I
PRESUPPOSTI TEORICI DEL MITO DELLA “DECRESCITA FELICE”
PERCHÉ E’ UTOPICO
PENSARE DI RENDERE IL SISTEMA CAPITALISTICO COMPATIBILE CON IL RISPETTO
DELL’AMBIENTE
di Marco Paciotti
27/05/2017
Il presente articolo
trae spunto dal materiale didattico (lucidi) preparato da Domenico Laise,
docente dell’Università La Sapienza di Roma, e presentato ad un seminario
“Sull’attualità del pensiero economico di Marx”, tenuto presso l’Università
Popolare Antonio Gramsci, nell’anno accademico 2016-2017.
Negli ultimi anni si
è assistito, nel variegato campo della sinistra anticapitalista, a una crescente
attenzione dedicata ai temi della “decrescita felice”, sdoganata dalle opere del
filosofo ed economista francese Serge Latouche, il quale, grazie a tale parola
d’ordine, ha acquisito enorme fama ed è finito per diventare un’icona anche per
alcuni ambienti della sinistra antagonista, oltre che bandiera ideologica del
Movimento 5 Stelle. Ma la decrescita è veramente un tema dirompente contro
l’attuale modo di produzione? Può l’ecologismo alla Latouche essere conciliato
nella teoria di Marx? La decrescita è concretamente realizzabile nel
capitalismo?
Per poter rispondere
a queste domande è necessario risalire alle origini teoriche dell’ecologismo
alla Latouche. La formulazione più organica e coerente, e per certi versi acuta,
dei motivi ecologisti può essere fatta risalire alla Bioeconomia, teoria
economica proposta da Nicolae Georgescu-Roegen (1906-1994) per la realizzazione
di un sistema ecologicamente e socialmente sostenibile. Per utilizzare le parole
dello stesso Georgescu-Roegen, il paradigma teorico della Bioeconomia si fonda
sul presupposto che “la sopravvivenza dell’uomo non è un problema né solo
biologico, né solo economico, ma bioeconomico”.
Per spiegare la
crisi ecologica, Georgescu-Roegen si avvale della scala entropica, in base alla
quale si può classificare la materia che circonda l’uomo. Risalendo gradualmente
la scala entropica si parte da strutture ordinate, che peraltro presentano un
elevato indice di utilità economica, per arrivare a strutture sempre più
disordinate, che presentano una contestuale caduta della propria utilità
economica. L’aumento del disordine è descritto attraverso l’aumento del grado di
entropia. Per fare un esempio concreto possiamo considerare un barile di
petrolio, che ha un basso valore d’entropia. Una volta trasformato in
combustibile e utilizzato sotto forma di carburante, il petrolio genera energia
cinetica, inquinamento e calore, il quale presenta un elevato valore di entropia
e viene disperso nell’aria, divenendo inutilizzabile.
Lo stesso ciclo
produttivo è un processo unidirezionale e irreversibile dall’ordine al
disordine, che ha come input materie prime e risorse naturali a bassa entropia e
che ha come output le merci prodotte, l’inquinamento, gli scarti e i rifiuti,
con un elevato grado di entropia. Si osserva, quindi, come nel processo di
produzione le risorse della terra e l’energia fossile siano sfruttate e
risultino progressivamente degradate. E’ da questo processo che, secondo
Georgescu-Roegen, deriva la crisi ecologica e ambientale del nostro tempo. Egli
sostiene che l’economia moderna è destinata al collasso a causa dell’esaurimento
delle riserve di energia non rinnovabili, lasciando come eredità un mondo
degradato, pieno di rifiuti e inquinato. Da questa considerazione deriva la
necessità di fare ricorso alle risorse naturali in modo più prudente,
integrandole con l’utilizzo delle energie rinnovabili come il sole e il vento,
per perpetuare la sostenibilità delle economie moderne.
