (non la situazione peggiore) con osservazioni forse utili per tutto il territorio italiano.
PREMESSA
Senza dubbio siamo stati travolti dagli eventi. Via via che passavano le settimane si è fatto fatica a comprendere quali dovessero o potessero essere i punti su cui concentrare la nostra attenzione e i nostri interventi. Dopo la redazione di numerosi documenti (citati in calce e tutti reperibili anche attraverso “la bottega del barbieri”) con il tentativo infruttuoso di ottenere maggiori informazioni e dati epidemiologici dagli enti istituzionali, abbiamo comunque cercato di essere presenti soprattutto su uno dei fronti più problematici di questa guerra non dichiarata: la sicurezza nei luoghi di lavoro. Detto per inciso abbiamo appreso che presso la Ausl ha lavorato un gruppo di persone (fino a 40) specificatamente sulle indagini epidemiologiche ma i loro risultati non sono stati socializzati se non molto parzialmente. Probabilmente il Dipartimento di sanità pubblica non ha ritenuto di dover girare i nostri quesiti a questo gruppo, preferendo “non rispondere”. La logica è che i dati devono rimanere nelle mani delle istituzioni perché evidentemente i cittadini meritano di rimanere all’oscuro o, peggio, le loro richieste di accesso sono “pericolose”.
Ci sarà da lavorare. A esempio nel confrontare i riscontri del gruppo Ausl di via Gramsci
(Bologna) con quelli dell’Inail per valutare se – o meglio: in che misura – le osservazioni sui dati occupazionali coincidano; la totale coincidenza è impossibile per la differente platea di riferimento.
Il bilancio dell’epidemia in termini di vite umane e di costi sociali-economici pur non potendosi considerare chiuso è già catastrofico. Va analizzato in dettaglio anche per avviare le necessarie azioni di risarcimento che rimangono comunque un problema “minore” rispetto alla questione centrale: comprendere dove si è sbagliato e cosa occorre fare per prevenire nuovi eventi analoghi.
Macro-prevenzione planetaria e nazionale: tardiva e lacunosa, quasi zero.
Le omissioni cominciano dall’alto. Alcuni media più accorti hanno denunciato l’inesistenza di un “piano pandemia” – nonostante che questo sia “obbligatorio”- mettendo sotto accusa anche l’OMS e altre agenzie sia internazionali e nazionali. Ed è stato documentato (da Rai Report, a esempio) come in differenti circostanze l’Oms abbia messo in atto una solerzia degna di miglior causa: rivelatasi molto utile per i profitti delle multinazionali farmaceutiche ma inutile per la salute pubblica e per le casse degli Stati nazionali. Nel caso del coronavirus invece l’approccio “rallentato” ha coinvolto negativamente sia i tempi della comunicazione che persino l’approntamento dell’ultima “difesa all’arma bianca” cioè utile nel “corpo a corpo” col virus; perché tali dobbiamo considerare i ddppii (dispositivi di protenzione individuali) per le vie respiratorie.
Parafrasando lo slogan del movimento pacifista «svuotare gli arsenali, riempire i granai» se solo avessimo avuto i magazzini pieni di ddppii adeguati avremmo creato quel solido “cordone sanitario” – noto alla società dai tempi della peste – che avrebbe fatto assumere agli eventi un andamento completamente diverso.
Viene in mente un vecchio episodio: l’Italia dei Palazzi mentre si preparava alla guerra contro Saddam Hussein (che in verità è stata fin dall’inizio contro il popolo irakeno) – ricordate la “provetta” agitata all’ONU da Colin Powell per “dimostrare” l’esistenza di un vasto arsenale di armi biologiche – comprò e stoccò enormi quantità di vaccino antivaiolo. Notizia esagerata? Noi che siamo alla periferia dell’impero non lo sappiamo con esattezza; ma quell’evento fa pensare a una lungimiranza che certo nella vicenda corona virus le istituzioni sanitarie pubbliche non hanno voluto adottare.
Realisticamente le informazioni sufficienti per adottare misure urgenti di prevenzione erano disponibili già dal dicembre 2019, tutt’al più dal gennaio 2020, anche se cadevano nel “buco” della colpevolissima inesistenza del piano nazionale pandemico.
I dati sierologici oggi disponibili parlano di una percentuale di soggetti portatori di anticorpi, a Milano, di circa 4% della popolazione già a febbraio. Risulta peraltro una comunicazione alle Regioni italiane, il 5 gennaio 2020, che allertava circa una «pericolosa polmonite». La notizia è rimbalzata su diversi media e rappresenta la data dalla quale ragionevolmente dovevano e potevano materialmente partire le macromisure di prevenzione, avviate invece con disatroso ritardo.
OSSERVAZIONI GENERALI
I dati nazionali sono noti. Nel solo territorio della Ausl di Bologna alla data del 21 maggio si sono contati 597 decessi: di cui 284 donne e 303 uomini. I soggetti positivi riconosciuti alla data del 17 maggio (poi il dato non è più dato ufficialmente) sono stati 2492 donne e 2005 uomini. Alcuni ricerche hanno asserito che il rischio non ha evidenziato differenze tra maschi e femmine. Ma i dati per ora dicano altro. Npn sappiamo ovviamente se la conta ufficiale dei decessi sia esaustiva o fortemente approssimata per difetto, né quando il coronavirus sia stato causa unica o concausa determinante oppure marginale. Nonostante questa ultima annotazione, rimane fondata l’ipotesi di un dato di mortalità fortemente sottostimato.
Fin dall’inizio della epidemia abbiamo focalizzato l’attenzione sui luoghi di lavoro.
Col tempo – molto tardi – sono comparsi i dati sulla percentuale dei positivi “occupazionali”. La Ausl di Bologna ha prima pubblicato numeri riguardanti il comparto sanitario per poi sdoppiare questa coorte in sanitario e socio-assistenziale. E siamo passati da un primo dato ufficiale del 25% dei positivi provenienti dal comparto sanitario a una successiva differenziazione (e crescita) calcolata sui due comparti contigui che diventavano complessivamente il 27%. Da una certa data – attorno al 12 maggio – il dato occupazionale nella rendicontazione giornaliera della Ausl di Bologna è scomparso. Fin dall’inizio abbiamo chiesto a Inail e Ausl, senza ricevere alcuna risposta, dati più precisi: non era ipotizzabile che i casi occupazionali emergessero solo dal comparto sanitario e socio assistenziale. Questa nostra semplice previsione è stata poi confermata dall’Inail a livello regionale e nazionale.
