Si
è appena insediato il nuovo presidente di Covindustria, Carlo Bonomi,
forte di un 99,9% di consenso. Il suo discorso di insediamento merita un
breve commento perché esprime al meglio la feroce determinazione con
cui il padronato punta alla ripresa. A riprendere a macinare profitti
dopo il tracollo economico di questi mesi.
Con
l’uscita della Fiat di Marchionne (nel 2011) e quelle di Finmeccanica,
UnipolSai, Salini Impregilo, Luxottica, etc. avvenute negli anni
seguenti, la storica associazione degli industriali, già sponsor del
fascismo e della DC, ha conosciuto un evidente declino di influenza
politica, per la perdita di peso della grande industria privata e il
contemporaneo rafforzamento del sistema bancario. Bonomi intende ora
rilanciarla alla grande come il vero partito politico dei capitalisti italiani.
Non a caso ha esplicitamente ritirato ogni forma di delega ai partiti
esistenti, tutti ammalati a suo dire,
specie quelli al governo, di “un forte pregiudizio anti-imprese”. Tesi che a noi suona provocatoria per come il governo Conte si è piegato alla pressione delle imprese lasciandole libere di fare tutto quello che hanno voluto, ma è invece ovvia in chi ha guidato la carica padronale per tenere aperto tutto, sempre, a qualsiasi costo – con gli operai, carne da macello.
specie quelli al governo, di “un forte pregiudizio anti-imprese”. Tesi che a noi suona provocatoria per come il governo Conte si è piegato alla pressione delle imprese lasciandole libere di fare tutto quello che hanno voluto, ma è invece ovvia in chi ha guidato la carica padronale per tenere aperto tutto, sempre, a qualsiasi costo – con gli operai, carne da macello.
Il programma bonomiano può essere riassunto così: tutto alle imprese, tutto per le imprese, tutto attraverso le imprese. Tutto alle
imprese perché Bonomi ha respinto l’idea di prorogare il pagamento
delle tasse, a favore del loro azzeramento, e per un fisco “che sia leva
di crescita”, ossia sempre più leggero sulle imprese. Soldi a fondo
perduto, detassazione del capitale, grandi investimenti di stato a
favore del sistema imprenditoriale (privato e statale), con priorità a
Industria 4.0 e Fintech 4.0. Tutto per le imprese nel senso che lo stato deve intervenire attivamente come soggetto di spesa (e di indebitamento), ma non deve “tornare ad essere gestore dell’economia” – questo compito va lasciato in esclusiva ai capitalisti. Tutto attraverso
le imprese perché “reddito e lavoro a milioni di italiani possono darlo
solo le imprese e i mercati”, e nessuno può sostituirle in questa
nobile missione.
E
i sindacati? “I sindacati debbono cambiare”. Accettando che al tavolo
dei contratti la piattaforma rivendicativa la presentino i padroni,
dettando loro gli argomenti da trattare. Il primo: l’aumento della
produttività. Il secondo: la prevalenza dei contratti aziendali su
quelli nazionali (il colpo di grazia al contratto nazionale). Il terzo:
la fedeltà incondizionata ai contratti-capestro sottoscritti, “i patti
devono essere mantenuti”.
Quanto
ai proletari dell’industria, Bonomi gli ha dedicato una citazione di
Luigi Einaudi circa la decadenza dell’impero romano. Una delle cause di
questa decadenza, sostenne il libero-schiavista Einaudi, fu che “i
cittadini romani, a furia di promesse politiche di coloro che
esercitavano il comando, sdegnavano di essere lavoratori-soldati perché
spinti dall’illusione di esser mantenuti dallo stato” (chiaro?).
Mantenute dallo stato possono essere solo le imprese! E immancabile è
arrivato l’ok bonomiano al prestito di 6,3 miliardi per FCA garantito
dallo stato (sia pur con il vincolo che questi fondi vengano spesi in
Italia).
Ecco
il succo del discorso di investitura e della successiva incoronazione
di Bonomi a Porta a porta. La voce del padrone (del capitale). A quando
la voce dei “lavoratori-soldati”?
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