In sostanza,
Georgescu-Roegen si interroga su che fare per rendere il modo di produzione
capitalistico ecologicamente viabile. L’obiettivo del teorico della Bioeconomia
è quello di rallentare il degrado entropico, fondando una “nuova etica”
ecologica centrata su “una certa simpatia verso gli esseri umani futuri”. A tal
fine, egli propone una “strategia della decrescita” da realizzare mediante un
Programma Bioeconomico Minimale articolato in 8 punti:
proibire la
produzione bellica;
pianificare il
tenore di vita dei paesi in via di sviluppo;
ridurre la
popolazione a un livello compatibile con l’agricoltura biologica;
eliminare gli
sprechi di energia;
curare la passione
morbosa per i congegni stravaganti;
liberare i
consumatori dalle mode;
produrre beni che
durino più a lungo;
aumentare di molto
il tempo libero (questo è l’unico punto in comune con il programma minimo
marxista, dato che coincide con la riduzione dell’orario di lavoro, anche se va
detto che Georgescu-Roegen “dimentica” di specificare che ciò vada ottenuto
senza alcuna contestuale riduzione del salario).
Per Georgescu-Roegen
tale programma deve essere lo strumento per realizzare un “état de
decroissance”: uno stato di decrescita.
Pur senza pretendere
di avere risposte certe, Georgescu-Roegen ritiene tale programma realizzabile in
regime di capitalismo. Tale concezione risulta viziata da un errore di fondo:
l’identificazione e la relazione deterministico-meccanicista tra produzione
entropica e crisi ecologica. Infatti, già in epoca medioevale la produzione era
entropica, ma non vi era alcuna crisi ecologica dovuta al grado molto basso di
entropia riscontrabile in un modo di produzione come quello feudale, dove il
surplus era utilizzato per la costruzione di dimore signorili e cattedrali e non
per essere accumulato come nel sistema economico capitalista, fondato
sull’accumulazione per l’accumulazione. D’altronde è con il passaggio dalla
bottega artigiana alla grande fabbrica che inizia il degrado entropico che è
alla base della crisi ecologica di oggi.
L’ottimismo di
Georgescu sull’effettiva realizzabilità del programma bioeconomico in regime
capitalistico non è per nulla condivisibile. Egli sembra dimenticare che
l’attuale modo di produzione sia basato su un meccanismo di accumulazione di
profitto fine a sé stesso e autoperpetuantesi all’infinito. Lo schema D–M–D’
mette in luce la centralità dell’investimento finalizzato all’accumulazione di
profitto, e la relativa autonomizzazione di tale ciclo economico nel
capitalismo, che si autoalimenta senza limitazioni assumendo natura di feticcio.
Il profitto ricavato alla fine di un processo produttivo, viene sempre
reinvestito per creare nuovo profitto, che a sua volta verrà investito e così
via. Tutto ciò è descritto dal principale teorico del liberismo Adam Smith: “Il
profitto è la fonte degli investimenti, che sono la fonte del profitto: il
capitalismo è accumulazione. Il capitalista è un benefattore parsimonioso,
mentre il prodigo è un nemico pubblico”. Il capitalismo è basato inoltre sulla
concorrenza, perché presupposto della sua esistenza è la libertà di iniziativa
economica. Ognuno può produrre ciò che ritiene più redditizio nella misura che
ritiene più opportuna, e alla fine è il mercato a decidere chi ha avuto ragione
e chi meno. La concorrenza si risolve quindi in ciò che Marx definisce
l’anarchia della produzione, in uno scontro a tutto campo dove solo i
capitalisti più avveduti possono sopravvivere. E’ evidente come un tale sistema
sia sostanzialmente incompatibile con una pianificazione sociale della
produzione e con un’accumulazione che tenga conto dell’equilibrio
ecologico.
