sabato 10 giugno 2017

pc 10 giugno - IL CONTO, GRAZIE, SIGNOR ROBOT! - contributi liberi per alimentare il dibattito

Il lavoro umano, l’automazione e la “fine del lavoro”. Nessuna macchina oggi in grado di sostituire il lavoro creativo. La politica e la disoccupazione.

Che le macchine servano per sostituire il lavoro umano, è noto da quando qualcuno, già nella preistoria, cominciò a usare una leva invece di far sollevare un carico pesante da molti uomini.
Neppure è una novità che, in una società capitalistica, il lavoro risparmiato con le macchine non si trasformi in più tempo libero per i lavoratori, ma in più disoccupati: lo aveva già capito Lord Byron. Il famoso poeta intervenne, infatti, nel 1812 alla Camera dei Lord contro la legge che stabiliva la pena di morte per “coloro che distruggono o danneggiano telai o simile macchinario”, proposta per fermare gli attacchi alle fabbriche tessili dei luddisti (un movimento operaista sviluppatosi in Inghilterra all’inizio del XIX secolo proprio a causa della disoccupazione prodotta dall’introduzione del telaio meccanico). Nel suo discorso, Byron sottolineò come i telai meccanici stessero levando il lavoro a migliaia di operai tessili, conducendo le loro famiglie alla fame.
Comunque, fu Karl Marx, nel famoso “Frammento sulle macchine”, inserito poi nei “Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica”, a spiegare come sia uno dei capisaldi del capitalismo il fatto che il lavoratore venga, appena possibile, sostituito dalla macchina, che può far produrre più merce in meno tempo. Inoltre, sviluppando il capitale fisso (le macchine) i padroni possono fare a meno di una parte sempre crescente del capitale variabile (i lavoratori) e quindi possono risparmiarne i salari. Si noti però che Marx, a differenza dei luddisti, non era affatto contro la tecnologia e l’innovazione: pensava anzi che questa avrebbe inevitabilmente prodotto la fine del sistema
capitalistico e avrebbe lasciato ai lavoratori sempre più tempo libero, da dedicare al riposo o allo sviluppo dei propri interessi personali.
D’altra parte, per tutto il XIX e buona parte del XX secolo, l’automazione ha sostituito la massima parte del lavoro umano solo nell’agricoltura dei Paesi ricchi (nei quali il numero degli agricoltori è perciò ormai molto ridotto), ma l’automazione delle fabbriche è stata molto più lenta. Infatti, gli automatismi, prima puramente meccanici, poi elettromeccanici, infine elettromeccanici con servomeccanismi di controllo, hanno ridotto la necessità di lavoro umano nelle singole fabbriche e ne hanno aumentato la produzione, ma avevano sempre bisogno del lavoro umano per il loro controllo e per funzioni che non potevano essere meccanizzate. Nel XX secolo, poi, lo sviluppo di nuovi prodotti (automobili, elettrodomestici, materie plastiche, ecc.) a costi accessibili a una gran parte della popolazione ha costantemente permesso la nascita di nuove fabbriche che hanno assorbito la manodopera in eccesso, anche se con alti e bassi a seconda della fase economica.
Così, per circa un secolo, della “fine del lavoro” prevista da Marx non ne ha parlato più quasi nessuno, anche se Keynes, nel 1933, aveva previsto si sarebbe verificata una espansione della disoccupazione causata dalla tecnologia “per la scoperta di mezzi di economizzazione dell’utilizzo del lavoro che supera il ritmo con il quale si possono trovare nuovi usi per il lavoro”.
Infatti, nell’ultimo quarto del XX secolo la previsione di Keynes ha cominciato ad avverarsi a causa dello sviluppo dell’informatica, che ha fatto scomparire mansioni che nessuno poteva prevedere potessero essere fatte diversamente che “a mano”.
