da il manifesto
"I paesi Ue saranno spinti a fare dure scelte sulla spesa". Il vicepremier Tajani dice che "Giorgetti è preoccupato dei conti pubblici, ma questo è un problema di sicurezza nazionale". La pagheranno i cittadin
Aumentare la spesa militare senza restare prigionieri del debito pubblico e degli interessi in più da pagare con i soldi presi della spesa sociale. Al netto dell’enfasi militarista sui «valori» dell’«Europa» che avvolge un’ampia parte della politica e dell’opinione pubblica italiana, è questa la contraddizione reale che il governo Meloni sta cercando di affrontare. Senza trovare molte soluzioni che possano essere prese seriamente in considerazione a Bruxelles dove si stanno decidendo i contenuti del «piano di riarmo» annunciato dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen.
Il discorso, e le repliche, che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni terrà oggi e domani al Senato e alla Camera in vista del Consiglio Ue saranno dominate dal retropensiero esplicitato dall’Ocse. Nell’aggiornamento dell’«Economic Survey» di marzo, l’organizzazione internazionale degli studi economici a Parigi ieri ha esplicitato il dilemma che ha portato sabato scorso il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti a contestare il «Riarm Eu». Per questa organizzazione neoliberale un’economia sovra-indebitata come quella italiana sarà costretta a fare «dure scelte sulla spesa» sociale. Fuori dal gergo allusivo usato in queste circostanze, il governo Meloni dovrà decidere di tagliare la spesa sociale molto di più dei 12 miliardi di euro imposti dal nuovo patto di stabilità entrato in vigore da gennaio e dalla procedura per deficit eccessivo intrapresa dalla Commissione Ue.
La spesa per i militari è già aumentata negli ultimi tempi. Solo in Italia quest’anno è arrivata a 32 miliardi di euro. E, con il «Rearm Europe», dovrà moltiplicarsi. La Commissione Ue ha accolto una proposta del governo Meloni e riconoscerà lo scorporo della spesa militare dal calcolo del deficit e del debito. Il problema però non è risolto. La deroga aumenterà le già notevoli disparità nella capacità di investimenti (non solo militari) che esistono tra i paesi europei. Prendiamo la Germania, il motore della proposta di riarmo, dove oggi si vota la riforma costituzionale che toglierà il tabù sull’aumento del debito pubblico in nome di una nuova economia di guerra. Berlino ha uno spazio di bilancio più che doppio rispetto a Roma. Con un debito pubblico al 63% si calcola che arriverà anche al 75 -80%. È in base a questa percentuale che sono stati ricavati gli «800 miliardi» che von der Leyen vuole spendere in quattro anni: 650 a carico del debito degli stati membri, 150 di prestiti da ripagare. Meloni & Co. devono gestire un debito pubblico da 135% sul Pil, in crescita. I 30 miliardi in più all’anno stimati, per quattro anni, aumenteranno questa montagna. E cresceranno anche gli interessi.
Nella sua lingua di legno ieri l’Ocse ha esposto chiaramente ciò che angoscia di più Giorgetti in queste ore. «I debiti pubblici già elevati potrebbero aumentare ulteriormente». L’Ocse raccomanda nuovi «sforzi per contenere la spesa e riallocarla in maniera studiata». Tuttavia ciò «potrebbe aumentare le pressioni fiscali a lungo termine». Meloni sarà costretta 1) ad aumentare le tasse (proprio lei che ha speso 10 miliardi all’anno per tagliare il cuneo fiscale con risultati irrisori sul calo del potere di acquisto); 2) tagliare il Welfare, compresa la sanità (una prospettiva esplicitamente esclusa da tutti i membri del governo e della maggioranza che sono intervenuti in questi giorni).
L’Ocse presuppone che l’aumento della spesa militare porterà a una «crescita economica nel breve termine». Ma questo è un altro problema. Oggi è nascosto dalla propaganda militarista che sostiene un’improbabile «conversione» delle fabbriche di automobili in crisi radicale in fabbriche di cannoni. Dovrebbe essere chiaro che se una crescita ci sarà, e sarà di «breve periodo», dovrà essere ripagata con un aumento della pressione fiscale «a lungo termine». Dunque, nemmeno l’aumento della spesa per la difesa sarà uno strumento utile per dare aria alla crescita asfittica. A questo proposito, l’Ocse ha rivisto al ribasso il Pil italiano per quest’anno (0,7%; 0,9% nel 2026).