Da questa ultima fonte Inail (nota 1) risultava che il 73% dei positivi occupazionali riguardasse i due comparti citati. Possiamo dunque ipotizzare che la quota complessiva dei casi occupazionali a Bologna e in generale possa essere del 32-33%. Ma questo presumibilmente solo per i dati registrabili dall’Inail che non comprendono medici di base, farmacisti, badanti “in nero” e altri settori lavorativi non coperti dall’assicurazione dell’Istituto. Per dare una idea dell’abituale approssimazione per difetto dobbiamo ricordare che una decina di anni fa uno studio della Regione Toscana evidenziò che i morti sul lavoro censiti dall’Inail erano poco più del 50% dl totale.
Dunque i dati non rilasciatici ma poi pubblicati in maniera generica dall’Inail confermano la nostra ipotesi iniziale che la “frana” si sia verificata nel comparto lavorativo. Non possiamo dare per scontato che la direzione del contagio sia stata sempre da operatore verso assistito o da operatore verso familiare ma se ogni lavoratore ha poi contagiato due persone allora, a partire da quel 33% di cui abbiamo parlato, arriviamo a spiegare quasi l’intera mappa epidemica verificatasi in Italia. Non si può escludere che qualche contagio si sia verificato nella direzione che va dal visitatore (di solito un parente) all’assistito per poi colpire gli operatori. La catena andrà ricostruita caso per caso ma viste le misure restrittive adottate (dalle case di riposo alle carceri, agli ospedali) la parte essenziale del problema è stata certamente interna al luogo di lavoro. Rispetto ai contagi – eventuali – dall’esterno: anche questi dovevano essere gestiti meglio. Un rischio neanche considerato all’inizio che è stato poi affrontato con scelte troppo drastiche, ed evitabili che hanno comportato gravissime forme di deprivazione sociale ed affettiva. A ogni buon conto, dopo decenni di discussioni , grazie ai contributi chiarificatori di alcuni magistrati (in primis Raffaele Guariniello) si è dovuto prendere atto che una organizzazione sana e orientata alla prevenzione deve tenere conto anche dei rischi per così dire “esterni” cioè non legati direttamente al ciclo produttivo della singola azienda in esame ma incombenti dall’esterno. Gli ospedali e le case di riposo sono luoghi cui riservare la massima protezione. Nel Settecento nei dintorni dell’ospedale veniva cosparsa paglia per evitare che il rumore delle carrozze disturbasse i malati: l’uomo deve saper attingere alla saggezza che in passato ha saputo mettere in campo… Facciamo riferimento ad esempio al “rischio rapina” che certe organizzazioni hanno faticato a includere nella propria valutazione dei rischi; non certo con l’illusione di annullare il rischio alla fonte ma di tenerlo, per quanto possibile, sotto controllo, mitigandone l‘impatto sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori. Le relazioni tra persone anziane e familiari come quelle fra persone detenute e loro congiunti potevano esser gestite senza forme penose ed estreme di segregazione, adottando altre misure di sicurezza. Evitando così sia le rivolte carcerarie che le drammatiche vicende di persone anziane morte in solitudine.
Occorreva avere le idee molto chiare sui mezzi da usare per evitare i contagi mentre si sono riscontrate prassi improvvisate, lacunose e persino controproducenti (nel senso di indurre illusioni di sicurezze in verità inesistenti): invece quando si tratta di reprimere sadicamente lo Stato ha saputo inventare i vetri divisori fra il padre detenuto e il bambino di 4 anni…
Altri virus hanno avuto una parabola diversa dal Covid. Pensiamo a Ebola: è come se a un certo punto sia entrato in un vicolo cieco nel quale si è estinto.
Se nei luoghi di cura e di assistenza il virus avesse trovato una barriera insormontabile, o comunque sostanziale, i lavoratori non si sarebbero contagiati e ammalati nella misura in cui è avvenuto e non avrebbero contagiato altri pazienti, assistiti o familiari o amici che siano. L’andamento del contagio non sarebbe stato azzerato ma sarebbe stato molto più lento con l’effetto anche di non sovraccaricare simultaneamente fino allo spasimo le strutture ospedaliere specialistiche.
La “diga” non ha funzionato, per certi versi non è esistita.
Rispetto alle narrazioni che tendono a interpretare l’epidemia come imprevedibile, occorre ribadire che se l’imperativo categorico della protezione dei lavoratori – che è fondato peraltro su obblighi morali e giuridici che prescindono dagli allarmi dell’ultimo minuto – fosse stato messo in pratica oggi l’epidemia sarebbe stata praticamente cancellata o comunque circoscritta a un ristretto numero di casi molto più facilmente gestibili dal punto di vista anche della presa in carico sanitaria e terapeutica.
Sin dall’inizio abbiamo assistito a pratiche e messaggi fortemente contraddittori. Da un lato i richiami chiari e inequivocabili (Guariniello) all’aggiornamento della valutazione del rischio e alla conseguente rigorosa adozione di misure procedurali, organizzative e individuali di prevenzione (decreto 81/2008, «RISCHIO BIOLOGICO»). Dall’altro prassi del tutto inadeguate come la distribuzione dei dispositivi di protezione individuale solo a chi ne facesse espressa richiesta o anche uso di ddppii assolutamente inefficaci e persino il divieto a usare ddppi per le vie respiratorie “per non allarmare” gli assistiti o come pare essere successo nelle carceri, per non allarmare le persone detenute.
