giovedì 28 maggio 2020

pc 28 maggio - UN BREVE COMMENTO ALL'ARTICOLO DI ALAIN BADIOU "SULLA SITUAZIONE EPIDEMICA"

Diffuso in italiano dal blog “doppiozero.com” il 27 marzo 2020 
Di seguito è riportato l'articolo di Badiou integrale 

Il filosofo francese Alain Badiou, insieme a Slavoj Zizek è considerato un filosofo “neo-marxista”, termine impreciso, ma che denota come in assenza di una vera e propria scuola filosofica marxista contemporanea, due filosofi per quanto diversi non si vergognano e non rinnegano i grandi maestri del socialismo scientifico.

Nell’articolo che commentiamo, Badiou si cimenta con la questione attuale della pandemia del Covid-19, come già fatto in precedenza da esponenti di scienze esatte come “i due” Wallace, Liebman e Chaves. Il filosofo qui dà un contributo per fare chiarezza contro le idee dominanti ma anche per dissipare, almeno nelle sue intenzioni, la confusione circolante anche nei settori di opposizione.

In apertura d’articolo Badiou ridimensiona l’approccio catastrofista al fenomeno con motivazioni oggettive (l’esistenza nel passato recente di malattie e pandemie mortali come l’AIDS e la SARS di cui il Covid-19 è un’evoluzione) forse eccedendo leggermente in ciò e mettendo nel calderone
batteriologico anche le “diverse influenze”, spiegando tra le righe che tale atteggiamento deriva da quello che potremmo chiamare centralità del cosiddetto Occidente dato che il virus ha colpito all’inizio principalmente il “primo mondo”.

Badiou polemizza anche con compagni e “teorici” del movimento che strillano continuamente al “cambio di paradigma” e a “salti teorici nel vuoto” che dovremmo intraprendere - ad esempio a nostro avviso quei compagni che per poter giustificare la propria analisi da sempre non materialista sfoderano dal cilindro analisi che individuano la centralità di alcuni soggetti del proletariato (ma mai la classe operaia, per carità!); tra questi chi mette eccessiva enfasi sulla questione della “cura”, come fanno i postmodernisti e postmarxisti alla Toni Negri & co.

Rispetto all’articolo di Wallace e anche a quello del collettivo Chuang (pubblicato e commentato nel precedente speciale proletari comunisti), Badiou arricchisce l’analisi con un approccio descrittivo aggiungendo elementi d’analisi storica.

Uno dei meriti di questo articolo è di mettere bene in luce il ruolo dell’imperialismo in generale e delle contraddizioni inter-imperialistiche in particolare - anche se sarebbe più esatto parlare di “Stati imperialisti europei” piuttosto che di “Europa” rimandando ad un supposto polo imperialista europeo che non c’è, infatti anche all’interno dell’UE si sviluppano contraddizioni inter-imperialistiche tra alcuni paesi membri, che la crisi del Covid-19 ha messo maggiormente in risalto.

Condividiamo pienamente anche la riflessione sulle “nazionalizzazioni” in polemica con chi nel campo antagonista le invoca.
Quello su cui non siamo invece d’accordo nell’analisi fatta è la tendenza sottile a giustificare la borghesia nella gestione della crisi quando Badiou afferma che nessuno avrebbe potuto prevedere un’epidemia del genere, quando i governi di tutto il mondo erano stati messi al corrente dal mondo scientifico già da anni.
La stessa critica la muove anche ai movimenti, ed essa è in parte giusta e in parte sbagliata.

E’ giusto che i rivoluzionari si autocritichino per alcune carenze nella propria formazione collettiva che dovrebbe tendere sempre verso l’universale per poter meglio attrezzare il proprio quartier generale e affinare la propria visione strategica perché sia la più completa possibile, dato che chi aspira alla conquista del potere rappresenta oggettivamente un contropotere seppur “in potenza” - ma ciò dipende dallo stadio di sviluppo delle forze rivoluzionarie nei differenti contesti e paesi.

Sono inoltre molto interessanti le conclusioni circa tutte le illusioni riformiste progressiste della piccola borghesia su eventuali “alternative” a Macron e mette in guardia sul pericolo reale.

