Il lavoro umano,
l’automazione e la “fine del lavoro”. Nessuna macchina oggi in grado di
sostituire il lavoro creativo. La politica e la disoccupazione.
Che le macchine
servano per sostituire il lavoro umano, è noto da quando qualcuno, già nella
preistoria, cominciò a usare una leva invece di far sollevare un carico pesante
da molti uomini.
Neppure è una novità
che, in una società capitalistica, il lavoro risparmiato con le macchine non si
trasformi in più tempo libero per i lavoratori, ma in più disoccupati: lo aveva
già capito Lord Byron. Il famoso poeta intervenne, infatti, nel 1812 alla Camera
dei Lord contro la legge che stabiliva la pena di morte per “coloro che
distruggono o danneggiano telai o simile macchinario”, proposta per fermare gli
attacchi alle fabbriche tessili dei luddisti (un movimento operaista
sviluppatosi in Inghilterra all’inizio del XIX secolo proprio a causa della
disoccupazione prodotta dall’introduzione del telaio meccanico). Nel suo
discorso, Byron sottolineò come i telai meccanici stessero levando il lavoro a
migliaia di operai tessili, conducendo le loro famiglie alla fame.
Comunque, fu Karl
Marx, nel famoso “Frammento sulle macchine”, inserito poi nei “Lineamenti
fondamentali di critica dell’economia politica”, a spiegare come sia uno dei
capisaldi del capitalismo il fatto che il lavoratore venga, appena possibile,
sostituito dalla macchina, che può far produrre più merce in meno tempo.
Inoltre, sviluppando il capitale fisso (le macchine) i padroni possono fare a
meno di una parte sempre crescente del capitale variabile (i lavoratori) e
quindi possono risparmiarne i salari. Si noti però che Marx, a differenza dei
luddisti, non era affatto contro la tecnologia e l’innovazione: pensava anzi che
questa avrebbe inevitabilmente prodotto la fine del sistema
capitalistico e avrebbe lasciato ai lavoratori sempre più tempo libero, da dedicare al riposo o allo sviluppo dei propri interessi personali.
capitalistico e avrebbe lasciato ai lavoratori sempre più tempo libero, da dedicare al riposo o allo sviluppo dei propri interessi personali.
D’altra parte, per
tutto il XIX e buona parte del XX secolo, l’automazione ha sostituito la massima
parte del lavoro umano solo nell’agricoltura dei Paesi ricchi (nei quali il
numero degli agricoltori è perciò ormai molto ridotto), ma l’automazione delle
fabbriche è stata molto più lenta. Infatti, gli automatismi, prima puramente
meccanici, poi elettromeccanici, infine elettromeccanici con servomeccanismi di
controllo, hanno ridotto la necessità di lavoro umano nelle singole fabbriche e
ne hanno aumentato la produzione, ma avevano sempre bisogno del lavoro umano per
il loro controllo e per funzioni che non potevano essere meccanizzate. Nel XX
secolo, poi, lo sviluppo di nuovi prodotti (automobili, elettrodomestici,
materie plastiche, ecc.) a costi accessibili a una gran parte della popolazione
ha costantemente permesso la nascita di nuove fabbriche che hanno assorbito la
manodopera in eccesso, anche se con alti e bassi a seconda della fase
economica.
Così, per circa un
secolo, della “fine del lavoro” prevista da Marx non ne ha parlato più quasi
nessuno, anche se Keynes, nel 1933, aveva previsto si sarebbe verificata una
espansione della disoccupazione causata dalla tecnologia “per la scoperta di
mezzi di economizzazione dell’utilizzo del lavoro che supera il ritmo con il
quale si possono trovare nuovi usi per il lavoro”.
Infatti, nell’ultimo
quarto del XX secolo la previsione di Keynes ha cominciato ad avverarsi a causa
dello sviluppo dell’informatica, che ha fatto scomparire mansioni che nessuno
poteva prevedere potessero essere fatte diversamente che “a mano”.
