Un contributo
da infoaut
Padova,
ore 7.50 di domenica 13 aprile 2018, a causa del cedimento strutturale
del gancio di un carroponte un enorme siviera (contenitore) crolla a
terra, con il suo carico di acciaio fuso.
Quattro
operai: Marian Bratu e Sergio Todita delle Acciaierie e due lavoratori
della ditta in appalto Hayama Tech, Simone Vivian e Davide Natale,
vengono investiti in pieno dalla colata, 3 di loro lottano ora tra la
vita e la morte, mentre il quarto è ricoverato all' ospedale S.Antonio
con ustioni sul 70% del corpo.
1350
morti nel 2017, 255 da gennaio 2018 sono i numeri dei decessi sui
luoghi di lavoro nel nostro paese, nonostante il gran ciarlare di
“industria 4.0” o “gig economy” di produzione si continua a crepare e i
diritti dei lavoratori sono diventati argomenti obsoleti, sono un
ostacolo per le imprese, le società, le multinazionali.
Prima
di tutto è fondamentale ribadire che, sebbene le cronache parlino di
“tragiche fatalità”, le responsabilità di questa catena, ininterrotta,
di morti sono politiche e padronali. Politiche perché a
determinare il peggioramento delle condizioni di lavoro, è, in primis, la ricattabilità favorita dall'abolizione dell' Articolo 18 che ha dato piena libertà di licenziamento alle aziende obbligando i lavoratori ad accettare condizioni al limite della sopportazione fisica, come nel caso delle Acciaierie Venete, dove la produzione avviene a ciclo continuo 7 giorni su 7, 24 ore su 24.
determinare il peggioramento delle condizioni di lavoro, è, in primis, la ricattabilità favorita dall'abolizione dell' Articolo 18 che ha dato piena libertà di licenziamento alle aziende obbligando i lavoratori ad accettare condizioni al limite della sopportazione fisica, come nel caso delle Acciaierie Venete, dove la produzione avviene a ciclo continuo 7 giorni su 7, 24 ore su 24.
Padronali
perché dovute anche alla scarsissima applicazione delle norme
antinfortunistiche, all’assenza di consapevolezza dei rischi dei
lavoratori, a causa di una mancata attività di prevenzione da parte dei
“datori di lavoro”, della superficialità degli addetti ai controlli (o
alla loro completa inesistenza), senza contare le ritorsioni padronali
contro chi denuncia la scarsa sicurezza in fabbrica, come avvenuto alla
fonderia SACAL, di Carisio (Vercelli), dove un lavoratore è stato
licenziato a causa della sua attività sindacale in relazione ad alcune
dichiarazioni rilasciate alla stampa proprio sul versante della
prevenzione infortunistica a seguito di un grave incidente avvenuto
all’interno della azienda.
A tutto
questo si deve aggiungere l'aumento dell'età pensionabile. Salute
malferma, acciacchi, male alle gambe e alle braccia, riflessi poco
pronti in un'età avanzata, sono alla base dei 104 incidenti mortali
avvenuti nel 2017 nel settore edile dove si conta il maggior numero di
lavoratori inetà avanzata (dai 55 a oltre i 64 anni) , come riportato
dai dati dell' INAIL per il 2017. Va ricordato infatti che tanti di
coloro che, con la crisi, hanno perduto il lavoro e non sono riusciti a
trovarne un altro, rimanendo senza stipendio o pensione, sono costretti
ora a svolgere anche le mansioni più pericolose.
Ma
facciamo attenzione, perché non tutti i morti sul (di) lavoro “fanno
notizia”, se infatti osserviamo bene i dati statistici relativi ai
casi di infortuni mortali divisi per nazionalità possiamo vedere come
fra i lavoratori stranieri i casi di infortunio mortale siano molto più
bassi rispetto ai lavoratori italiani. Ciò è dovuto alla condizione di
totale invisibilità di questi lavoratori impiegati senza
regolarizzazione, in particolar modo nel settore agricolo e quello
edile, alla totale mancanza di una copertura assicurativa e alle mancate
denunce di infortunio da parte delle aziende che li sfruttano. Gli
immigrati sono vittime due volte della mancanza di sicurezza sul lavoro:
non solo perché si infortunano il 50% in più degli altri lavoratori, ma
anche perché spesso non possono denunciare l'incidente, pena la perdita
del posto di lavoro. Se osserviamo i dati fino a ora esposti possiamo
notare che gli infortuni mortali avvengono tra le fasce più “tutelate”:
lavoratori italiani tra i 40 e i 59 anni.
O
i giovani e gli stranieri sono molto più “attenti” oppure, più
semplicemente, non sono nelle condizioni di poter denunciare gli
infortuni, dato significativo, in questo campo, è quello legato alle
ore di permesso per malattia, cresciute dell’11% proprio tra i
lavoratori immigrati e quelli italiani al di sotto dei 40 anni Si tratta
di un elemento che è la spia di un sistema diffuso per tacitare
infortuni e incidenti: il “datore di lavoro” fa un accordo con il suo
dipendente infortunato chiedendogli, magari in cambio di qualche soldo
in più fuori busta, di non denunciare l’infortunio ma di mettersi in
malattia. Così si evitano problemi. E forse si spiegano anche in questo
modo le cifre minime tra i lavoratori stranieri, e “under 40” e molti
dei decessi “postumi” che avvengono in ospedale o al pronto-soccorso.
