domenica 24 maggio 2020

pc 24 maggio - IL "CAPITALISMO COGNITIVO" - UNA TEORIA SOSTENITRICE DEL CAPITALISMO - Uno scritto interessante

In questo breve scritto del 2007, sostengo che la scuola del 'capitalismo cognitivo' non solo abbandona il Marxismo, ma nel farlo diviene una strenua sostenitrice del capitalismo. In definitiva, i suoi esponenti più rappresentativi come Antonio Negri e Maurizio Lazzarato propagandano una visione altamente ideologica del capitalismo che è inconsistente con i loro obiettivi e gli interessi delle persone che si vorrebbero sostenere, ossia gli appartenenti alla classe lavoratrice. 

L’IDEOLOGIA DEI ‘SAPERI’ E GLI APOLOGETI DEL CAPITALISMO (COGNITIVO)
Francesco Macheda, 2008 - Università Politecnica delle Marche

I. Il contro-potere dei knowledge workers.
Il ‘Frammento sulle macchine’ contenuto in un’opera di Marx rappresenta l’appiglio radicale col quale gli aderenti alla scuola del capitalismo cognitivo, che vede in Antonio Negri il suo principale esponente, si sono proposti di aggiornare il pensiero marxista alla società occidentale odierna. Citando pedissequamente poche righe (1) e tralasciando il resto dell’imponente, e ben più completa, produzione dello scienziato di Treviri, essi giungono alla conclusione che la produzione di plusvalore – il valore della forza-lavoro non retribuita di cui il capitalista si appropria nel processo di produzione – non sarebbe relegata al mero orario lavorativo, ma si estenderebbe lungo tutta la giornata. Inoltre, poiché il controllo del e sul capitale è il prerequisito della produzione di plus-valore, la soggettività dei lavoratori, in quanto fonte di plusvalore, sarebbe plasmata durante l’intero arco della giornata. Da ciò, consegue che il plusvalore sarebbe prodotto ed espropriato nel momento in cui viene formata la soggettività del lavoratore, indipendentemente dalla coincidenza o meno con l’orario di lavoro propriamente detto (Lazzarato e Negri 1992).
L’estensione del tempo di lavoro fino a coprire l’intera esistenza dei lavoratori deriverebbe dal
mutamento del regime d’accumulazione, da fordista a post-fordista. Se il primo richiedeva una forza-lavoro direttamente applicabile ai mezzi di produzione, il secondo, invece, controllerebbe il processo produttivo e quindi dovrebbe essere in grado di prendere decisioni indipendenti assumendosi responsabilità, anche se sempre entro i confini specifici postigli dal ‘Capitale’. Stando così le cose, il processo lavorativo dipenderebbe sempre più dalla conoscenza dei lavoratori (oramai divenuti knowledge workers), formata principalmente al di fuori dell’orario lavorativo. Per questo, gli imprenditori avrebbero la necessità di organizzare e controllare i lavoratori non solo nel tempo di lavoro, ma anche e soprattutto nel tempo di non lavoro – al fine di permettere loro quell’ampiezza di (limitate) scelte e responsabilità.
Tuttavia, le qualità e la centralità delle facoltà cognitive dei lavoratori, applicate al modello di produzione “post-fordista”, schiuderebbe nuove opportunità. La soggettività dei lavoratori, infatti, oltre a costituire la fonte del profitto del capitalista, sarebbe al contempo all’origine della loro “auto-valorizzazione culturale”, facendo pertanto del lavoro una forza rivoluzionaria.
Scrivono Lazzarato e Negri (1992: 38) «La forza-lavoro diventa sociale e autonoma, capace di organizzare il suo proprio lavoro e le sue relazioni con l’azienda [...]. Il rapporto che questa nuova forza lavoro intrattiene con il capitale [...] è al di là dell’antagonismo, esso è alternativo, costitutivo di una realtà sociale differente. Nella società post-industriale, dove il general intellect è egemone, non c’è più posto per il concetto di “transizione”, ma soltanto per il concetto di “potere costituente”». Siamo, dunque, alla fondazione di un fantomatico soggetto costituente che, in totale autonomia e indipendentemente dai rapporti sociali esistenti, non stabilisce neppure una relazione antagonistica con essi.
Ma c’è di più: i knowledge workers dovrebbero essere anche creativi. Ciò varrebbe non solo per i lavoratori qualificati (skilled) ma anche per quelli meno qualificati (unskilled), per lo meno tendenzialmente. Per questi ultimi, tale capacità sarebbe «puramente virtuale [...] ancora indeterminata, ma essa compartecipa già a tutte le caratteristiche della soggettività produttiva post-industriale» (Ibid.).
In breve, secondo i teorici del lavoro immateriale la divisione sociale e tecnica del lavoro tenderebbero verso la creazione di lavori qualificati, trasformando il lavoro da lavoro diretto industriale a knowledge labour. Tale mutazione ricomprenderebbe la possibilità di un nuovo tipo di rapporto tra capitale e lavoro poiché quest’ultimo sarebbe in grado di usare la (limitata) creatività e cooperazione come un primo passo verso la riorganizzazione del general intellect, alternativo a quello del capitale. Anche in questo caso, si prendono a prestito frammenti del lessico di Marx, che definiva general intellect il sapere sociale diffuso che il Capitale valorizza per i suoi scopi, in particolare ai fini dello sviluppo tecnologico. Tuttavia, nelle società post-fordiste il general intellect non coinciderebbe più con il capitale fisso, ossia con il sapere rappreso nel sistema di macchine, ma farebbe tutt’uno con la cooperazione di una moltitudine di soggetti.