A proposito dell’ efficacia dei dddppii utilizzati:
- Abbiamo già affrontato questo tema in precedenti documenti sottolineando le criticità dei mezzi di protezione individuale e il mancato approfondimento del rapporto fra capacità del filtro delle maschere protettive e dimensioni effettive del virus;
- L’Istituto superiore di sanità ha redatto in data 28 marzo un documento sui ddppii che abbiamo aspramente criticato per i contenuti e per le modalità di redazione; dure critiche anche da parte di diversi rappresentanti di sindacati medici (dagli anestesisti all’Anaao);
- L’Inail ha recentemente dato due imputs inquietanti sull’argomento: solo una piccolissima percentuale dei ddppii proposti alla attenzione dell’Inail per la loro validazione sono risultati idonei. Secondo una notizia diffusa il 7 maggio alla data del 4 maggio erano risultati idonei 96 su 2458 ; gli altri non risultavano conformi ai requisiti di qualità e sicurezza per la protezione dei lavoratori e degli operatori sanitari). Da una significativa intervista per Rai Report concessa da un rappresentate dell’Inail emerge che gli unici controlli di conformità eseguiti sui ddppii erano sulla carta. Nell’intervista «l’alto funzionario» ha esibito una mascherina di dotazione personale sulla cui efficacia ha avanzato concreti dubbi…
- Due ricercatori dell’università di Bologna (notizia data dal quotidiano «Il Resto del Carlino» il 10.5.2020) hanno asserito, anticipando i risultati di una indagine policentrica, che fra chi si è ben protetto – dobbiamo dedurre con quello che era considerato il top della prevenzione individuale (FFP2 o FFP3 senza valvola) – le positività sono molto basse (ma non nulle!). Ovviamente con anamnesi più approfondite si dovrà valutare se, nei casi in esame, la protezione con FFP3 è stata davvero continuativa o ha lasciato spazio invece a interruzioni temporali. Rimane aperto il tema, a suo tempo da noi già affrontato, del rapporto fra capacità di trattenimento del filtro e dimensioni del virus. Un tema sul quale abbiamo constatato un sostanziale pressappochismo; certo è preferibile una protezione parziale che nulla ma se il bilancio degli effetti di questa discrepanza possono essere “buoni” quando ragioniamo su grandi gruppi invece risultano pericolosi per singoli lavoratori o persone particolarmente vulnerabili;
- A confermare le incertezze, fino a una condizione caotica dei messaggi sula protezione individuale. per la fase 2 è prescritto che gli estetisti debbano indossare visiera e FFP2 senza valvola quando il contestato documento dell’ISS del 28 marzo indica l’uso di FFP2 ed FFP3 solo in ossequio al principio di precauzione e solo per le operazioni sanitarie suscettibili di produrre areosol, essendo negli altri casi sufficiente la mascherina chirurgica;
- Ancora: i dentisti in una bozza di linea-guida che dichiarano di aver inviato al ministero della Salute e dunque in attesa di validazione, sostengono – correttamente – la necessità di cambiare il ddppii per ogni paziente assistito; ma è escluso che nella gran parte delle case di riposo ci sia attenuti a questa condotta precauzionale.
Un’altra epidemia è (era) possibile
Molte fonti politiche e istituzionali hanno dunque proposto una chiave lettura degli eventi come naturali e sostanzialmente ineluttabili.
Il commissario straordinario della Regione Emilia-Romagna, nel suo saluto di commiato, ha parlato di tsunami. Già prima aveva messo “le mani avanti” facendo inopportuni commenti sul decesso della lavoratrice Anna Caracciolo (sulla vicenda abbiamo inviato un esposto alla Procura della Repubblica di Modena); inopportuni nel senso che il commissario straordinario ha rivelato dati sanitari relativi alla lavoratrice (forse autorizzato dai familiari?) il che è parso una giustificazione sulla defaillance del sistema dal punto di vista dell’omissione o quantomeno lacunosità nell’utilizzo delle misure di prevenzione. Abbiamo sempre diffidato del concetto di «calamità naturali»; uno storico libro di Federico Chabod argomentò come in verità siano prevedibili; il campo di osservazione di Chabod erano la natura e l’ambiente in senso lato ma il pensiero critico si può estendere a tutto lo scibile umano.
Il citato commissario straordinario – nominato per imperscrutabili motivi – aveva ampie ragioni per mettere le mani avanti. Il terreno di coltura (nel senso quasi letterale che si dà a questo termine in biologia) dell’epidemia sono state le strutture sanitarie di cui egli ha avuto la responsabilità politico-amministrativa negli ultimi 5 anni e le case di riposo per anziani che, pur non essendo sotto la diretta gestione della Regione Emilia-Romagna, dovevano e potevano ben essere controllate meglio dal punto di vista della gestione delle misure di prevenzione. Quel che non è direttamente gestito dalla Ausl e dalla Regione viene dalla Regione comunque accreditato e pur di difendere l’idea dell’Emilia-Romagna come “il migliore dei mondi possibili” quale argomento più convincente della «calamità naturale»? Sia detto non per tacere di altre situazioni certamente più critiche come quella dalla Lombardia.
Ovvio che certe dichiarazioni hanno il senso del tentativo di autoassoluzione. E nonostante tutto il commissario – al momento delle dimissioni – è stato salutato dai media con grandi encomi. Congedandosi con dimissioni anticipate rispetto all’incarico ricevuto, si è affidato a metafore riguardanti se stesso (si è paragonato a un colibrì) e i suoi collaboratori (hanno insieme guadato i fiumi e lui augura chi rimane di incontrare sul suo percorso solo torrenti estivi): tutto molto poetico ma il commissario nulla ha detto sulle macroscopiche falle del sistema di prevenzione.
Circa l’ineluttabilità del contagio mortifero.
E’ in sintonia con la narrazione dello tsunami ineluttabile una ricostruzione del decesso in ospedale a Bologna di un giovane uomo trapiantato di rene. La versione giornalistica induce un forte sentimento di stupore: «il virus uccide anche nel reparto inviolabile» narra Il Resto del Carlino del 24 aprile 2020. Il reparto «inviolabile» è quello di nefrologia, in cui certo occorre una dose supplementare di attenzione considerato che i trapiantati sono più vulnerabili. Però mentre raccogliamo informazioni su severissimi ed “eccessivi” protocolli per l’ammissione in certi reparti (si riferiscono a struttura ospedaliera psichiatrica della Regione in cui il ricovero sarebbe preceduto dal tampone faringeo e dalla Tac polmonare) prendiamo atto di come viceversa nel reparto di nefrologia la persona deceduta era entrata in condizioni di covid-negatività ma sarebbe stata assistita e accudita da personale positivo che, tuttavia non è ancora stato identificato. Dobbiamo chiederci a questo punto: se un lavoratore positivo ha contagiato il paziente, quali mezzi di prevenzione ha avuto a disposizione e ha usato? Con quale evidenza di efficacia?
Anche il riferimento al «reparto inviolabile» appare auto-assolutorio e sfocia nel mare magnum della ineluttabilità. Ma dobbiamo ricordare che un reparto contiguo (sempre di nefrologia) fu teatro di un clamoroso “errore di lato” solo qualche anno fa: a una donna fu asportato un rene sano e morì poi per inadeguatezza anche del trattamento medico successivo! Errore di lato significa asportare invece che l’organo malato quello laterale, sano. Non si è trattato, negli ultimi trenta anni, di eventi eccezionalmente rari .
