Anche l’ultimo studio dell’Inps conferma la differenza di trattamento delle donne che lavorano in Italia dalle “giovani lavoratrici alle pensionate” come riporta un articolo della Repubblica del 22 febbraio scorso, smentendo ancora una volta, con dati e con forza, la propaganda della Meloni gridata dai palchi elettorali, e non solo per la differenza salariale e delle pensioni, ma anche per il numero di donne al lavoro visto che tra disoccupate e inattive ci sono diversi milioni di donne disoccupate.
Per ciò che concerne il cosiddetto gender pay gap, e
cioè la differenza di paga, si arriva per quanto riguarda le pensioni a 40
miliardi!
“Nel 2022 sono stati erogati dall'Inps 322 miliardi in pensioni e prestazioni assistenziali. Alle donne sono andati 141 miliardi. Agli uomini 180 miliardi. Con una differenza di quasi 40 miliardi. Questo
nonostante, in media, le donne siano titolari di più di una pensione, come accade quando c'è la reversibilità. E sebbene le pensionate siano più numerose dei pensionati: 8,3 milioni contro 7,8. Le donne sono il 52% ma prendono il 44%.Le cause, secondo lo studio, ma che le donne vivono quotidianamente
sulla propria pelle, sono “le carriere intermittenti, spezzettate da esigenze
di maternità e cura. Contratti a termine e a part-time, scelto o per lo più
forzato. Ma anche una differenza strutturale nella retribuzione oraria tra uomo
e donna (segregazione orizzontale). Pure nella Pubblica Amministrazione. E
ovunque ai più alti livelli, quelli della dirigenza, a cui le donne arrivano in
poche (segregazione verticale).” Tutto questo finisce “Sul banco degli imputati”.
“Il gender gap inizia dal lavoro. – continua il
quotidiano - Sempre nel 2022, il divario di retribuzione annuale tra donna e
uomo nel settore privato era in media di 6 mila euro annui: 17.300 euro conto
24.500 euro all'anno, 97 euro contro 106 euro al giorno. Una differenza del 40%
che, pur calcolata come fa l'INPS a parità di condizioni (età, contratti, ore
lavorate), non si azzera mai e arriva a un 12-13% stabile.
Quasi la metà delle donne italiane lavora a part-time (47,7%)
contro meno di un quinto degli uomini (17,4%). Le giornate retribuite in un
anno alle donne sono 221 contro 234 degli uomini. E questo spiega molto dei
divari.”
E non si salva nemmeno il settore pubblico, dice il
giornalista, “considerato sicuro e al riparo da diseguaglianze. Invece no.” Perché:
“Il gap retributivo, seppur più basso del privato esiste: 5.200 euro all'anno,
15-20 euro al giorno: 28.400 euro contro 33.600 euro all'anno, 95 euro contro
114 euro al giorno. Il divario si viene a creare dal ricorso crescente nella Pa
di contratti brevi, soprattutto nella scuola e sanità, laddove la presenza
delle donne è rilevante. Anche il part-time, di sicuro meno presente che nel
privato, riguarda le donne il doppio degli uomini (6% contro 3%). Due terzi di
tutti i lavoratori pubblici sono donne.”
“Non c'è scampo neanche a casa. Il congedo parentale viene
chiesto per l'80% dalle donne. E il gap con i compagni è molto ampio, soprattutto
fino ai tre anni del figlio. I padri, quando lo chiedono, sono per lo più
lavoratori di grandi aziende e a tempo pieno. Mentre il 46% delle madri
richiedenti e a part-time. Donne penalizzate sul lavoro, in busta paga, a
casa e poi in pensione. Non un bel vedere.” Ma è chiaro che questo studio
si limita al salario diretto o differito (le pensioni) e non alle condizioni
di lavoro.
Perciò quando il quotidiano degli Agnelli mette “Sul banco degli imputati … le carriere intermittenti, spezzettate da esigenze di maternità e cura. Contratti a termine e a part-time, scelto o per lo più forzato” cerca di dare un quadro “asettico”, “oggettivo” dello stato delle cose, come se tutto questo non dipendesse dal sistema di sfruttamento capitalista-imperialista, un sistema che deve essere rovesciato da una rivoluzione politica e sociale.
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