II. La rottura con il Marxismo.
Seguendo le linee di pensiero della scuola del capitalismo cognitivo, il primo errore emerge dalle inesattezze riguardanti la teoria marxiana del valore. Come noto, secondo tale teoria un oggetto costituisce un valore in conseguenza del lavoro in esso contenuto. La grandezza di tale valore, infatti, è determinata dal tempo di lavoro socialmente necessario per la produzione dell’oggetto stesso, mentre «il plusvalore, e rispettivamente il profitto, consiste […] nell’eccedenza della somma complessiva di lavoro incorporata nella merce rispetto alla quantità di lavoro pagato che la merce contiene» (Marx 1978, p. 68 Libro III). Ciò significa che se il valore è riconducibile al momento della produzione, anche il plusvalore deve necessariamente essere estorto nella sfera della produzione lavorativa. (2)
Come abbiamo visto, invece, i post-operaisti rigettano questo schema, cosicché il valore delle merci (tra cui quello della forza-lavoro), esula dal momento della loro produzione. Ciò significa che, se è vero che l’impegnarsi nello studio può servire a diventare lavoratori che concorrono a una maggior produzione oraria di valori d’uso, non è altrettanto vero che si è lavoratori produttivi quando si studia, in particolare perché non si producono né valori d’uso, né di scambio. Ad esempio, se l’operaio vero e proprio perde un braccio a causa di un incidente a fine turno, il lavoro di quella giornata si realizza comunque in merci di un certo valore di cui si appropria il capitalista. Ma se, dopo una giornata passata sui libri, lo studente dimentica tutto, vuol dire che ha arrecato un danno al capitalista? No, significa soltanto che lasocietà ha speso del lavoro inutilmente per farlo studiare, per riprodurlo come lavoratore cognitivo. Seguendo la logica degli intellettuali post-operaisti, potremmo anche voler dimostrare che alcune sostanze psicotrope possono aumentare la produttività del singolo lavoratore. Tuttavia, se il padrone fa entrare il loro consumo nelle spese necessarie al mantenimento del suddetto lavoratore, non per questo l’assunzione di tali sostanze psicotrope diviene lavoro produttivo di valore! (3)
La seconda stramberia della scuola cognitiva consiste nel fatto che il massimo grado di libertà alla base dell’instaurazione del contro-potere dei lavoratori cognitivi s’invererebbe in coincidenza della sua massima alienazione, ossia nel momento in cui il capitale sussume qualsiasi aspetto dell’esistenza umana al fine di una sua maggiore valorizzazione. Qui, la rottura con la scuola cui i post-operaisti pretendono di rifarsi – l’operaismo – è netta. Per gli studiosi dei Quaderni Rossi, infatti, la divisione sociale del lavoro tende a contrapporre in misura crescente le potenze intellettuali del processo di produzione ai lavoratori. In altri termini, i progressi della scienza e lo sviluppo tecnologico che avvengono all’interno del processo capitalistico di produzione rinforzano la dipendenza del lavoratore verso il capitale. Come scriveva Panzieri (1978: 55-56): «Le nuovi basi tecniche via via raggiunte nella produzione costituiscono per il capitalismo nuove possibilità di consolidamento del suo potere…La cooperazione – il rapporto reciproco fra i lavoratori – comincia soltanto nel processo lavorativo, ma nel processo lavorativo, i lavoratori hanno già cessato di appartenere a se stessi.
Entrando, sono incorporati nel capitale. Come cooperanti, sono essi stessi soltanto un modo particolare di esistenza del capitale». Un minimo di coerenza e continuità con l’operaismo, pertanto, vorrebbe che la soggettività del lavoratore incontrasse crescenti difficoltà a consolidare il proprio antagonismo da contrapporre al Capitale (ossia, il sistema economico, sociale e politico vigente) tanto più se, come loro stessi sostengono, nell’attuale fase post- fordista quest’ultimo metterebbe a valore qualsiasi attimo della sua vita. Ciononostante, lo stravolgimento della teoria del valore-lavoro e l’inconciliabilità con la scuola verso cui pretenderebbe di rifarsi (l’operaismo) sono gli aspetti meno gravi. La terza, e forse più drammatica, rottura con il marxismo riguarda il problema della produzione di conoscenza dei lavoratori sotto il capitalismo. A differenza di Karl Marx, degli operaisti e dei teorici del labour process, infatti, il de-skilling non sarebbe una tendenza insita allo sviluppo capitalistico. (4) Come noto, per questi ultimi la divisione sociale e tecnica del lavoro tende verso la polarizzazione dei compiti di concepimento e progettazione da un lato, e semplice esecuzione dall’altro. In aggiunta, le mansioni diventerebbero sempre più parcellizzate e quindi dequalificate. La dequalificazione delle mansioni e la polarizzazione dei compiti d’ideazione ed esecuzione non sono traiettorie accidentali, bensì due necessità proprie del modo di produzione capitalistico. Da una parte, se tale sistema poggia sul conflitto capitale-lavoro, sostanziato dall’antiteticità profitti-salari, la tendenza verso la dequalificazione professionale significa innanzitutto deprezzamento medio della manodopera. Ad esempio, se l’operaio studia per diventare lavoratore cognitivo e gli imprenditori richiedono un maggior numero di “lavoratori cognitivi”, ciò farà aumentare il prezzo medio della forza-lavoro. La dinamica domanda-offerta, quindi, farà sì che l’operaio istruito avrà la possibilità di vendersi meglio.
Questo è il motivo che ha spinto storicamente i capitalisti a semplificare le mansioni, rendendole facilmente apprendibili: perché il tempo di apprendimento è un costo (infatti, nel caso citato aumenta non solo il prezzo ma anche il valore della forza lavoro), che può essere conveniente solo per il singolo capitalista. Ma se è vero che l’apprendimento aumenta la produttività del lavoro poiché permette la possibilità di maneggiare macchine complesse, è pur vero che l’apprendimento generalizzato rende quella produttività oraria del lavoro produttività oraria media: un’ora di lavoro, rispetto alle altre ore di lavoro, torna a valere un’ora di lavoro.
Ne segue che come l’incremento dei costi di un macchinario può convenire al singolo capitalista fino a quando il suo impiego non è generalizzato, un incremento dei costi in termini di operai istruiti (divenuti oramai lavoratori cognitivi) può convenire al capitalista singolo. Tuttavia, a livello medio, questa spesa è un costo aggiuntivo che deve essere abbattuto.
D’altra parte, la polarizzazione dei compiti d’ideazione ed esecuzione significa controllo del (e sul) processo produttivo di una parte della società – quella che possiede i mezzi di produzione e dei suoi agenti – sull’altra. Al contempo, ciò si traduce nell’imposizione di ritmi di lavoro sempre più frenetici che favoriscono la massima estorsione di plus-valore relativo a cui spesso segue una maggiore richiesta di plus-lavoro assoluto, (5) dal momento che sono i rapporti di produzione che determinano i rapporti di forza tra le classi sociali da cui sorgono le sovrastrutture istituzionali, tra cui la regolamentazione dei rapporti lavorativi.