Dunque a fronte del decesso di una persona pare fuori luogo lo stupore attribuito alla (presunta) inviolabilità. Occorre invece analizzare la dinamica reale degli eventi e mettere in discussione presunte certezze che sono sempre molto pericolose.
La Procura della Repubblica di Bologna
Alla “ratio” dei tentativi di autoassoluzione del commissario regionale dell’E-R (già il termine è significativo: a cavallo fra il commissario del popolo e quello di polizia : è un guaio quando la sanità pubblica ha bisogno di commissari) vengono in soccorso le concilianti dichiarazioni del Procuratore della Repubblica di Bologna che ha fatto alcune affermazioni discutibili e sorprendenti (intervista a Il Resto del Carlino, 10.5.2020). Anzitutto rassicura che non ci sarà “terrorismo giudiziario”: questo, a caratteri cubitali era il titolo dell’intervista. Una terminologia berlusconiana dunque stupefacente se pronunciata da un procuratore in quanto tutti i cittadini si attendono una “giustizia giusta” senza assoluzioni preventive fondate su convinzioni (quelle del procuratore appunto) più politiche che tecniche. Sostiene il procuratore che «qui non c’è stato un caso Pio Albergo Trivulzio»; come è noto sulle vicende dell’istituto suddetto incombe una indagine per epidemia colposa. Sostiene il procuratore (che può avere informazioni su Milano solo, presumiamo, di tipo giornalistico) che a Bologna le cose sono andate «diversamente», che sono stati aperti 20 fascicoli ma – lascia intendere – saranno chiusi tutti con un classico «non luogo a procedere». Forse grazie all’argomento che funziona da panacea universale: appunto l’imprevedibilità degli eventi (inverosimile tuttavia che gli eventi siano imprevedibili a Bologna e non a Milano). I quali eventi, come già detto, sono stati tutt’altro che imprevedibili e comunque avrebbero, più o meno tardivamente, potuto essere meglio fronteggiati se le misure di prevenzione si fossero ispirate a quello che era giusto e, per fare un esempio, alle chiare indicazioni fornite da Raffaele Guariniello: cioè aggiornamento del documento di valutazione del rischio, adozione tempestiva delle misure procedurali, organizzative e individuali previste come obbligatorie dal decreto 81/2008 al capitolo rischio biologico. Purtroppo diversi consulenti dei datori di lavoro si sono attardati – col virus non alle porte ma già in casa – a discutere se e in che misura si dovessero applicare le norme del decreto 81/2008 e (addirittura) se il documento di valutazione dei rischi dovesse o no essere aggiornato !
Al momento non sappiamo se qualcuno di quei 20 fascicoli riguardi il carcere di Bologna o “casi” occupazionali cioè relativi a lavoratori ammalatisi o se invece tutti riguardino solo pazienti e utenti dei servizi sanitari. Sarà comunque nostra cura seguire queste indagini, avanzare istanza di costituzione di parte civile, a maggiore ragione a sostegno di parti lese rappresentate dai familiari colpiti da lutti e/o eventuali maltrattamenti.
Gli avvocati dei possibili imputati
La vicenda dell’Ilva di Taranto ha fatto scuola; si sa che la gramigna, una volta attecchito, è dura da sradicare. Dopo la penosa vicenda dello «scudo penale» Ilva (di per sé ignobile che equivale a dire: per un certo numero di anni depenalizziamo l’omicidio o la rapina) l’idea dello «scudo» ha eccitato alcuni azzeccagarbugli.
Intanto va detto che un piccolo scudo – non tanto piccolo – è stato già messo in campo da quel fedele destriero dei datori di lavoro che è l’Inail il quale, fin da subito, ha chiarito come gli eventi infortunistici riconosciuti come «covid correlati» non avrebbero comportato un aumento del premio assicurativo. Non sappiamo se questa clemenza sia dettata dal governo in carica o sia un’autonoma iniziativa dell’Inail. Si tratta ancora di uno «scudo» debole. Il nocciolo è costituito dalla responsabilità civile e dalla responsabilità penale. La vicenda di un lavoratore deceduto per corona virus può configurare un omicidio colposo; questo peraltro il senso del nostro esposto alla Procura di Modena per la morte della signora Anna Caracciolo, defunta a 36 anni. E se i morti sono più d’uno, nella stessa azienda, si deve parlare di omicidio colposo plurimo.
In verità l’argomento «scudo penale per i medici» è, almeno in questo momento, un diversivo. I medici hanno già uno scudo: la legge Gelli. La questione vera non è la responsabilità penale o civile del medico ma dell’organizzazione lavorativa a cui il medico o l’infermiere appartiene in quanto lavoratore dipendente e dunque CREDITORE DI SICUREZZA.
Fra quanti (pochi) hanno bene focalizzato il problema c’è l’Anaao, il sindacato di medici ospedalieri, con cui abbiamo anche condiviso una critica all’ISS sulla questione dei ddppii. Con un comunicato stampa Anaao distingue tra singolo lavoratore e organizzazione a cui appartiene.
Alcuni avvocati hanno addirittura paventato il rischio dell’avvento di “sciacalli” che sarebbero le persone, ancora in lutto, nella cui mente può essere balenata qualche idea di ottenere giustizia e, in subordine, risarcimenti. Sono risarcimenti che in verità i familiari chiedono – quando li chiedono – con senso di colpa e vergogna; persone che hanno diritto a essere rispettate nel loro dolore.
Per ora lo scudo è stato bocciato dal Parlamento (di questo appunto alcuni avvocati si sono lamentati) ma potrebbe essere utile ai datori di lavoro che infatti si vanno già organizzando. Per esempio minacciando o spiccando querele nei confronti di lavoratori che hanno denunciato non solo la mancata adozione di misure di prevenzione (obbligatorie già da prima e a prescindere dai decreti del governo) ma che hanno denunciato addirittura il divieto d’uso della mascherina – magari persino anche quella chirurgica – “per non allarmare”.
Alcuni “coraggiosi” parlano e denunciano nonostante i rischi che corrono; sono lavoratori che hanno il nostro incondizionato sostegno.
I datori di lavoro si stanno anche lamentando di poter essere in futuro sovraccaricati di oneri e richieste di danni per ipotetici casi di contagio o di malattia contratti da lavoratori ma non in occasione di lavoro. Si tratta di paure prive di fondamento in quanto la definizione della natura occupazionale di un evento è vagliata sempre dall’Inail in maniera talmente rigorosa da tracimare quotidianamente in frequentissimi eccessi “negazionisti” peraltro quasi sempre scaricati sull’INPS che manifesta su questa “discarica” un atteggiamento consenziente,
L’organizzazione del lavoro
Dalle crisi si può uscire arretrando o avanzando; impossibile mantenere lo status quo ante.