Risulta invece ambigua la riflessione finale circa il ripensare le forme politiche organizzative e il Comunismo.
Noi affermiamo che bisogna riappropriarsi del marxismo e dell’analisi marxiana, ma anche degli avanzamenti e applicazioni pratiche e storich del proletariato, ovvero le esperienze concrete della Comune di Parigi, della Rivoluzione Sovietica e di quella cinese sfociata nel massimo sviluppo raggiunto finora dal proletariato: la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria.
Quello che sottolineiamo è invece l’importanza della sconfitta marxianamente intesa. Negli scritti storici Marx rappresenta la sconfitta del proletariato francese come un passaggio storico-dialettico necessario per gettare le basi della vittoria, per distruggerne i falsi miti, concezioni e rappresentazioni che il proletariato stesso autoriproduce meccanicamente nel suo percorso rivoluzionario.
In modo analogo Lenin legge la sconfitta della rivoluzione del 1905 e Mao esplicitamente afferma “lottare, fallire, lottare ancora, fallire ancora, lottare ancora, fallire ancora, fino alla vittoria; questa è la logica del popolo…”.
Quindi in tal senso le sconfitte del proletariato sono le migliori lezioni. Le grandi sconfitte storiche delle esperienze statali socialiste forniscono al proletariato e ai popoli che lottano oggi per il potere, la migliore arma contro i revisionisti e gli apologeti del capitale dimostrando che non esiste “la fine della storia” ma che essa debba andare avanti e che una nuova Storia possa nascere solo dalla Rivoluzione proletaria.

A questa riflessione se ne lega necessariamente un’altra, e riguarda ciò che Badiou chiama vagamente il “progresso transnazionale di una terza tappa del comunismo”: ciò, diciamo noi, è tuttora in corso, seppur in forme embrionali, nelle attuali rivoluzioni in corso in India e Filippine: le Guerre Popolari dirette dal Partito Comunista dell’India (Maoista) e dal Partito Comunista delle Filippine, nonché le lotte armate che si collocano nello stesso solco in Turchia, Perù, Bangladesh, Manipur, e altri tentativi in America Latina che hanno come riferimento il marxismo-leninismo-maoismo.

L’unica “terza tappa” di cui è possibile oggi parlare è proprio il maoismo come attuale sviluppo del marxismo che oggi non può che essere sinonimo di marxismo-leninismo-maoismo proprio grazie alle esperienze storiche statuali del proletariato ricordate prima. In particolare GRCP è stata la forma più avanzata in cui il proletariato in uno Stato socialista si è posto il problema di come avviare l’estinzione dello Stato stesso e continuare a marciare verso il Comunismo, tenendo conto della continuazione delle classi nel socialismo (lottare contro la graduale degenerazione del partito verso il revisionismo e degli iniziali tentativi di restaurare lo Stato capitalista) ma muovendosi soprattutto in una grande contraddizione internazionale: la non affermazione totale, ma solo parziale della rivoluzione socialista nel mondo.

Ma tornando alle riflessioni inerenti alla fase pandemica attuale, per quanto ci riguarda, “approfittare dell’intermezzo epidemico” significa sviluppare il piano di lavoro politico rivoluzionario in base alla fase concreta che stiamo attraversando, combinare la lotta economica e politica, fornendo gli strumenti al proletariato e alle masse per resistere alla gestione della crisi della classe dominante, per opporsi alla deriva moderno fascista dello Stato borghese e allo stesso tempo lavorare per il suo rovesciamento, riappropriarci della bussola: l’analisi marxiana del capitale.

EM

Riportiamo l’articolo integralmente:

"Sulla situazione epidemica"