III. L’apologia del capitalismo.
Anche soprassedendo a queste critiche e concedendo una coerenza logica che non ha, il risultato pratico della speculazione post-operaista è quello di levare da sotto i piedi qualsiasi substrato oggettivo alla lotta dei lavoratori. Grazie all’aumento tendenziale della qualificazione della forza-lavoro, la società produrrebbe una quantità crescente di sapere (anzi, saperi) e quindi di plus-valore che, in ultima istanza, vanificherebbe qualsiasi tentativo di rivoluzionare il sistema da parte della classe lavoratrice. Detto altrimenti: il capitalismo tenderebbe verso una crescente incorporazione di conoscenza nella soggettività della forza-lavoro che sfocerebbe nell’aumento della ricchezza sociale. Il capitalismo rappresenterebbe, pertanto, un sistema razionale tendente alla crescita economica e alla creazione di una forza-lavoro sempre più qualificata piuttosto che, come in Marx, un sistema irrazionale tendente alla crisi – generata dalla contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti sociali di produzione – e alla dequalificazione e polarizzazione della forza-lavoro.
Nonostante il lavoro sia oppresso e sfruttato, esso sarebbe impiegato nella riproduzione di un sistema razionale, e quindi oppressione e sfruttamento diventano essi stessi razionali. A questo punto, Negri e i suoi seguaci obiettano che i lavoratori cognitivi potrebbero utilizzare la loro conoscenza e creatività come un contro-potere da anteporre al dominio del capitale. Ma giacché questa teoria postula un sistema tendente verso la crescita economica raggiunta grazie all’impiego di una forza-lavoro sempre più qualificata, la lotta dei lavoratori diventa sia irrazionale – perché mira a superare un sistema presumibilmente razionale – sia un atto di puro volontarismo – perché non è la manifestazione cosciente della tendenza oggettiva del sistema verso le crisi (dato che il sistema non tende verso le crisi).
La vera obiezione al post-operaismo non è tanto di allontanarsi dal marxismo (anche se la pretesa di interpretare Marx dalle poche pagine del cosiddetto ‘Frammento sulle macchine’ a fronte delle migliaia della sua produzione, è a dir poco un azzardo) quanto che, discostandosene, prende partito per il capitale, propagandandone una versione altamente ideologica e incoerente sia con i suoi stessi fini, sia con gli interessi della classe e dei soggetti che pretenderebbe di sostenere.