Molte contraddizioni si sono manifestate alla luce del sole:
- le organizzazioni, dopo venti anni di difesa accanita e ottusa del presentismo sul luogo di lavoro, hanno scoperto lo smart-working; ci voleva un’epidemia? Il presentismo era coerente con quella prassi gerarchico-paranoidea che metteva al centro il “controllo” ben prima del benessere lavorativo e persino, a volte, delle stesse esigenze produttivistiche; è chiaro che l’organizzazione gerarchico-paranoidea è stata usata lucidamente per espellere lavoratori, creando per loro condizioni ambientali difficili in condizioni di grave distress fino a compromettere la loro salute mentale e spingerli anche al suicidio (un esempio per tutti Telecom France); la vocazione oggi per lo smart working è tardiva e ipocrita; certamente si cercherà di utilizzarla come forma di controllo 24 ore su 24;
- la necessità di determinare condizioni di minore distress lavorativo per consentire ai lavoratori di difendersi meglio dai rischi di contagio non è stata minimamente presa in considerazione; tramite la denuncia incisiva e puntale di Davide Fabbri a Cesena abbiamo visto che all’azienda Amadori è stato consentito persino il lavoro notturno in corso di epidemia; anche a Mestre abbiamo assistito al classico “incidente” scaturito da un ampio ricorso allo straordinario che ovviamente – costituendo elemento di fatica, sovraccarico e distress – è spesso terreno favorevole al manifestarsi del cosiddetto «errore umano» il quale, a dispetto del termine, non è mai errore individuale ma riflesso di incongruenze e forzature organizzative;
- per non parlare ovviamente degli operatori sanitari, socio-sanitari e a contatto col pubblico che hanno dovuto operare in condizioni di sovraccarico senza poter contare su aumento delle pause, riduzione dell’orario di lavoro, tempo per l’igiene personale ecc., tutti elementi che dovrebbero essere inclusi nella rivalutazione del rischio connessa al «rischio biologico» ed alle sue conseguenze; invece che poter contare su maggiori pause e su riduzione di orario a questi lavoratori è stato riservato esattamente il contrario: straordinari e turni più lunghi; una recente manifestazione di infermieri a Torino dimostra però che i lavoratori non sono disposti a farsi intimidire.
Inquinamento ambientale
Fin dall’inizio della epidemia abbiamo visto aleggiare l’interrogativo sul nesso fra inquinamento ambientale e coronavirus. Il problema è duplice: se il virus sia più facilmente diffuso da condizioni di inquinamento ambientale; e se il virus abbia impatto sanitario più negativo su persone esposte a particolari forme o livelli di inquinamento. La questione può inoltre avere due aspetti: un tema generale ma rapportato a questo specifico virus; o possono esistere variabili fra un agente patogeno e un altro, pur tra loro simili.
Se non ci facciamo tentare da interpretazioni aprioristiche e valutiamo quello che è davvero successo dobbiamo al momento concludere che la questione rimane quantomeno sub iudice. E’ una incertezza dovuta anche al modo con cui le fonti istituzionali hanno ritenuto di divulgare o tenere sotto chiave i dati. Ognuno ha detto la sua opinione ma spesso “tirando a indovinare”.
La sindaca di Monghidoro ha attribuito il basso attecchimento del virus nel suo Comune alla spontanea e abituale condizione di distanziamento sociale (nel senso urbanistico del termine). Questo parametro di valutazione pare condivisibile. Ma la sindaca ha anche parlato di migliore qualità dell’aria; se la migliore qualità dell’aria di Monghidoro rispetto all’area metropolitana è un dato oggettivo non pare tuttavia che il numero di soggetti positivi di Monghidoro sia inferiore a quello, per esempio, di Bentivoglio o di San Pietro in Casale che sono due Comuni di pianura per i quali è impossibile ipotizzare una qualità dell’aria “migliore” di Monghidoro.
Ovviamente rimane un’ulteriore incognita di fondo: se e in che misura, a monte del numero di soggetti positivi riscontrati, vi sia stata una ricerca attiva dei casi (numero di tamponi effettuato). Avevamo concentrato la nostra attenzione su due Comuni: Anzola Emilia e Castenaso.
Anzola perché era parsa la emersione di un numero di positivi “alto” (è un Comune in posizione non tanto favorevole per la qualità dell’aria) e Castenaso perché l’inceneritore è collocato ai margini del suo territorio e risulta essere investito (stante la abituale direzione dei venti) dai 2 terzi delle emissioni dell’impianto. Una valutazione più puntuale si potrebbe fare se avessimo i dati Comune per Comune relativi all’incidenza di casi positivi per ragioni occupazionali. In sostanza gli “eccessi” in teoria correlabili a un maggior inquinamento ambientale potrebbero invece celare una particolare incidenza di casi occupazionali. Ma il DSP non mette a disposizione questi numeri e anzi ha smesso di pubblicare il dato generale della coorte generale territoriale degli occupazionali (già prima reso noto in maniera parziale).
Va fatta una sottolineatura. Attorno al 12 maggio la Ausl di Bologna ha cambiato l’impostazione grafica della organizzazione dei dati. E’ scomparsa l’abituale piantina a colori che effettivamente poteva essere fuorviante: dall’Appennino verso la città e poi verso la pianura il colore diventava sempre più scuro ma il riscontro induceva equivoci perché la graduazione del colore effettivamente cresceva verso lo scuro ma era coerente col numero dei casi positivi senza tener conto della densità della popolazione residente. A prima vista pareva trovasi di fronte a un gradiente che cresceva dall’Appennino verso la pianura; non era così perché il colore oltre e non tener conto della densità della popolazione residente non teneva conto neppure della anzianità della stessa (più avanzata nella parte collinare del territorio Ausl).
DIVERSA E’ LA QUESTIONE DEL NESSO TRA LESIVITA’ DEL VIRUS ED ESPOSIZIONE PREGRESSA O IN ATTO AD INQUINAMENTO
Se i dati per asserire un nesso fra inquinamento ed entità numerica dei soggetti contagiati al momento non sono probanti, più difficile è valutare il rapporto fra inquinamento ed entità dell’impatto sanitario del virus sul singolo soggetto. Molti sono intervenuti per sostenere un pari livello di rischio sanitario fra maschi e femmine, tra loro la ricercatrice – mediaticamente molto nota – Ilaria Capua.