L’entropia, da sola,
non è sufficiente a spiegare l’esistenza della crisi ecologica mondiale. Non è
tanto la natura entropica della produzione a causare i problemi ambientali,
quanto la sua finalizzazione alla produzione di profitto “ad infinitum”, in un
meccanismo perverso che comporta volumi di produzione tali da generare
elevatissimi gradi di entropia, e quindi, la crisi ecologica. Un sistema che
vive sulla base dello sfruttamento capitalistico dell’uomo sull’uomo, non può
che comportare anche lo sfruttamento indiscriminato dell’uomo sulla natura,
creando un inscindibile nesso tra modo di produzione capitalistico e crisi
ecologica. Georgescu-Roegen non si avvede di tale nesso perché disconosce la
teoria del valore-lavoro di Marx, che (riconoscendo nel lavoro umano, nel lavoro
vivo, la fonte della valorizzazione e del plusvalore) svela la natura
strutturale dello sfruttamento capitalistico dell’uomo sull’uomo. L’analisi
bioeconomica rimane invece confinata alla teoria del valore-entropia, ignorando
che un basso grado di entropia di per sé non genera alcun valore. Essa finisce
per presupporre un impensabile capitalismo a profitto zero (il plusvalore è
nullo se non c’è il lavoro umano). Il bioeconomista non riesce ad avvedersi,
quindi, che il superamento del modo di produzione capitalistico sia la
condizione necessaria (anche se non sufficiente) per poter ovviare alla crisi
ecologica. Con questo non si vuole certo affermare che la fine del capitalismo
possa comportare automaticamente la fine della crisi ecologica. Ma è solo con la
rottura dell’autonomia dell’economico, e quindi con la fine dei processi di
reificazione e feticismo che esso comporta, e con la realizzazione di un modo di
produzione progressivo, successivo a quello capitalistico, sottoposto al diretto
controllo dei lavoratori-produttori associati, che si può pensare di pianificare
uno sviluppo delle forze produttive ecologicamente sostenibile, che realizzi
l’equilibrio tra uomo e natura, garantendo la salvaguardia e la riproduzione
dello stesso genere umano.
In conclusione, se
confrontiamo il Programma Bioeconomico Minimo con il “Circolo virtuoso della
decrescita serena”, teorizzato da Latouche, ci rendiamo conto di come non solo
il filosofo francese ripeta sostanzialmente i punti del già di per sé debole
programma di Georgescu-Roegen, denotando la sua scarsa originalità quale
pensatore, ma di come egli lo depotenzi ulteriormente omettendo qualsiasi
riferimento alla riduzione della giornata lavorativa. Infatti, con i suoi 8
punti, Latouche propone di:
rivalutare un
insieme di valori (altruismo, collaborazione, localismo, ecc.);
riconcettualizzare
le nozioni di ricchezza/povertà, scarsità/abbondanza, ecc.;
ristrutturare
l’apparato produttivo in base ai nuovi valori;
ridistribuire le
ricchezze e il patrimonio naturale;
rilocalizzare la
produzione su scala locale;
ridurre l’impatto
sulla biosfera della produzione;
ridurre lo spreco
sfrenato;
riciclare i
rifiuti.
Questo programma,
noto come “il programma delle 8 R”, riassume il pensiero di Latouche, basato
sulla nozione della “Decrescita Felice”. Come già detto, esso è teoricamente
“incommensurabile” con il pensiero di Marx.
Nella concezione di
Marx l’Uomo e la Natura sono in un “rapporto di ricambio organico”. Operando con
il suo lavoro sulla Natura, l’Uomo cambia la Natura, che, a sua volta, cambia
l’Uomo (co-evoluzione). Questo condizionamento “bidirezionale” (circolare)
Uomo-Natura non è compatibile con la concezione “unidirezionale” (lineare)
propria del modo di produzione capitalistico, nel quale “la finalizzazione a
senso unico (esclusiva) della produzione al profitto” implica, di necessità,
assenza di condizionamenti sociali al saccheggio e al degrado della Natura e,
quindi, lo sfruttamento oltre ogni limite delle risorse naturali. La
co-evoluzione dell’Uomo con la Natura, postulata da Marx, è, evidentemente, il
presupposto necessario per un corretto pensiero ecologico. Ma una equilibrata
(organica) co-evoluzione Uomo-Natura nega l’autonomia dell’economico e pone
limiti sociali al profitto, che non sono compatibili con il modo di produzione
capitalistico. Una incompatibilità essenziale che è presente in Marx, ma che è
assente nel pensiero bioeconomico di Latouche.
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