Ho sempre pensato che la situazione attuale, segnata da una pandemia virale, non avesse nulla di eccezionale. Sin dalla pandemia (anch’essa virale) di AIDS – passando per l’influenza aviaria, il virus Ebola, il virus Sars 1, per non parlare delle diverse influenze, nonché del ritorno del morbillo o delle tubercolosi che gli antibiotici non guariscono più –, sappiamo che il mercato mondiale, combinato all’esistenza di vaste zone sottomedicalizzate e all’insufficienza di una disciplina mondiale in termini di vaccinazioni necessarie, produce inevitabilmente delle epidemie gravi e devastanti (nel caso dell’AIDS, parliamo di diversi milioni di morti). A parte il fatto che la situazione della pandemia attuale stia colpendo, questa volta su vasta scala, l’alquanto confortevole mondo detto occidentale – fatto di per sé privo di qualsiasi significato innovativo e che ha piuttosto dato luogo a deplorazioni sospette e sciocchezze rivoltanti sui social network –, al di là delle misure di protezione evidenti e del tempo che ci metterà il virus a scomparire in assenza di nuovi bersagli, non vedo perché si debba perdere la calma. Del resto, il vero nome dell’epidemia corrente dovrebbe mostrare come essa rientri in qualche modo nel “niente di nuovo sotto il cielo contemporaneo”. Questo vero nome è SARS 2, ossia “Severe Acute Respiratory Syndrom 2”; nominativo che sancisce così un’identificazione “in un secondo tempo”, dopo l’epidemia di SARS 1, che si era diffusa nel mondo nella primavera del 2003. Tale malattia era stata denominata all’epoca “la prima malattia sconosciuta del xxi secolo”. Dunque, è chiaro come l’epidemia attuale non costituisca in alcun modo l’insorgenza di qualcosa di radicalmente nuovo o inaudito. Essa è la seconda del secolo nel suo genere ed è situabile nella sua filiazione. A un punto tale che l’unica critica seria indirizzata, oggi, in maniera predittiva, alle autorità è quella di non avere sostenuto seriamente, dopo la Sars 1, la ricerca che avrebbe messo a disposizione del mondo medico veri e propri strumenti operativi contro la Sars 2.

Non ho visto, pertanto, nient’altro da fare che provare, come chiunque altro, a sequestrarmi a casa mia e nient’altro da dire che esortare chiunque altro a fare lo stesso. Rispettare su questo punto una rigorosa disciplina è tanto più necessario in quanto essa costituisce un sostegno e una protezione fondamentale per quanti sono più esposti. Tutti gli operatori sanitari, certamente, che si trovano direttamente in prima linea e che devono poter contare su una solida disciplina, comprese le persone infette. Ma anche le più deboli, come le persone anziane, soprattutto quelle negli EPAD [NdT: Con ogni probabilità, Badiou si riferisce agli EHPAD, Établissements d’Hébergement pour Personnes Agées Dépendantes]. Oppure, tutti coloro che vanno al lavoro e corrono così il rischio di un contagio. Questa disciplina di coloro che possono obbedire all’imperativo di “restare a casa” deve anche trovare e proporre i mezzi affinché chi ha poco o nessun “a casa” possa nondimeno trovare un rifugio sicuro. Qui si può pensare a una requisizione generale degli hotel.  

Tali doveri sono, è vero, sempre più impellenti, ma non comportano, almeno a un primo esame, grandi sforzi d’analisi o la costituzione di un pensiero nuovo. [sottolineatura nostra n.d.a.]

 Ma ecco che, davvero, leggo e ascolto troppe cose, compreso all’interno del mio entourage, che mi sconcertano per la confusione che dimostrano e per la loro inadeguatezza totale alla situazione – in realtà semplice – nella quale ci troviamo.

 Queste dichiarazioni perentorie, questi appelli patetici, queste accuse enfatiche, sono di specie differenti, ma hanno tutte in comune un curioso disprezzo della spaventosa semplicità e dell’assenza di verità dell’attuale situazione epidemica. O sono inutilmente servili rispetto ai poteri, che in effetti fanno solamente ciò a cui sono costretti dalla natura del fenomeno [ci viene in mente l’applicazione acritica del “io resto a casa” anche tra i settori di compagni n.d.a.]. O chiamano in causa il Pianeta e la sua mistica, il che non ci aiuta in alcun modo [pensiamo a sette e a idealisti vari come ecologisti tout court e animalisti n.d.a.]. O danno la colpa di tutto al povero Macron, che fa solamente – e non peggio di un altro – il suo lavoro di capo di Stato in tempo di guerra o di epidemia. O gridano all’evento fondante di una rivoluzione inaudita, che non vediamo quale rapporto potrebbe intrattenere con lo sterminio di un virus, per affrontare il quale, peraltro, i nostri “rivoluzionari” non posseggono nessun nuovo strumento.  O sprofondano in un pessimismo da fine del mondo. O si esasperano a tal punto che il “prima io”, regola d’oro dell’ideologia contemporanea, non è, in questa circostanza, di alcun interesse, di alcun soccorso, e può anche apparire complice di una continuazione indefinita del male.
Si direbbe che la prova epidemica dissolve ovunque l’attività intrinseca della Ragione e obbliga i soggetti a ritornare ai tristi effetti – misticismo, narrazioni, preghiere, profezie e maledizioni – a cui il Medioevo era abituato quando la peste ripuliva i territori.