La professoressa Capua pare avere lanciato un programma di indagine sui “numeri” che per essere efficace deve essere “open” e questa proposta appare utile; meno condivisibile è invece la precoce negazione di una differenza di genere.
Per ora i dati di Bologna al 21
maggio risultavano (di poco) a sfavore dei maschi ma dobbiamo
considerare che: a) la platea di partenza dei positivi (ultimo dato
disponibile, risalente a qualche giorno prima) era di 2492 femmine
contro 2005 maschi; b) l’età media della popolazione risulta più bassa
per i maschi rispetto alle donne. Occorre inoltre fare una precisazione:
c’è una differenza di genere biologica ma anche una che riflette il
diverso profilo di rischio ambientale e occupazionale; basta vedere la
differente incidenza dei mesoteliomi fra maschi e femmine impossibile da
spiegare con differenze di tipo biologico. Al momento dunque la
ipotesi di una maggiore vulnerabilità – a contagio già avvenuto – per i
maschi pare interpretabile come esito di diverse e maggiori esposizioni
ambientali (tabagismo compreso) e occupazionali ma da intendere nel
senso delle dosi cumulative; tenendo conto dunque sia di quelle
pregresse che di quelle in atto. E sul tabagismo c’è un quasi totale e
sospetto silenzio con qualche presa di posizione (il responsabile repato
Covid di Bari che però non cita le fonti) a sostegno della tesi che il
virus “preferisca” colonizzare polmoni più sani! Sarà un problema
secondario ma questa confusione evidenzia quanto ancora si dovrà
approfondire su piano dell’indagine anamnestica ed epidemiologica. Per
esempio escludere il ruolo del tabagismo sarebbe sorprendente ma
evitiamo, anche qui, di cadere in ragionamenti aprioristici.
Libertà individuali e libertà di impresa
I diktat imposti dalle istituzioni
sono l’effetto di una storia complessa. Oggi in Italia gli organi di
controllo sanzionano chi circola senza a cintura di sicurezza. Si è
affermato un modello di prevenzione basato sull’obbligo piuttosto che
sulla consapevolezza. Essendo sedimentato questo sistema ha costituito
terreno favorevole a continuare sulla stessa strada. Paiono più vivaci
le proteste per le violazioni delle norme comportamentali dettate dal
governo che le preoccupazioni sul pericoloso modello autoritario a
queste sotteso, foriero di futuri e peggiori danni anche alla
democrazia. Si profilano meccanismi di controllo che, con la “scusa”
dell’epidemia preludono ad un sistema poliziesco capace di mettere
fortemente in crisi le libertà individuali. Dobbiamo ancora comprendere a
fondo rischi e caratteristiche di questo ventilato controllo attraverso
le “app” che avvertirebbero dell’avvenuto contatto (a che distanza?)
con un soggetto positivo. C’è il rischio che fra un anno o due la
“app” non distingua fra positivi e vaccinati? O che le “app” scattino
anche per “sensibilità crociate” come avviene in natura per le
condizioni poli-allaergiche? Si aprono prospettive caotiche e inquietanti. A fronte delle limitazioni imposte alla “plebe” abbiamo assistito a grande elasticità nei confronti della libertà di impresa. Sin dall’inizio il governo ha fatto scelte inaccettabili sui codici ATECO dei comparti lavorativi “autorizzati”. Fin dall’inizio nessuno stop sia all’industria del tabacco che a quella delle armi.
Una attenzione affettuosa e particolare dobbiamo riservare a bambini per le deprivazioni relazionali che hanno subìto, in particolare alla forte limitazione della libertà e del gioco fra pari. Una preoccupazione che non compare nelle previsioni e nei piani a impostazione economicista ma dobbiamo in tutti i modi cercare di recuperare. Si tratta di una esperienza per tutti – ma soprattutto per i bambini – difficile da dimenticare e dobbiamo cercare che si concluda senza postumi.
Gestione dei rifiuti
In molti hanno richiamato l’attenzione sulla gestione dei rifiuti. Dovremo infatti fare i conti con montagne di ddppii dismessi, smaltiti in maniera emergenziale e discutibile, che hanno una notevole componente in plastica e carta. Un mix favorevole, in caso di combustione, alla produzione di diossina.
Le norme di prevenzione igienistica indicano nei dispositivi di protezione individuale l’ultimo ed estremo presidio. Se si è dovuto invece fare ricorso a un uso massiccio è stato anche per la carenza di misure di prevenzione collettiva (ad esempio separazione delle situazioni più a rischio, ambienti in depressione d’aria ecc). Non si vuol dire che di ddppii se ne è usati troppi, è un discorso diverso: si doveva fare un uso più mirato di mezzi effettivamente efficaci e qualche volta anche in numero maggiore. Pensiamo alle linee guida attualmente proposte dagli odontoiatri ; operatori in posizione difficile in quanto operano con pazienti che non possono indossare una mascherina per ovvie ragioni. Gli odontoiatri hanno inserito nelle loro linee guida il ricambio dei ddppii dopo ogni singolo paziente; diamo per scontato che questa procedura sia stata rispettata anche nelle case di riposo?
In conclusione: la montagna di rifiuti poteva essere ridotta alla fonte o quantomeno, se si fosse lavorato meglio, ci troveremmo a gestire come rifiuti ddppii che sono stati davvero utili invece di lasciar filtrare, in entrata e in uscita, l’agente infettivo.
Citato e sollevato il tema delle rigenerazione. Il problema è serio ma doveva essere programmato e affrontato nell’ambito dell’inesistente piano pandemico. Nella concitazione del momento il tema rigenerazione è stato affrontato con troppa approssimazione. Dovremmo comunque studiarlo meglio per la “prossima epidemia” se le previsioni per il futuro fatto da fonti autorevoli (Paolo Vineis e altri) sono fondate.