Ricordo che, quando ho cominciato a lavorare nella ricerca alla fine degli anni 60 (dopo il direttore e il responsabile dell’amministrazione) insieme ai ricercatori, le persone più importanti dell’istituto erano le dattilografe e i disegnatori, gli unici che potevano trasformare i nostri testi scritti a mano e pieni di cancellature e richiami (e i nostri diagrammi su carta millimetrata) in un articolo pubblicabile in un giornale scientifico. Ora, dattilografe e disegnatori non esistono più. Certo, ci sono gli informatici che curano e aggiornano i software di scrittura e di grafica che usiamo quotidianamente, ma uno solo di questi lavoratori specializzati sostituisce decine di dattilografe e disegnatori.
Questo però è stato solo l’inizio, perché questi primi software hanno sostituito solo lavori esecutivi. Lo sviluppo di software di “autoapprendimento”, cioè di programmi che, una volta “istruiti” con una serie di esempi, sono capaci di sviluppare autonomamente nuove capacità per far fronte a situazioni inizialmente non previste, ha cambiato la situazione, generando la cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”.
Le nuove macchine utensili, definite solitamente robot, anche se non sono certo i robot descritti dalla fantascienza, sono in grado di stabilire autonomamente come comportarsi in tutte le situazioni nell’ambito delle funzioni per le quali sono state progettate. Quindi non sostituiscono solo il lavoro manuale ma anche, entro certi limiti, quello di controllo e quindi non solo l’operaio generico, ma anche quello specializzato e persino il “capo reparto”. Di nuovo, esse hanno bisogno di chi ne esegue la manutenzione e ne aggiorna il software ma, anche questa volta, uno solo di questi specialisti sostituisce decine di altri lavoratori.
La sostituzione del lavoro umano, grazie ai programmi di autoapprendimento, ha cominciato a sostituire anche il lavoro ripetitivo non materiale. Nel settore amministrativo, il numero di centralinisti, cassieri, contabili si è ridotto enormemente perché, con l’uso dell’informatica, ognuno di questi lavoratori riesce a fare da solo il lavoro che prima facevano in tanti. Sempre più spesso, telefonando a un call center, inizialmente e finché le risposte alle nostre domande sono facilmente prevedibili, non parliamo con un essere umano, ma con un calcolatore (a proposito: scusatemi ma, dato che la lingua italiana ha questa parola per definire una macchina che elabora informazioni, non vedo perché dobbiamo usare il termine inglese “computer”, che ha esattamente lo stesso significato!). In banca, spesso c’è ormai un solo cassiere, quando c’è, perché la maggioranza delle operazioni di prelievo e deposito sono fatte con il bancomat e molte altre vengono fatte via rete.
Le cose, attualmente, stanno a questo punto: anche il più sofisticato robot, non può far altro che agire autonomamente solo per uno specifico compito per il quale è stato progettato, sempre che non si trovi di fronte a una situazione che i suoi progettisti ritenevano impossibile. Però non si può chiedere a un bancomat di verniciare un’auto o a una verniciatrice automatica di darci soldi dal nostro conto corrente. Neppure i “rover” per l’esplorazione dei pianeti del Sistema Solare o le “armi autonome” possono fare qualcosa che non sia tra i compiti assegnati dai loro progettisti: muoversi autonomamente su un certo percorso evitando ostacoli insuperabili, in un caso facendo misure, nell’altro ammazzando gente.
Nessuna macchina è per ora in grado di sostituire il lavoro creativo: basti vedere i disastrosi risultati dei traduttori informatici, se la frase da tradurre non è banale. Se un calcolatore ha battuto il campione mondiale di scacchi, è solo perché questo gioco risponde a regole precisissime e il calcolatore ha vinto perché è stato capace di valutare, in base a queste regole, le conseguenze di un numero grandissimo di possibili mosse molto più rapidamente di quanto potesse fare il suo avversario umano. Ma le regole degli scacchi sono fisse e immutabili, quelle della vita no.