Di conseguenza, mi sento un po’ obbligato a mettere insieme alcune idee semplici. Direi volentieri cartesiane.
Conveniamo, per cominciare, di definire il problema, peraltro così mal definito e, dunque, così mal trattato.
Un’epidemia è complessa in quanto costituisce sempre un punto di articolazione tra determinazioni naturali e determinazioni sociali. La sua analisi completa è trasversale: bisogna cogliere i punti in cui le due determinazioni si incrociano e trarne le conseguenze.
Per esempio, il punto iniziale dell’attuale epidemia si situa, molto probabilmente, sui mercati nella provincia di Wuhan [NdT: In realtà, Wuhan non è una provincia, ma una città sub-provinciale della Cina, capoluogo e città più popolosa della provincia di Hubei]. I mercati cinesi sono noti, ancora oggi, per la loro pericolosa sporcizia e per il loro gusto inarrestabile per la vendita all’aria aperta di ogni genere di animale vivente accatastato. È da lì che il virus si è trovato, a un certo punto, in una forma animale a sua volta ereditata dai pipistrelli, in un ambiente popolare molto denso e con un’igiene rudimentale.

La spinta naturale del virus da una specie all’altra transita così verso la specie umana. In che modo, esattamente? Ancora non lo sappiamo e solo le procedure scientifiche ce lo diranno. Stigmatizziamo, per inciso, tutti coloro che lanciano, dalle reti Internet, favole tipicamente razziste corroborate da immagini manipolate, secondo le quali tutto sarebbe scaturito dal fatto che i Cinesi mangerebbero pipistrelli quasi vivi...

Questo transito locale tra specie animali fino ad arrivare all’uomo costituisce il punto d’origine di tutta la faccenda. Solo allora entra in gioco un fatto fondamentale del mondo contemporaneo: l’accesso del capitalismo di Stato a un rango imperiale, vale a dire una presenza intensa e universale sul mercato mondiale. Da qui, innumerevoli reti di diffusione, prima che, chiaramente, il governo cinese fosse in grado di confinare totalmente il punto d’origine – di fatto, una provincia intera, quaranta milioni di persone –, cosa che alla fine riuscirà a fare con successo, ma troppo tardi affinché all’epidemia fosse impedito di diffondersi per le vie – gli aerei, le navi – dell’esistenza mondiale.

Un dettaglio rivelatore di ciò che definisco la doppia articolazione di un’epidemia: oggi, Sars 2 è arginata a Wuhan, ma vi sono numerosi casi a Shangai, dovuti prevalentemente a persone, cinesi in generale, provenienti dall’estero. La Cina è, pertanto, un luogo in cui si osserva l’annodamento, per una ragione arcaica, e poi moderna, tra un crocevia natura-società su mercati maltenuti, di forma antica, causa della comparsa dell’infezione, e una diffusione planetaria di questo punto d’origine, trasportata, essa, dal mercato mondiale capitalista e dai suoi spostamenti, tanto rapidi quanto incessanti.

Dopo di che, si entra nella tappa in cui gli Stati cercano, localmente, di arginare questa diffusione. Notiamo, per inciso, che questa determinazione rimane fondamentalmente locale, mentre l’epidemia, essa, è trasversale. Nonostante l’esistenza di alcune autorità transnazionali, è evidente che sono gli Stati borghesi locali a essere sulla breccia.