La condotta degli enti locali
Abbiamo già detto dell’atteggiamento di chiusura degli enti locali, contraddistinto da un vero e proprio “sequestro dei dati” da parte di Ausl e Inail. Nel non rispondere a richieste di accesso ai dati e alle informazioni, la ausl di Bologna ha addirittura invocato il blocco delle pratiche amministrative concesso dal governo, mostrando di fare grande confusione tra pratiche amministrative e compiti istituzionali. Anche la Regione – sollecitata sul problema della prevenzione per gli operatori che seguono le persone in difficoltà nell’uso delle mascherine – non ha risposto. Dal nostro canto abbiamo offerto ai sindaci dell’Unione Idice-Savena (più San Lazzaro) la nostra disponibilità al lavoro volontario per aiutare a decodificare nel territorio i numeri pubblicati in maniera poco decifrabile dalla Ausl; non abbiamo ricevuto riscontri, neppure nel senso “no grazie, facciamo da soli”. Nel 1800 nei comitati comunali, costituiti in tempi di epidemia, era presente il medico per un contributo alla lettura e comprensione dell’andamento del contagio; qui invece i sindaci hanno ritenuto sufficiente la circolazione dei dati pubblicati dalla Ausl. Via via che, anche dopo la crescita delle misure restrittive, cresceva il numero dei positivi sarebbe stato invece importante leggere la dinamica per comprenderne le motivazioni (occupazionali o dovute invece a palese incuranza delle restrizioni ?). Del tutto oscure per i cittadini le dinamiche relative alla crescita dei “positivi” : aumentavano davvero o era una maggiore ricerca? Per esempio con la tecnica sudcoreana del tampone fatto al paziente in macchina? Questa situazione di “buio” ha indotto senso di frustrazione e nitida percezione che le istituzioni chiedevano di obbedire senza discutere.
Sul versante Ausl / Inail la “trasparenza” è stata un disastro. L’Inail non ha mai risposto alla richiesta di informazioni sulla incidenza del fenomeno occupazionale infortunistico. Alla Ausl di Bologna abbiamo chiesto dati epidemiologici generali leggibili ma anche dati puntuali relativi per esempio al carcere di Bologna, alla Rems e alla coorte dei lavoratori della ASP (azienda servizi alla persona); questi ultimi dati li abbiamo chiesti all’Uopsal (servizio di medicina del lavoro) Ausl e all’Inail: silenzio totale.
Quanto al blocco delle pratiche amministrative: ci pare segno di grave confusione da parte della Ausl considerare le richieste di informazioni “pratiche amministrative” in quanto la diffusione delle informazioni costituisce un dovere istituzionale e giuridico previsto dell’articolo 20 della legge 833/1978 che attribuisce alla Usl il compito della valutazione dei rischi in fabbrica e nel territorio.
Ipotesi di lavoro
Non siamo partiti con esposti formali alle procure sulla morte di una lavoratrice e di persone detenute perché riteniamo questi eventi luttuosi più importanti di altri; siamo partiti dalle situazioni per le quali avevamo conoscenza degli elementi sufficienti per articolare un esposto. Contestualmente ai nostri ne sono partiti altri, quasi tutti avviati da familiari di persone ospedalizzate o soprattutto collocate in case di riposo .A questi ci affiancheremo, se possibile, anche come parte civile per dare un contributo alle indagini in corso e daremo un contributo.
Certamente la componente occupazionale della malattia e del decesso della persona anziana ricoverata è ben diverso dalla dinamica eziologica della malattia occupazionale vera e propria. Se il nesso eziologico non è sempre facile da dimostrare nel caso della malattia professionale, ancor più difficile è ricostruire il nesso dalle carenze di misure di prevenzione lavorativa alla infezione nosocomiale che colpisce la persona assistita. Una qualche analogia si può intravedere nella dinamica dei mesoteliomi paralavorativi (la donna che si ammala di mesotelioma per aver lavato la tuta del congiunto inquinata da amianto). In questi casi è vero che a volte non si è giunti a condanna in sede penale o addirittura neanche in sede civile ma ci sono state anche sentenze di condanna che hanno superato il vaglio particolarmente rigoroso del processo penale (Tribunale di Venezia, pm Felice Casson).
Nel caso delle persone decedute per infezione nosocomiale certamente non si potrà invocare, in maniera aprioristica, la presunzione legale della esposizione come nei casi occupazionali. In teoria, in particolari e singole circostanze, il virus può essere stato importato da fuori e non veicolato con la dinamica paralavorativa che abbiamo citato a proposito dell’amianto. Si tratterà di discutere con rigore, caso per caso , approfondendo i dati epidemiologici e clinici.
Ben difficile, per fare un esempio, ipotizzare che la vicenda del carcere di Bologna non veda, nel contagio subìto dalle persone detenute, una dinamica paralavorativa.
Nelle case di riposo – dove gli eventi hanno seguito dinamiche diverse da quelle del carcere – CERTAMENTE IL VIRUS E’ VENUTO DA “FUORI”: bisognerà valutare caso per caso se le condizioni in cui gli assistenti hanno dovuto operare possano far supporre l’entrata del virus solo attraverso i contatti con i familiari; fermo restando che anche questo non assolverebbe l’organizzazione del lavoro.
A supporto dell’inconsistenza della tesi dello tsunami (imprevedibile e ineluttabile) pare giocare il riscontro di case di riposo “covid-free” o di luoghi che pur non totalmente indenni da contagi hanno registrato una mortalità uguale a zero. Questi esempi sono importanti. Possiamo ritenere che si tratti di casi particolarmente fortunati tanto da non essere stati contaminati da soggetti esterni: una fortuna alla quale si deve però essere associata anche una particolare e rigorosa strategia di prevenzione occupazionale? O quei casi sono l’esempio concreto di come il disastroso impatto verificatosi avrebbe potuto essere evitato ?
Attività giudiziaria e inchiesta popolare
Come abbiamo detto il procuratore della repubblica di Bologna ha manifestato un orientamento sbagliato. Ovviamente siamo ancora all’inizio e sarà importante dialogare con i pubblici ministeri e con i loro consulenti. Per questo occorre attivare collaborazioni e sinergie fra tutte le “parti lese” occupazionali e non occupazionali per giungere sia all’accertamento delle eventuali responsabilità penali sia a risarcimenti dignitosi e non offensivi come succede ancora oggi per l’amianto.
Il compito che ci assumiamo è avviare una grande indagine e anamnestica popolare raccogliendo informazioni dalle persone maggiormente coinvolte e maggiormente informate sulle dinamiche reali degli avvenimenti.
Riservando in questa indagine uno spazio particolare ai tragici fatti avvenuti nel mese di marzo nella carceri italiane (Modena, Bologna e Frosinone) che sono ascrivibili alla mancata prevenzione delle forme di deprivazione sociale assolutamente evitabili che sono state imposte e alla mancata prevenzione di tipo fisico, materiale e igienistico nei penitenziari.
Sono state fatte denunce eclatanti non solo da familiari ma anche e soprattutto da lavoratori sulla omissione di misure di sicurezza.