La vera “intelligenza artificiale”, cioè la capacità di rispondere autonomamente a qualsiasi tipo di problema, e anzi assegnarsi da sola il compito da svolgere, è un’altra cosa: nessun calcolatore attuale è in grado di sostituire quel meraviglioso calcolatore naturale che è il cervello umano, il quale con i suoi miliardi di connessioni neuroniche e i suoi milioni di anni di evoluzione (e forse anche con qualcosa in più, ma su questo argomento ognuno la pensi come vuole) è in grado di affrontare problemi così diversi come il fare la spesa, coltivare rose, risolvere una crisi interpersonale, creare un’opera d’arte che parli a tutti i suoi simili, studiare l’evoluzione dell’Universo e anche progettare robot.
I neurobiologi, insieme agli informatici, stanno ora cercando di sviluppare un modello di cervello umano che simuli, su di un super-calcolatore, tutta la rete neuronica. E’ un compito difficilissimo, anzi che non pochi studiosi ritengono impossibile, ma è già capitato molte volte che la tecnologia vinca sfide ritenute impossibili. In ogni caso, questo studio permetterà certamente di approfondire i meccanismi del nostro cervello e sarà quindi prezioso per la medicina, ma non servirà (e non vuole servire) per creare un sostituto artificiale del cervello umano.
Tuttavia, anche se i robot dei film di fantascienza, se mai diverranno possibili, sono ancora molto lontani nel futuro, gli attuali “robot” hanno già sostituito molti dei lavori dell’uomo e molti altri ne sostituiranno. Camerieri robot che prendano le ordinazioni (magari in tutte le lingue più diffuse), portino al cliente la consumazione richiesta e gli presentino il conto da pagare con carta di credito sono già alla portata della tecnologia attuale. Se non sono ancora entrati in servizio è solo perché il loro costo sarebbe altissimo, mentre lo stipendio di un cameriere umano è solitamente molto basso. Anche la guida automatica di mezzi di trasporto non è lontana e questi sono solo alcuni esempi di lavori che potranno essere automatizzati tra non molto.
Così, diversi economisti hanno iniziato a studiare in quanto tempo tutti i lavori non creativi potranno essere sostituiti da macchine e quale impatto ciò potrà avere sull’economia, sul mercato del lavoro e, quindi, inevitabilmente, sulla politica.
Naturalmente, come capita spesso nelle previsioni degli economisti, le conclusioni sono molto diverse l’una dall’altra. Carl Benedikt Frey e Michael Osborne, economisti della Oxford Martin School, sono arrivati alla conclusione che il 47% dei lavori attuali negli USA verrà svolto in futuro dalle macchine e che la sostituzione sarà praticamente totale per i lavori non creativi o sociali: questo creerà una enorme quantità di disoccupati. Al contrario, gli economisti del CEDEFOP, il Centro Studi per la Formazione Professionale dell’Unione Europea, prevedono che l’occupazione crescerà del 3% in Europa entro il 2025, grazie alla creazione di nuovi lavori e alla sostituzione di lavoratori manuali che andranno in pensione (o in pre-pensionamento) con addetti alle nuove tecnologie.
Sia come sia, la politica dovrà inevitabilmente trovare una soluzione alla disoccupazione generata dalle nuove tecnologie. Le idee sono tante: si va dalla nota proposta di Bill Gates di introdurre una “robot tax”, cioè di una tassa sull’impiego dei robot che serva a pagare un sussidio di disoccupazione (o, se preferite, un salario sociale) a chi perderà il lavoro, a quella di Barack Obama di rallentare il ritmo dell’automazione con misure restrittive. Trump, come per molti altri casi, afferma che il problema non esiste.
Tuttavia, nessun governante sembra per ora prendere in considerazione la semplice soluzione proposta da Marx: con il progredire dell’automazione, per evitare la disoccupazione è necessario ridurre il tempo di lavoro a parità di salario e dare ai lavoratori più tempo libero per il riposo e lo sviluppo dei propri interessi. Sarà forse perché questo porterebbe alla fine del sistema economico capitalista?
Vito Francesco Porcaro

Scienziato dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia spaziale (Istituto Nazionale di Astrofisica), e membro del Centro per l’Astronomia e l’Eredità Culturale dell’Università di Ferrara

Nessun commento:

Posta un commento