I dazi di Trump potranno peggiorare questa situazione, facendo rimbalzare l’inflazione. «L’Italia – ha detto Alvaro Santos Pereira, capo economista Ocse – è un paese che esporta molto, sarà coinvolta se ci sarà protezionismo commerciale». In questa situazione senza uscita, è significativa la risposta data dal vicepremier Antonio Tajani al ministro Giorgetti: «Lui ha le sue sacrosante preoccupazioni sui conti pubblici, ma qui è in gioco la sicurezza nazionale». Saranno i cittadini a pagarla
lo abbiamo visto ieri al Consiglio Economia e Finanza (Ecofin) dove i ministri che si occupano della nascente economia di guerra hanno recepito con favore la proposta del governo Meloni: uno stanziamento di 16,7 miliardi presi dal fondo europeo InvestUe che dovrebbe generare un moltiplicatore fantasioso pari a 12 e arrivare a «tirare» fino a 200 miliardi di euro da spendere in carri armati ma anche per la «difesa» in senso largo: infrastrutture, polizie, tecnologie «dual-use» civili e militari sfigurando l’idea stessa di ricerca scientifica messa al servizio dei fabbricanti di cannoni.
Con quali soldi sarebbe finanziato questo Bengodi per le lobby armate? Per il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti con il risparmio privato con una garanzia, quella della Commissione europea. L’idea è, a suo modo, ingegnosa. Prenderebbe i soldi da un fondo europeo avanzato da un vecchio piano (Juncker, dal nome di un ex presidente della Commissione), non peserebbe sulle disastrate finanze italiane con debito record e un deficit cospicuo. Senza contare che l’idea è riconducibile nel rapporto sulla «competitività» di Draghi ed è stata evocata ieri nel discorso di guerra del colonnello von der Leyen, la presidente Ursula della Commissione Ue. Quest’ultima ha evocato uno dei fantasmi dell’Europa capitalista, quello dell’«Unione dei mercati dei capitali», oggi ribattezzata «Unione per il risparmio e gli investimenti». Quest’ultima sarebbe, in realtà, una parte per il tutto. Ma, visto che un mercato dei capitali unificati, è ancora un’idea sfocata bisogna accontentarsi. In fondo, la «nuova» Europa nasce dal Warfare, il regime del prepara la guerra per arricchire le industrie militari (anche degli Stati Uniti) e vendere la moneta del «sentirsi civili» in nome dei «valori».
A dimostrazione che non si butta via nulla, in fasi costituenti come quella che sta vivendo il giovane Warfare europeo, ieri il commissario Ue all’Economia Valdis Dombrovskis ha detto di apprezzare la proposta Giorgetti per poi smontarla alla luce di un dato di fatto. «C’è molto spazio per finanziamenti privati incluso ciò che può essere fatto attraverso programmi come Invest Eu e altri- ha detto Dombrovskis – Ma dobbiamo anche ricordare la specificità dell’industria della difesa, in larga misura guidata dalla domanda pubblica e dagli appalti pubblici. Quindi, la domanda dell’industria della difesa degli Stati membri sarà fondamentale».
È un modo per rimandare la palla nel campo dei governi come quello Meloni che, tempo 18 mesi, dovranno iniziare a spennare ancora i propri cittadini al fine di trovare dai 20 ai 30 miliardi di euro in più all’anno (la stima è per l’Italia) per finanziare il piano «Riarmare l’Europa». È questa prospettiva che ieri Giorgetti – e con lui i vicepremier Salvini e Tajani – sta cercando di evitare ricorrendo a una certa fantasia contabile e finanziaria.
Non si possono aumentare i denari per le armi e tagliare scuola e sanità, ha detto il ministro che ha firmato senza battere ciglio il nuovo patto di stabilità che ha imposto all’Italia, a partire da quest’anno, 12 miliardi di tagli alla spesa sociale. Se non si troverà un’alternativa, tra poco la Commissione Ue chiederà davvero agli Stati membri di trovare 650 miliardi di euro dai loro bilanci per finanziare la guerra nei prossimi 4 anni. L’Italia ha un problema enorme con una crescita agonizzante, una procedura di deficit eccessivo sulle spalle, un debito stratosferico e i prestiti a lunga scadenza per i miliardi che arriveranno da Bruxelles (i 150 miliardi contenuti negli 800 annunciati da von der Leyen). I soldi andranno trovati da qualche parte. Chi lo dice ai cittadini che vivono in uno Stato sociale taglieggiato dalla nuova austerità? Quella che i vari Giorgetti e Salvini, novelli difensori dello Stato sociale, fingono di ignorare. Invece è tutta farina del loro sacco. In questa contraddizione si sta attorcigliando il governo Meloni.
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