Siamo qui di fronte a una delle contraddizioni principali del mondo contemporaneo: l’economia, compreso il processo di produzione di massa di manifattura, rappresenta un mercato globale. Sappiamo che la semplice fabbricazione di un telefono cellulare mobilita manodopera e risorse, anche minerarie, in almeno sette stati diversi. Ma d’altra parte, i poteri politici rimangono essenzialmente nazionali. E la rivalità degli imperialismi, vecchi (Europa e USA) e nuovi (Cina, Giappone...), proibisce qualsiasi processo di uno Stato capitalista mondiale. L’epidemia è anche un momento in cui questa contraddizione tra economia e politica è flagrante. Perfino i paesi europei non riescono ad adeguare per tempo le loro politiche nei confronti del virus.

In preda a questa contraddizione, gli stessi Stati nazionali cercano di affrontare la situazione epidemica rispettando il più possibile i meccanismi del Capitale, anche se la natura del rischio li obbliga a modificare lo stile e gli atti del potere.

È noto da tempo che in caso di guerra tra i Paesi, lo Stato deve imporre notevoli vincoli, non solo ovviamente alle masse popolari, ma anche ai borghesi stessi, per salvare il capitalismo locale. Delle industrie possono venir quasi nazionalizzate a vantaggio di una sfrenata produzione di armi che, sul momento, non produce alcun valore aggiunto monetizzabile. Molti borghesi vengono mobilitati come ufficiali ed esposti alla morte. Gli scienziati cercano notte e giorno di inventare nuove armi. Molti intellettuali e artisti sono tenuti ad alimentare la propaganda nazionale, etc. 

Di fronte a un’epidemia, questo tipo di riflesso statale è inevitabile. Ecco perché, contrariamente a quanto si dice, le dichiarazioni di Macron o Philippe sullo Stato che improvvisamente torna a essere “provvidenza”, sulla spesa per sostenere le persone senza lavoro, o i lavoratori autonomi i cui negozi vengono chiusi, impegnando cento o duecento miliardi di denaro dello Stato, l’annuncio stesso delle “nazionalizzazioni”: tutto questo non è né sorprendente, né paradossale. Ne consegue che la metafora di Macron, “siamo in guerra”, è corretta: guerra o epidemia, lo Stato è costretto, a volte spingendosi oltre il normale gioco della sua natura di classe, a mettere in atto pratiche al contempo più autoritarie e più globali nel loro intento, per evitare una catastrofe strategica.

Questa è una conseguenza perfettamente logica della situazione, il cui scopo è quello di arginare l’epidemia – vincere la guerra, per usare la metafora di Macron – nel modo più sicuro possibile, pur rimanendo all’interno dell’ordine sociale stabilito. Non è affatto una commedia, è una necessità imposta dal diffondersi di un processo mortale che incrocia la natura (da qui il ruolo eminente degli scienziati in questa materia) e l’ordine sociale (da qui l’intervento autoritario, e non può essere altrimenti, dello Stato). 

Che in questo sforzo appaiano grandi carenze è inevitabile. Così la mancanza di maschere protettive o l’impreparazione rispetto all’entità del ricovero in ospedale. Ma chi può davvero vantarsi di aver “previsto” questo genere di cose? Per alcuni aspetti, lo Stato non aveva previsto la situazione attuale, è vero. Si può addirittura dire che, avendo indebolito per decenni il sistema sanitario nazionale, anzi tutti i settori dello Stato che erano al servizio dell'interesse generale, esso abbia piuttosto agito come se nulla di simile a una pandemia devastante potesse colpire il nostro Paese. Cosa di cui è pienamente colpevole non solo nella sua versione Macron, ma in quella di tutti coloro che lo hanno preceduto per almeno trent’anni.

Ma è comunque corretto affermare qui che nessun altro aveva previsto, o addirittura immaginato, lo sviluppo in Francia di una pandemia di questo tipo, tranne forse qualche scienziato isolato. Molti probabilmente pensavano che questo tipo di scenario si addicesse all’Africa tenebrosa o alla Cina totalitaria, ma non all’Europa democratica. E non sono certo i gauchiste – o i Gilets Jaunes, o anche i sindacalisti – ad avere un particolare diritto di perdersi in discorsi di qualche tipo su questo punto, e di continuare a fare clamore per Macron, da sempre bersaglio del loro scherno. Anche loro non hanno considerato assolutamente nulla del genere. Al contrario: con l’epidemia già in atto in Cina, hanno moltiplicato, fino a poco tempo fa, raggruppamenti incontrollati e chiassose manifestazioni, che dovrebbero ora impedirgli, chiunque essi siano, di sfilare di fronte ai ritardi delle autorità nel prendere le misure di quanto stava accadendo. In realtà, nessuna forza politica, in Francia, ha davvero preso questo provvedimento prima dello Stato macroniano.