Per citarne alcune, credibili ma da verificare in ambito giudiziario:
- una lavoratrice presso l’Istituto sant’Anna di Bologna ha denunciato gravi carenze nell’uso e nella disponibilità dei ddppii, in particolare, delle vie respiratorie, per il personale; a mezzo stampa apprendiamo che il datore di lavoro della struttura (presso la quale la lavoratrice presta la sua attività in appalto) avrebbe reagito alle accuse con una querela; è evidente che noi incoraggiamo i lavoratori a parlare e a rilasciare le loro testimonianze che sono essenziali al fine di ricostruire responsabilità civili e penali;
- moltissimi familiari hanno riferito l’assenza o l’estrema precarietà delle misure di prevenzione e di isolamento nonostante la deprivazione sociale e affettiva che è stata imposta nell’ambito delle relazioni;
- spicca una circolare che sarebbe stata emanata nel carcere di Bologna secondo cui si imponeva al personale sanitario di non usare la mascherina con la incongrua motivazione secondo cui occorreva “non generare allarme”;
- se è difficile raccogliere documenti ufficiali, di uno, molto importante, abbiamo invece copia: presso una casa di riposo di Bologna ancora a febbraio inoltrato si parlava di «concessione» della mascherina a chi ne facesse espressamente richiesta… Tornano in mente vicende analoghe nella OGR di Bologna che hanno preceduto la strage da amianto;
- né possiamo trascurare altre condotte, forse non penalmente rilevanti, ma certo fonte di disagio e sofferenza per gli assistiti e per i loro familiari che hanno determinato isolamento evitabile e persino mancanza di informazioni per i congiunti; molti di questi eventi sono stati causati forse solo da disorganizzazione ma è assurdo dover prendere atto di come il dirigente di una casa di riposo non possa spiegare altrimenti certi dolorosi eventi, aggravati dall’incapacità di dare ai familiari notizie dei loro cari, comunicando alla stampa che «alcuni anziani ricoverati in ospedale li abbiamo persi…non sapevamo più dove erano»; le cronache ci informano di eventi ancora più terribili in Lombardia con condoglianze fatte ai familiari un mese dopo il decesso o come la comunicazione di uno stato di buona salute per un congiunto in realtà deceduto da un mese. Nell’epoca in cui sono comparsi braccialetti elettronici e “app” per segnalare l’avvenuto contatto con un soggetto positivo, tutto questo appare assurdo, in particolare se viene detto dal gestore di una casa di riposo che dista dal luogo del ricovero ospedaliero … poche centinaia di metri!
Il vortice degli eventi, i cambiamenti di fronte, i cambi repentini di prospettiva, le discussioni rocambolesche anche tra “scienziati” su modalità di contagio, prevenzione e terapie… tutto ci ha effettivamente un po’ storditi.
Però abbiamo riflettuto, indagato, consultato. Abbiamo avuto l’impressione che, fra i nostri interlocutori ma anche in generale, maggiore fosse la conoscenza tecnica e professionale e più grande fosse la prudenza.
Con modestia abbiamo ragionato, a partire dalla idea che uno dei perni principali della vicenda epidemica sia costituito dalla critica alla organizzazione del lavoro e dalla necessità di comprendere, in quanto istruttivi e paradigmatici, sia la organizzazione del lavoro che il modello di funzionamento delle istituzioni totali. Non ci siamo limitati e nemmeno particolarmente focalizzati sulla ricerca di colpevoli, però la storia ci dimostra che il “sistema” accetta di mettersi in discussione solo quando è chiamato a pagare. In alternativa il sistema preferisce privatizzare i profitti (quante aziende improvvisate si sono buttate sull’affare della assistenza agli anziani) e socializzare le perdite. Una dinamica che ha fra i suoi pilastri la attività quotidiana dell’Inail che scarica sull’Inps e nega i giusti riconoscimenti ai lavoratori.
Anche in coerenza con questo approccio sistemico abbiamo:
- richiesto dati alla Ausl e all’Inail: nessuna risposta;
- dato la disponibilità ai sindaci di alcuni Comuni a supportare la amministrazione comunale nella decodificazione e l’approfondimento dei dati epidemiologici: nessuna risposta;
- dato supporto ai lavoratori USB di Bologna ; ottima collaborazione;
- presentato un esposto alla Procura della repubblica di Modena per il decesso di una lavoratrice di una casa di riposo: nessuna risposta, al momento;
- presentato due esposti alla Procura della repubblica di Bologna per i due decessi emersi dalla coorte delle persone detenute nel carcere della Dozza: nessuna risposta.
Ringrazio quanti mi hanno dato informazioni, spunti e sostegno logistico: Daniele Barbieri, Davide Fabbri, Corrado Seletti, Maurizio Portaluri, Giuliana Porceli, diversi colleghi e amici medici, lavoratrici e lavoratori Usb del comparto sociosanitario (Domenica Lepera, Letizia Arcuri, Gennaro Mattera), l’avvocato Guglielmo Giuliano e altri ancora.
NOTE
- 3700 i contagi sui luoghi di lavoro denunciati all’Inail E-R; 70% di questi appartengono alle categorie :medici, infermieri e operatori della sanità; l’ulteriore 30% riguarda cassieri, addetti agli sportelli aperti al pubblico e altri operatori come addetti alle pulizie negli ospedali; i morti censiti dall’Inail (al 4 maggio 2020) sono 129; 7 decessi in Emilia-Romagna; i dati sono comunque fortemente approssimati per difetto in quanto le statistiche Inail non includono diverse categorie di lavoratori quali i medici di base, i medici libero-professionisti, i farmacisti, ecc. ; sui dati occupazionali vi è stato un aggiornamento in data 22.5 con questi riscontri: decessi 171; infortuni denunciati 43.000 ( più di 6000 dopo il 4/5); il 43% dei decessi professionali in Lombardia; l’82% dei decessi ha riguardato uomini.
Documenti e atti precedenti disponibili nell’archivio della «Rete per l’ecologia sociale»
- costituzione della “Associazione epidemiologia critica John Snow”
- manuale di autodifesa dal rischio professionale
- esposto alla procura di Modena sulla morte di una lavoratrice
- due esposti alla Procura della repubblica di Bologna (per i decessi di due persone detenute)
- documento «Dati chiari» relativo alla necessità di socializzare dati epidemiologici esaustivi
- comunicato «No allo scudo penale», pubblicato prima degli emendamenti parlamentari che hanno bocciato questo tentativo
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