NOTE
1 Il passo ritualmente citato è questo: «Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande forma della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere misura del valore d’uso. Il plusvalore della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo» (Marx 1978: 41).

2 Nel Capitale – l’opera di cui i Grundrisse costituiscono solo un abbozzo, Marx è chiaro al riguardo: il fatto che «il valore creato durante una giornata dall’uso di essa (la forza-lavoro) superi […] il suo proprio valore giornaliero, è una fortuna particolare per il compratore, ma non è affatto un’ingiustizia verso il venditore» (p. 228 Libro I).

3 Anche le associazioni imprenditoriali confutano con forza tali teorie. Altrimenti, non si spiegherebbe perché esse continuino a imporre ritmi di lavoro crescenti e spingano per l’allungamento della giornata lavorativa.

4 Braverman (1974) approfondisce la tesi marxiana della degradazione del lavoro operaio e impiegatizio. Tuttavia, letture semplicistiche operate prevalentemente in ambito accademico non hanno colto il nocciolo della questione: degradazione del lavoro non significa semplificazione assoluta delle mansioni, bensì sempre maggiore distanza tra il processo d’ideazione ed esecuzione al fine di aumentare il controllo, e quindi il potere, del capitale sul lavoro.

5 Sia Basso (1998) sia l’Eurofound (2006), mostrano come dalla crisi del 1973 l’orario di lavoro abbia iniziato a risalire nonostante il contemporaneo aumento della produttività del lavoro. Usando una terminologia marxista, si direbbe che il capitale ha bisogno di estrarre maggiore plus-valore assoluto.

Nessun commento:

Posta un commento