pc 4 marzo - A Rignano il terrorismo dei padroni e istituzioni nazionali e regionali ha ucciso i due migranti
Una città invisibile nata attorno a un gruppo di vecchie masserie e costruzioni in lamiera, cartone e assi di legno. Il ‘Grande Ghetto’ è sorto nei campi tra San Severo, Rignano Garganico e Foggia quasi una ventina di anni fa, dopo lo sgombero di uno zuccherificio abbandonato, dove trovavano riparo molti braccianti stranieri sfruttati nei campi vicini. Mentre lo Stato si voltava dall’altra parte (ma non facevano lo stesso mafia e caporali) questo ‘non luogo‘ è diventato il più grande accampamento di migranti e lavoratori stagionali d’Italia. D’estate sono quasi tremila quelli ospitati in baracche dopo aver lavorato tutto il giorno con la schiena piegata a raccogliere pomodori. Per poche manciate di euro. Fra i tre e i quattro euro per ogni ora o per ogni cassone di raccolto riempito. Dopo anni di silenzio e poi di piani, proclami e appelli, due giorni fa è iniziato lo sgombero da parte delle forze dell’ordine disposto dalla Direzione distrettuale antimafia di Bari. Epilogo di indagini avviate un anno fa e culminate con il sequestro probatorio con facoltà d’uso della baraccopoli per presunte infiltrazioni della criminalità. La revoca da parte della Dda della facoltà d’uso ha dato l’avvio alle operazioni di sgombero. Alcuni dei 350 migranti che erano nell’accampamento, si sono rifiutati di lasciarlo e giovedì mattina duecento di loro hanno protestato davanti alla prefettura di Foggia. Tra le altre cose, hanno paura di essere tagliati fuori dal mercato nero. Poi l’incendio di giovedì notte, nel quale sono morti due migranti del Mali, ha riacceso i riflettori sulla baraccopoli. In questi anni, tra le costruzioni fatiscenti c’è stato anche altro. Da Emergency all’esperienza di Radio Ghetto. Nel frattempo, però, nulla si è mosso e le responsabilità sono tante. I caporali sono solo un tassello di un problema molto più complesso.
LA CITTÀ FANTASMA – La scorsa estate, dopo una visita all’accampamento, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando l’ha definito “una città fantasma”, “qualcosa di inaccettabile”. Ecco il luogo dove si guadagnano 3,50 euro a cassone e si pagano 40 euro per dormire in una baracca tutta la stagione. Dove l’elettricità è solo quella dei generatori a benzina. Se i migranti vogliono, ad esempio, ricaricare la batteria del cellulare, pagano 50 centesimi ai bar che ne sono forniti. Nel ‘Grande ghetto’ ci sono due tipi di acqua: quella non potabile che arriva dall’Acquedotto, utilizzata tramite dei rubinetti per lavare pentole e farsi la doccia fredda, e quella delle grosse cisterne portate nella baraccopoli dalla Regione, dopo le numerose denunce di problemi gastrointestinali che continuavano a colpire i migranti. Nel periodo estivo arrivano due o tre volte al giorno e sono insufficienti per tutte le necessità, mentre d’inverno l’alternativa è quella di riscaldare i bidoni
con l’acqua non potabile. Si pagano 50 centesimi per un secchio
d’acqua, che in realtà è la stessa (non potabile) con cui ci si fa la
doccia.
CAPO FREE-GHETTO OUT – Nell’aprile del 2014 l’ex governatore della Puglia Nichi Vendola presentò una delibera approvata dalla giunta sul ‘Piano di azione Rignano Garganico: capo free – ghetto out’. Ossia liberi dai caporali, fuori dal ghetto.
La delibera tracciava un programma per chiudere il campo entro il 1
luglio (del 2014) e sostituirlo con cinque strutture più piccole da 250
posti diffusi sul territorio, protetti dalle infiltrazioni del caporalato tramite un accordo con la Prefettura. L’idea era quella di prevedere contributi economici per le aziende che sceglievano i propri lavoratori da liste di prenotazione, spezzando la corda in mano ai caporali. Quell’estate, però, il ghetto era ancora lì. La stagione disastrosa per la raccolta non aveva certo spinto le aziende ad accedere alle liste, ma piuttosto a ricorrere ancora una volta al lavoro nero e a rendere i caporali sempre più forti.
ROGHI, MORTI E UN PIANO MAI FINANZIATO – Un anno dopo, nell’agosto del 2015, si tornò a parlare dell’accampamento, dopo la denuncia del coordinatore del dipartimento Immigrazione della Flai-Cgil Puglia, Yvan Sagnet che accusò i caporali di aver occultato il corpo di un bracciante di 30 anni, originario del Mali, morto “crollando all’interno di uno dei 57 cassoni di pomodori che aveva raccolto”. Su questo episodio non ci furono mai conferme. A maggio del 201, fu eletto governatore della Puglia Michele Emiliano che, a febbraio 2016, depositò alla Dda di Bari una denuncia per riduzione in schiavitù. Accade negli stessi giorni dell’ennesimo rogo, il più devastante. Dopo altri 4 o 5 episodi analoghi, infatti, divampò il 15 febbraio 2016: non ci furono feriti, ma 350 persone rimasero senza un riparo. Eppure il ghetto fu ricostruito in tempi record, seminando il sospetto che quella rapidità fosse dovuta all’infiltrazione mafiosa.
