Il 31 maggio "l'unità della Repubblica"
fondata sullo smantellamento dei diritti dei lavoratori,
sull'affossamento delle conquiste proletarie frutto di anni di lotte,
sulla beffa della loro stessa democrazia borghese, si è realizzata
con una rapida votazione trasversale sulla controriforma del Lavoro,
che ha il suo cuore politico/ideologico nell'attacco all'art.18.
Riportiamo
stralci del paragrafo dell'opuscolo "riforma del lavoro: analisi
del Ddl - incertezza e precarietà in engtrata, certezza in uscita"
(opuscolo che si può richiedere e ricevere via internet):
"...alla
fine si è creata la ‘Santa alleanza’ dal PD al PdL, con anche il
giudizio della Camusso che parla di soddisfazione perché nei
licenziamenti per ‘motivi economici’ è stata introdotta la
parola “reintegro”.
Al
di là che la vera cancellazione dell’art. 18 sta proprio nel
permettere i licenziamenti per ‘motivi economici’ –
successivamente vedremo quanto vasti e flessibili siano questi
‘motivi economici’ - su questa “vittoria” sul ‘reintegro’
basta sentire Monti per capire che rimarrà solo come ‘specchietto
per le allodole”. Monti definisce questa ipotesi: fattispecie non
molto rilevante, fattispecie molto estrema e improbabile; così come
basta sentire le reazioni isteriche della Marcegaglia e dell’intera
Confindustria per capire che mai e poi mai un lavoratore licenziato
rientrerà al lavoro (Marchionne insegna). Quindi Monti spiega la
filosofia di questa modifica dell'art. 18: “noi vogliamo con questa
riforma rafforzare il lavoratore superando l’idea di rapporto
proprietario con il suo posto di lavoro, quando la sua azienda non ha
più ragioni economiche per esistere”. Se non fosse tragico,
sarebbe da ridere: ora è il lavoratore che sarebbe “proprietario”
– di cosa? Della sua forza lavoro da sfruttare! Ora è l’azienda
che sarebbe vincolata alla volontà del lavoratore - ma non
scherziamo!
La
formulazione – mediatoria – trovata, poi, dice solo che il
giudice “può” stabilire, in caso di “manifesta insussistenza
del fatto a base del licenziamento, al posto dell’indennizzo, il
reintegro del lavoratore, non dice “deve”; l’insussistenza
viene fatta diventare un caso ultra raro, infatti in modo perverso si
introduce la paroletta “manifesta”, di cui tecnicamente non ci
sarebbe alcun bisogno, e che viene posta quasi come severo avviso
(stile mafioso) al giudice.
Nello
stesso tempo questo "può" è un'aberrazione giuridica: su
altri contenziosi, se ad una persona è stato tolto un diritto
illegalmente, la conseguenza naturale di una sentenza favorevole è
che quel diritto torni integro alla persona, non torna un diritto
dimezzato; per il licenziamento, invece, pur in caso in cui il
lavoratore ha ragione, non è automatico che riabbia il suo diritto
al posto di lavoro.
Ma
anche questa modifica che non cambia la sostanza è stata pagata ai
padroni, sia con concessioni sulla flessibilità in entrata, sia con
soldi veri e propri, riducendo le mensilità indennizzate a 12-24
mesi dalle originarie 15-27.
L’impugnazione
del licenziamento per ‘motivi economici’ davanti ad un giudice
deve prima passare dal tentativo di conciliazione davanti alla
Direzione territoriale del lavoro. Ma questo passaggio invece di
essere a favore del lavoratore per evitare le lungaggini processuali,
rischia di diventare una forte penalizzazione, perché sarà tenuto
in conto dal giudice l’atteggiamento assunto davanti alla DTL, e
nel caso fosse stato il lavoratore a “creare ostruzionismi o a
dimostrare insofferenza”, sarà ‘punito’, accollando a lui le
spese processuali e riducendogli l’indennità risarcitoria.