Da parte sua, la situazione è tale per cui lo Stato borghese deve far prevalere, esplicitamente e pubblicamente, interessi più generali di quelli della sola borghesia, pur preservando strategicamente, per il futuro, il primato degli interessi di classe di cui questo Stato rappresenta la forma generale. In altre parole, la congiuntura fa sì che lo Stato possa gestire la situazione solo integrando gli interessi della classe, di cui è il procuratore, a degli interessi più generali – e questo a causa dell'esistenza interna di un “nemico” a sua volta generale, il quale può essere, in tempo di guerra, l’invasore straniero, e che è, nella situazione attuale, il virus Sars 2.

Questo tipo di situazione (guerra mondiale, o epidemia globale) è particolarmente “neutra” sul piano politico. Le guerre del passato hanno provocato la rivoluzione solo in due casi, per così dire eccentrici rispetto a quelle che erano le potenze imperiali: la Russia e la Cina. Nel caso della Russia, ciò fu dovuto al fatto che la potenza zarista era, a tutti gli effetti e per molto tempo, in ritardo, anche come potenza eventualmente adeguata alla nascita di un autentico capitalismo in quell’immenso paese. D’altra parte, con i bolscevichi, esisteva un’avanguardia politica moderna, fortemente strutturata da leader di rilievo. Nel caso della Cina, la guerra rivoluzionaria interna ha preceduto la guerra mondiale, e il Partito comunista era già, nel 1940, alla testa di un esercito popolare che aveva dimostrato il suo valore. Al contrario, in nessuna delle potenze occidentali la guerra ha portato a una rivoluzione vittoriosa. Anche nel paese sconfitto nel 1918, la Germania, l’insurrezione spartachista fu rapidamente schiacciata.

La lezione di tutto questo è chiara: l’attuale epidemia non avrà, in quanto tale, in quanto epidemia, conseguenze politiche rilevanti in un paese come la Francia. Anche supponendo che la nostra borghesia pensi, di fronte al sorgere di lamentele informi e di slogan incoerenti ma diffusi, che sia giunto il momento di sbarazzarsi di Macron, ciò non rappresenterà assolutamente un cambiamento degno di nota. I candidati “politicamente corretti” sono già dietro le quinte, così come i fautori delle forme più ammuffite di un “nazionalismo” obsoleto e ripugnante.

Quanto a noi, che desideriamo un cambiamento reale nei dati politici di questo Paese, dobbiamo approfittare dell’intermezzo epidemico, e persino del – necessario – confinamento, per lavorare a delle nuove figure della politica, al progetto di luoghi politici nuovi e al progresso transnazionale di una terza tappa del comunismo dopo quella, brillante, della sua invenzione e quella interessante, ma infine sconfitta, della sua sperimentazione statale.

Bisognerà altresì passare per una critica serrata dell’idea per cui dei fenomeni come un’epidemia aprano di per sé stessi ad alcunché di politicamente innovativo. Oltre alla trasmissione generale di dati scientifici sull’epidemia, solamente delle nuove affermazioni e convinzioni su ospedali e sanità pubblica, scuole e istruzione egualitaria, assistenza agli anziani e altre questioni simili manterranno la loro forza politica. Sono le sole che potranno eventualmente essere collegate a un bilancio delle pericolose debolezze messe in luce dalla situazione attuale.

Per inciso, si evidenzierà coraggiosamente, pubblicamente, che i cosiddetti “social network” – oltre a ingrassare i più grandi miliardari del momento – dimostrano ancora una volta di essere prima di tutto un luogo dove si diffondono sfacciate paralisi mentali, voci indiscriminate, la scoperta di “novità” antidiluviane, quando non un oscurantismo fascistizzante.

Diamo credito, anche e soprattutto mentre siamo confinati, solo alle verità controllabili della scienza e alle prospettive fondate di una nuova politica, delle sue sperimentazioni localizzate e del suo obiettivo strategico.

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