Per
concludere bisogna aggiungere la completa inutilità dell' INL,
l'Ispettorato Nazionale del Lavoro, istituito dal Jobs Act (D.Lgs. n.
141/2015) nato per accentrare le funzioni ispettive, già in parte
riformate nel 2004, è ancora oggi in “fase di assestamento” per ciò che
riguarda l’operatività dell’attività di vigilanza degli ispettori
territoriali. Le mancanze principali del sistema della vigilanza in
materia di sicurezza sui luoghi di lavoro non sono solo dovute a
controlli irrisori, affidati a personale numericamente esiguo ma anche a
ritardi nell'applicazione della normativa, molto spesso per una
convivenza difficile tra le istituzioni affidatarie della materia, oltre
a un apparato di contrasto inadeguato all'entità del fenomeno.
Il
“Patto Stato Regioni” in merito, ha fissato al 5% la soglia minima
delle aziende da ispezionare. Tale obiettivo è stato raggiunto
soltanto in 14 regioni, con una percentuale media dell'intero Paese che
si attesta al 6,6%. Tale sproporzione diventa ancora più evidente in
determinati settori: la percentuale di aziende agricole ispezionate, ad
esempio, è di appena lo 0,37%, con la punta massima in Lombardia del
2,67%.
Ma non sono solo i
lavoratori e le lavoratrici a pagare caro il prezzo della “ripresa”, a
essere sempre più spesso vittime di infortuni, vi sono anche gli
studenti che svolgono “l'alternanza scuola lavoro”, ossia lo
sfruttamento di manodopera gratuita stabilito dalla “buona scuola”. Il 6
ottobre del 2017 un altro studente è rimasto gravemente ferito dopo
essere stato schiacciato da un carrello elevatore in un azienda di
motori nautici a La Spezia. Il 9 maggio uno studente di 16 anni è
rimasto gravemente menomato perdendo l'uso di una mano durante uno
“stage” presso un azienda di produzione di serramenti in alluminio (!)
di Udine,.
Una delle questioni più
spinose di questa vergogna che si chiama alternanza Scuola-Lavoro
riguarda la normativa in caso di infortunio o malattia professionale
degli studenti impegnati nelle attività.
Secondo la circolare INAIL N°44 del 21 novembre 2016, il datore di lavoro, che nel caso specifico è il dirigente scolastico, deve assicurare che ciascun lavoratore (e dunque ciascun alunno in alternanza) “riceva una formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza, con particolare riferimento a: concetti di rischio, danno, prevenzione, protezione, organizzazione della prevenzione aziendale, diritti e doveri dei vari soggetti aziendali, organi di vigilanza, controllo, assistenza.”. Peccato che molti dirigenti scolastici sottovalutino la problematica relativa alla sicurezza sul lavoro, pensando che l’alternanza si configuri come una semplice attività didattica, come si è avuto modo di vedere nei due casi esposti prima, dove ragazzini inesperti erano alle prese con carrelli elevatori e frese per alluminio ignari (e non per colpa loro) dei rischi che correvano in quanto non avevano fatto i corsi relativi alla sicurezza necessari alla loro mansione. Quello che viene spacciato come “strumento di didattica alternativa” non è altro che mero sfruttamento le cui conseguenze le iniziano a pagare, sulla loro pelle, gli studenti negli stessi identici termini di noi lavoratori.
Secondo la circolare INAIL N°44 del 21 novembre 2016, il datore di lavoro, che nel caso specifico è il dirigente scolastico, deve assicurare che ciascun lavoratore (e dunque ciascun alunno in alternanza) “riceva una formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza, con particolare riferimento a: concetti di rischio, danno, prevenzione, protezione, organizzazione della prevenzione aziendale, diritti e doveri dei vari soggetti aziendali, organi di vigilanza, controllo, assistenza.”. Peccato che molti dirigenti scolastici sottovalutino la problematica relativa alla sicurezza sul lavoro, pensando che l’alternanza si configuri come una semplice attività didattica, come si è avuto modo di vedere nei due casi esposti prima, dove ragazzini inesperti erano alle prese con carrelli elevatori e frese per alluminio ignari (e non per colpa loro) dei rischi che correvano in quanto non avevano fatto i corsi relativi alla sicurezza necessari alla loro mansione. Quello che viene spacciato come “strumento di didattica alternativa” non è altro che mero sfruttamento le cui conseguenze le iniziano a pagare, sulla loro pelle, gli studenti negli stessi identici termini di noi lavoratori.
Le
cifre, spaventose, elencate fino a ora ci devono far capire che è
fondamentale essere uniti e mobilitarsi per contrastare quella che è una
vera e propria guerra fatta contro la nostra classe sociale.
Alla
base della ricchezza prodotta, e che finisce tutta nelle tasche dei
padroni, vi è il sangue e la vita di migliaia di lavoratori e
lavoratrici.
Un operaio metalmeccanico
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