Ma
vediamo nel merito i ‘motivi economici’. Le condizioni per cui
può scattare il licenziamento per “motivi economici” sono tante
e tanto generiche da far stare tutti gli operai e i lavoratori
permanentemente sotto una “spada di Damocle”.
Infatti,
il licenziamento può scattare, a parte per crisi aziendale, per:
-
soppressione della mansione cui era addetto il lavoratore
– questo può non
centrare nulla con i problemi economici bensì rientrare nella
“normale” legge dei padroni di tagliare il costo del lavoro, per
es. accorpando mansioni;
-
cancellazione del reparto, della filiale, dell’ufficio in cui
lavora il dipendente da licenziare, anche se non viene soppressa la
sua mansione bensì viene redistribuita tra gli altri dipendenti
– anche in questo
caso la motivazione sta solo in un taglio del costo del lavoro
facendo lavorare di più gli operai che restano, quindi si tratta di
una riorganizzazione produttiva volta solo ad aumentare i profitti,
anche in mancanza di problemi economici;
-
introduzione di macchinari che fanno risparmiare sul lavoro
umano
– quindi altro che
“motivi economici”! Ma solo la classica e sempre attuale legge
del capitale di aumentare la produttività e i suoi profitti
riducendo l’occupazione, facendo, con l’introduzione di
macchinari, lavorare un operaio al posto di due/tre attraverso
aumento dei carichi, dei tempi di lavoro;
-
affidamento di servizi alle imprese esterne – se
non fosse tragico qui ci sarebbe da ridere: sempre più le grandi
aziende esternalizzano servizi ma non certo perchè in crisi, ma
unicamente per abbattere costi, per avere la stessa produzione senza
dover garantire salari, diritti;
-
chiusura dell’attività produttiva – salvo
poi andare a ritrovare all’estero la stessa ditta.
La
soppressione della mansione potrà poi essere usata in grandi
stabilimenti, come la Fiat, per licenziare tanti operai e operaie con
Ridotte Capacità Lavorative, diventati
tali proprio per come sono costretti a lavorare in fabbrica, pagando
in salute, invalidità; quindi se passa la modifica dell’art. 18
centinaia di operai e operaie già penalizzati, rischiano pure il
posto di lavoro.
E
non basta. E’ evidente che la formula, volutamente generica, di
“motivi economici”, è fatta apposta per mascherare licenziamenti
sindacali, licenziamenti politici, dove
di “economico” sta solo nel senso di difesa dei profitti
aziendali liberandosi della presenza di “teste calde” che
“pretendono” di difendere gli interessi operai.
Infine
questa sarà la nuova strada utilizzata dal padronato per effettuare
licenziamenti collettivi (che comunque devono rispettare una
procedura, dei criteri, ecc.) licenziando per ‘motivi economici’
uno ad uno i lavoratori “esuberi”.
Per
quanto riguarda gli altri licenziamenti, di fatto gli unici che
prevedono il reintegro sono quelli discriminatori. Anche per quelli
disciplinari, la riforma stabilisce sia l’indennizzo che il
reintegro, e il reintegro solo in tre casi: perché il fatto
contestato non sussiste, perché il lavoratore non lo ha commesso,
perché il fatto poteva essere punito con una sanzione conservativa.
Negli altri casi, anche se il licenziamento disciplinare è
illegittimo, c’è solo l’indennizzo.
Ma,
nel caso del reintegro, per ricompensare i padroni, il governo ha
fatto un taglio a loro favore stabilendo che non devono pagare tutte
le mensilità arretrate, ma solo massimo 12. E il taglio non finisce
qui, a queste 12 mensilità “andrà sottratto quanto il lavoratore
ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di
altre attività lavorative”, e (anche) – e in questo c’è tutto
un pervicace humus antilavoratore che non ha alcuna base reale –
“quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla
ricerca di una nuova occupazione”. Cioè il lavoratore, la
lavoratrice è stata licenziata illegittimamente, ma nel frattempo
doveva cercarsi un altro posto di lavoro… ?!...".
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