Cos’è accaduto da allora? A maggio 2016 è stato sottoscritto un Protocollo sperimentale contro il caporalato, mentre la Regione
ha ideato un piano da 5 milioni di euro per chiudere la baraccopoli,
utilizzando strutture di proprietà dell’Ente in alcuni comuni vicini.
Non se n’è fatto nulla a causa del mancato finanziamento da parte del Ministero dell’Interno. Il ghetto è rimasto lì ancora una volta e, a luglio dello scorso anno, un altro cittadino del Mali è morto nel corso di una rissa scoppiata nell’accampamento invisibile. Il 2 dicembre scorso si è verificato un altro incendio che ha interessato un centinaio di baracche, anche in quel caso senza feriti. Il 9 dicembre, invece, un rogo ha ucciso un migrante di 20 anni nel cosiddetto Ghetto dei bulgari, tra Borgo Tressanti e Borgo Mezzanone non lontano da Foggia. Giovedì notte, l’ennesimo incendio nel quale sono morti altri due migranti del Mali.
A ilfattoquotidiano.it il questore di Foggia, Piernicola Silvis, parla di una “città alternativa, una favela”, dove però i migranti “si sono raccolti per lavorare nei campi e non per delinquere”. Nel frattempo le operazioni per cercare di bonificarlo sono state difficili. “Bisogna assolutamente chiuderlo – spiega Silvis – perché ad oggi si rischia la sicurezza ogni giorno”. Le soluzioni alternative al ‘Gran ghetto’ sarebbero due strutture nei pressi di San Severo, ossia Casa Sankara e l’Arena, ma c’è molta resistenza. Dopo l’incendio di giovedì sera è intervenuta la federazione regionale dell’Usb Puglia:
“Queste sono le conclusioni tragiche di anni di assenza di politiche
del lavoro, in modo particolare sull’agricoltura e contro il caporalato”. Il problema, dunque, non è solo quello dell’accoglienza. Secondo l’Unione sindacale di Base “aver avviato lo sgombero del campo di Rignano senza coinvolgere i lavoratori che lo abitano è stato un atto di prepotenza istituzionale che non è possibile accettare”, mentre “gravissime sono le responsabilità del prefetto di Foggia” ed “enormi i ritardi della politica”.
L’ESPERIENZA DI RADIO GHETTO – Eppure in questi anni c’è chi il Ghetto l’ha visto con altri occhi. Nell’estate del 2012, su impulso della Rete Campagne in Lotta, è nata Radio Ghetto, che ogni anno avvia le sue trasmissioni proprio dalla ‘città invisibile’ durante i mesi estivi, quelli più difficili. Le trasmissioni sono curate anche dai braccianti africani, si discute sulle condizioni di vita nella baraccopoli, ma anche di questioni legate alla situazione dei migranti. Marco, attivista di Radio Ghetto, racconta a ilfattoquotidiano.it l’altro volto del Ghetto, dove se c’è un problema ci si rivolge alle persone più anziane
che, come in un villaggio africano, sono le autorità morali.
“Considerando la situazione in cui queste persone sono costrette a
vivere – spiega Marco – abbiamo trovato una grande capacità di organizzazione”. Ma quel luogo è molto cambiato nel corso del tempo. “Molti dimenticano che quello, prima di tutto, è un posto di lavoratori – continua – Sono quelli che già avevano lavorato nelle campagne negli anni Novanta e che poi erano entrati nelle fabbriche. Poi c’è stata la crisi, la chiusura delle aziende e molti di loro hanno dovuto rimandare indietro le famiglie e hanno ricominciato a vivere nelle campagne”. Tra il 2013 e il 2014, la questione migratoria
è esplosa, con conseguenze dirette anche sulla presenza di queste
persone nella baraccopoli. “Se si va al ghetto – continua Marco – si
sentono molti accenti del Nord, perché accanto al mondo dei richiedenti asilo, c’è quello dei giovani che sono al Nord per nove mesi l’anno e poi d’estate vengono a lavorare nelle campagne. Il ghetto è lo specchio della situazione che c’è in Italia e di una serie di fallimenti”. Perché i migranti non vogliono lasciare la baraccopoli? Hanno paura di non lavorare più nel mercato nero? “Tra qualche settimana si riparte con le liste di prenotazione (spesso pilotate) – spiega Marco – e sulla campagna di raccolta del pomodoro
ci sono in ballo milioni di euro. Non credo che cambierà nulla: non li
assumeranno con contratti di lavoro regolari solo perché non c’è più il ghetto. Sanno dove si trovano e li recluteranno di nuovo, ma è anche vero che queste persone non possono essere ammassate in strutture. Vanno affittate loro delle case, va loro ridata la dignità”.
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