Nella
notte del 14 giugno 2008. Giuseppe Uva viene arrestato, nel centro
storico di Varese, con un amico, ubriaco, sta facendo schiamazzi e
spostando delle transenne in mezzo alla strada. Intralcio al decoro. Di
quell’arresto non c’è verbale, un sequestro annunciata dalla frase di
due dei carabinieri che effettuano il “fermo” dicendo “proprio te stavo
cercando questa non te la faccio passare”. Preparano la vendetta contro
un personaggio fuori dalle righe, un rompiballe, che, in più, si vanta
di avere una storia con la moglie di un carabiniere. In caserma l’amico
fermato con Giuseppe lo sento urlare, chiama l’ambulanza “lo stanno
massacrando”, i carabinieri levano i cellulari e rassicurano i medici,
non sta succedendo niente. Alle 4 li richiamano per un TSO. La mattina
Giuseppe muore in ospedale.
Nonostante
il corpo sia pieno di ferite il PM non vuole nemmeno procedere, si
rifiuta di indagare sul come e perché è morto Giuseppe Uva. Soltanto
grazie a una lunga battaglia per chiedere verità e giustizia della
famiglia la storia non finisce nel dimenticatoio degli abusi di
polizia. Il processo comunque non va molto lontano, il giudice non ne
vuole sapere, tutti assolti gli “angeli in divisa”.
Ieri,
a sorpresa, c’è stato invece un importante ribaltamento dell’andamento
processuale. Durante l’appello il procuratore capo di Milano ha deciso
di procedere per omicidio preterintenzionale e sequestro di persona
aggravato chiedendo 13 anni di reclusione per i due carabinieri che
effettuarono il fermo, i CC Stefano Dal Bosco e Paolo Righetto, e 10
anni e 6 mesi per i sei agenti di polizia.
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