Ricordo che, quando
ho cominciato a lavorare nella ricerca alla fine degli anni 60 (dopo il
direttore e il responsabile dell’amministrazione) insieme ai ricercatori, le
persone più importanti dell’istituto erano le dattilografe e i disegnatori, gli
unici che potevano trasformare i nostri testi scritti a mano e pieni di
cancellature e richiami (e i nostri diagrammi su carta millimetrata) in un
articolo pubblicabile in un giornale scientifico. Ora, dattilografe e
disegnatori non esistono più. Certo, ci sono gli informatici che curano e
aggiornano i software di scrittura e di grafica che usiamo quotidianamente, ma
uno solo di questi lavoratori specializzati sostituisce decine di dattilografe e
disegnatori.
Questo però è stato
solo l’inizio, perché questi primi software hanno sostituito solo lavori
esecutivi. Lo sviluppo di software di “autoapprendimento”, cioè di programmi
che, una volta “istruiti” con una serie di esempi, sono capaci di sviluppare
autonomamente nuove capacità per far fronte a situazioni inizialmente non
previste, ha cambiato la situazione, generando la cosiddetta “quarta rivoluzione
industriale”.
Le nuove macchine
utensili, definite solitamente robot, anche se non sono certo i robot descritti
dalla fantascienza, sono in grado di stabilire autonomamente come comportarsi in
tutte le situazioni nell’ambito delle funzioni per le quali sono state
progettate. Quindi non sostituiscono solo il lavoro manuale ma anche, entro
certi limiti, quello di controllo e quindi non solo l’operaio generico, ma anche
quello specializzato e persino il “capo reparto”. Di nuovo, esse hanno bisogno
di chi ne esegue la manutenzione e ne aggiorna il software ma, anche questa
volta, uno solo di questi specialisti sostituisce decine di altri
lavoratori.
La sostituzione del
lavoro umano, grazie ai programmi di autoapprendimento, ha cominciato a
sostituire anche il lavoro ripetitivo non materiale. Nel settore amministrativo,
il numero di centralinisti, cassieri, contabili si è ridotto enormemente perché,
con l’uso dell’informatica, ognuno di questi lavoratori riesce a fare da solo il
lavoro che prima facevano in tanti. Sempre più spesso, telefonando a un call
center, inizialmente e finché le risposte alle nostre domande sono facilmente
prevedibili, non parliamo con un essere umano, ma con un calcolatore (a
proposito: scusatemi ma, dato che la lingua italiana ha questa parola per
definire una macchina che elabora informazioni, non vedo perché dobbiamo usare
il termine inglese “computer”, che ha esattamente lo stesso significato!). In
banca, spesso c’è ormai un solo cassiere, quando c’è, perché la maggioranza
delle operazioni di prelievo e deposito sono fatte con il bancomat e molte altre
vengono fatte via rete.
Le cose,
attualmente, stanno a questo punto: anche il più sofisticato robot, non può far
altro che agire autonomamente solo per uno specifico compito per il quale è
stato progettato, sempre che non si trovi di fronte a una situazione che i suoi
progettisti ritenevano impossibile. Però non si può chiedere a un bancomat di
verniciare un’auto o a una verniciatrice automatica di darci soldi dal nostro
conto corrente. Neppure i “rover” per l’esplorazione dei pianeti del Sistema
Solare o le “armi autonome” possono fare qualcosa che non sia tra i compiti
assegnati dai loro progettisti: muoversi autonomamente su un certo percorso
evitando ostacoli insuperabili, in un caso facendo misure, nell’altro ammazzando
gente.
Nessuna macchina è
per ora in grado di sostituire il lavoro creativo: basti vedere i disastrosi
risultati dei traduttori informatici, se la frase da tradurre non è banale. Se
un calcolatore ha battuto il campione mondiale di scacchi, è solo perché questo
gioco risponde a regole precisissime e il calcolatore ha vinto perché è stato
capace di valutare, in base a queste regole, le conseguenze di un numero
grandissimo di possibili mosse molto più rapidamente di quanto potesse fare il
suo avversario umano. Ma le regole degli scacchi sono fisse e immutabili, quelle
della vita no.
