Sono trentadue i lavoratori arrestati e rinviati a giudizio per un sit-in pacifico a Torah, in un cementificio a sud del Cairo. Chiedevano la stabilizzazione e il pagamento degli stipendi arretrati per settantacinque addetti alla sicurezza.
Decine di agenti di polizia hanno attaccato il presidio davanti alla fabbrica alle due del mattino di lunedì 22 maggio, arrestando ventidue persone sul momento e poi altre dieci in serata. Le accuse sono aggressione a pubblico ufficiale, resistenza all’arresto e intralcio alla giustizia.
UNA PETIZIONE LANCIATA sabato e sottoscritta da decine di partiti, sindacati e oltre 250 personalità della società civile egiziana, denuncia i maltrattamenti che gli arrestati avrebbero subito durante la detenzione e ne chiede l’immediata liberazione.
Anche le famiglie protestano per l’immotivato rinvio dell’udienza, rimandata al 3 giugno perché il personale del carcere non ha trasportato gli imputati in tribunale il giorno previsto (da pochi giorni è anche iniziato il Ramadan).
Secondo altri lavoratori, gli arrestati sarebbero stati malmenati, umiliati e derubati durante il periodo di custodia e in seguito quattro di loro sarebbero stati ricoverati in ospedale, ma nessuno dei colleghi ha potuto vederli o parlargli dal momento dell’arresto.
I lavoratori in mobilitazione sono difesi dall’avvocato Haitham Mohammadein, che era presente al sit-in e smentisce categoricamente le accuse: la protesta era «totalmente pacifica e nonviolenta», ha detto a Mada Masr, testata indipendente egiziana, e ha ribadito che l’arresto e la detenzione sono pertanto illegali.
LA PROTESTA DURAVA da 55 giorni, da quando la direzione dello stabilimento ha negato il risarcimento alla famiglia di un lavoratore ucciso in servizio, in quanto lavoratore part-time.
Secondo quanto riportato da Mada Masr, molti degli addetti alla sicurezza hanno lavorato a tempo pieno anche per dieci-quindici anni, ma sempre con contratti part-time o contratti a tempo determinato. L’impianto di Torah è uno dei cinque cementifici egiziani che fino al luglio 2016 faceva capo al gruppo Italcementi, con sede a Bergamo.
Da meno di un anno Italcementi è stata acquisita dalla tedesca HeidelbergCement, diventata così il secondo produttore di cemento al mondo. Italcementi era entrata nel mercato egiziano nel 2001, partecipando alle prime privatizzazioni delle società pubbliche.
DAL 2005 È STATA principale azionista di Suez Cement, che in Egitto è leader del mercato dei materiali da costruzione, con oltre 3mila dipendenti. Insieme ad altri investimenti nel calcestruzzo e nelle rinnovabili, Italcementi in Egitto raggiungeva un fatturato di oltre 580 milioni di euro nel 2015.
Già a maggio 2016 i protagonisti della protesta avevano vinto una causa contro l’azienda (che all’epoca faceva ancora capo a Italcementi), ottenendo una sentenza che equiparava i loro diritti a quelli degli altri dipendenti.
Senza contratti a tempo pieno infatti i lavoratori non hanno diritto all’assistenza sanitaria, alla partecipazione agli utili (prevista dalla legge) e non possono iscriversi al sindacato di fabbrica.
Italcementi, da noi sentita direttamente, ha voluto specificare che «non si trattava di dipendenti della società», ma di una ditta in subappalto. I lavoratori però denunciano a Mada Masr che la sentenza del tribunale obbligava la Torah Cement Company (all’epoca gruppo Italcementi) ad applicare retroattivamente le condizioni contrattuali più favorevoli.
LA PROTESTA DEI LAVORATORI di Torah è l’ultima di una lunga serie di mobilitazioni in un cementificio che impiega circa mille persone e non è nuovo a duri conflitti tra azienda e lavoratori. Nel maggio 2015 l’azienda, dopo 39 giorni di proteste e dopo aver imposto una serrata allo stabilimento, aveva dovuto cedere e ripristinare i bonus annuali che erano stati tagliati andando contro la legge egiziana.
I lavoratori, con il supporto del Centro per i Servizi Sindacali e del Lavoro, avevano dimostrato che Italcementi aveva deliberatamente causato perdite di 14 milioni di lire egiziane (all’epoca un milione e mezzo di euro) nel bilancio dello stabilimento con lo scopo di tagliare i bonus agli operai.
DOPO IL COLPO DI STATO del luglio 2013 in Egitto sono state introdotte nuove misure fortemente restrittive, che criminalizzano scioperi e proteste. La nuova legislazione ha reso molto più difficili e pericolose le azioni dei lavoratori, che erano state una costante degli ultimi dieci anni.
LE MOBILITAZIONI SOCIALI in tutto il paese sono diminuite bruscamente da metà 2013, ma non si sono fermate: nel 2016 sono state 726 le proteste censite sui luoghi di lavoro. Numeri che testimoniano un forte calo rispetto al passato, ma comunque importanti se si pensa alle centinaia di lavoratori denunciati, arrestati e processati negli ultimi anni (anche da tribunali militari).
È evidente che i grandi gruppi industriali abbiano un vantaggio diretto da un governo che reprime brutalmente il diritto dei lavoratori alla protesta, lo sciopero e la sindacalizzazione.
Italcementi ha anche investito concretamente nella stabilizzazione del regime del presidente al-Sisi, giunto al potere a seguito di un colpo di Stato nel luglio del 2013.
A marzo 2015 infatti Suez Cement (gruppo Italcementi) annunciava la donazione 30 milioni di lire egiziane (all’epoca l’equivalente di tre milioni di euro circa) al fondo Tahya Masr, istituito proprio dal presidente al-Sisi con lo scopo di rilanciare lo sviluppo del paese.
IL FONDO, esente da tassazione, ha raccolto miliardi in donazioni da grandi imprenditori e dall’esercito, sollevando molti dubbi sulla trasparenza e la correttezza nella gestione dei capitali, che sfugge di fatto a qualsiasi supervisione esterna. Nonostante le nostre richieste di chiarimenti, dal gruppo HeidelbergCement non abbiamo ricevuto finora nessuna risposta.
Dal canto suo l’ufficio stampa Italcementi, su nostra sollecitazione, dichiara che «sono in corso le opportune verifiche» sugli episodi risalenti al periodo della gestione italiana. Al momento dell’impaginazione del giornale non era stata rilasciata ancora nessuna dichiarazione.
Pino Dragoni sul Manifesto
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