La vera
“intelligenza artificiale”, cioè la capacità di rispondere autonomamente a
qualsiasi tipo di problema, e anzi assegnarsi da sola il compito da svolgere, è
un’altra cosa: nessun calcolatore attuale è in grado di sostituire quel
meraviglioso calcolatore naturale che è il cervello umano, il quale con i suoi
miliardi di connessioni neuroniche e i suoi milioni di anni di evoluzione (e
forse anche con qualcosa in più, ma su questo argomento ognuno la pensi come
vuole) è in grado di affrontare problemi così diversi come il fare la spesa,
coltivare rose, risolvere una crisi interpersonale, creare un’opera d’arte che
parli a tutti i suoi simili, studiare l’evoluzione dell’Universo e anche
progettare robot.
I neurobiologi,
insieme agli informatici, stanno ora cercando di sviluppare un modello di
cervello umano che simuli, su di un super-calcolatore, tutta la rete neuronica.
E’ un compito difficilissimo, anzi che non pochi studiosi ritengono impossibile,
ma è già capitato molte volte che la tecnologia vinca sfide ritenute
impossibili. In ogni caso, questo studio permetterà certamente di approfondire i
meccanismi del nostro cervello e sarà quindi prezioso per la medicina, ma non
servirà (e non vuole servire) per creare un sostituto artificiale del cervello
umano.
Tuttavia, anche se i
robot dei film di fantascienza, se mai diverranno possibili, sono ancora molto
lontani nel futuro, gli attuali “robot” hanno già sostituito molti dei lavori
dell’uomo e molti altri ne sostituiranno. Camerieri robot che prendano le
ordinazioni (magari in tutte le lingue più diffuse), portino al cliente la
consumazione richiesta e gli presentino il conto da pagare con carta di credito
sono già alla portata della tecnologia attuale. Se non sono ancora entrati in
servizio è solo perché il loro costo sarebbe altissimo, mentre lo stipendio di
un cameriere umano è solitamente molto basso. Anche la guida automatica di mezzi
di trasporto non è lontana e questi sono solo alcuni esempi di lavori che
potranno essere automatizzati tra non molto.
Così, diversi
economisti hanno iniziato a studiare in quanto tempo tutti i lavori non creativi
potranno essere sostituiti da macchine e quale impatto ciò potrà avere
sull’economia, sul mercato del lavoro e, quindi, inevitabilmente, sulla
politica.
Naturalmente, come
capita spesso nelle previsioni degli economisti, le conclusioni sono molto
diverse l’una dall’altra. Carl Benedikt Frey e Michael Osborne, economisti della
Oxford Martin School, sono arrivati alla conclusione che il 47% dei lavori
attuali negli USA verrà svolto in futuro dalle macchine e che la sostituzione
sarà praticamente totale per i lavori non creativi o sociali: questo creerà una
enorme quantità di disoccupati. Al contrario, gli economisti del CEDEFOP, il
Centro Studi per la Formazione Professionale dell’Unione Europea, prevedono che
l’occupazione crescerà del 3% in Europa entro il 2025, grazie alla creazione di
nuovi lavori e alla sostituzione di lavoratori manuali che andranno in pensione
(o in pre-pensionamento) con addetti alle nuove tecnologie.
Sia come sia, la
politica dovrà inevitabilmente trovare una soluzione alla disoccupazione
generata dalle nuove tecnologie. Le idee sono tante: si va dalla nota proposta
di Bill Gates di introdurre una “robot tax”, cioè di una tassa sull’impiego dei
robot che serva a pagare un sussidio di disoccupazione (o, se preferite, un
salario sociale) a chi perderà il lavoro, a quella di Barack Obama di rallentare
il ritmo dell’automazione con misure restrittive. Trump, come per molti altri
casi, afferma che il problema non esiste.
Tuttavia, nessun
governante sembra per ora prendere in considerazione la semplice soluzione
proposta da Marx: con il progredire dell’automazione, per evitare la
disoccupazione è necessario ridurre il tempo di lavoro a parità di salario e
dare ai lavoratori più tempo libero per il riposo e lo sviluppo dei propri
interessi. Sarà forse perché questo porterebbe alla fine del sistema economico
capitalista?
Vito Francesco
Porcaro
Scienziato
dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia spaziale (Istituto Nazionale di
Astrofisica), e membro del Centro per l’Astronomia e l’Eredità Culturale
dell’Università di Ferrara
Nessun commento:
Posta un commento