Trump ha
dato l’autorità al capo del pentagono James Mattis di decidere come e quanti
soldati americani andranno a ingrossare le fila degli 8.400 militari
stellestrisce che già operano in Afghanistan
Sull’Afghanistan, la politica abdica. E i militari
decidono. Vale per gli Stati uniti, dove il presidente Donald Trump ha delegato
al segretario alla Difesa James Mattis la decisione sul numero di soldati da
inviare nel Paese centro-asiatico. E vale per l’Italia, dove il Parlamento
diventa un ufficio che certifica decisioni già prese: carta, timbro, protocollo
archiviato. Con un articolo su Repubblica di sabato 17 giugno, veniamo a sapere
che «il vertice delle forze armate ha preparato un piano per incrementare il
contingente afghano con altri cento soldati, che si aggiungeranno ai 950 già
schierati nella base di Herat». La decisione sarà poi «valutata dal ministro
Pinotti e dal premier Paolo Gentiloni che, in caso di approvazione, dovranno
comunicarlo alle Camere. Non è escluso il coinvolgimento delle commissioni
parlamentari…». La piramide è
rovesciata. Non è la politica – come frutto di una consultazione collettiva – a
indicare il «che fare» alle forze armate, ma sono le forze armate a segnare la
rotta. Sempre più inerziale. L’aumento dei soldati italiani impegnati in
Afghanistan riflette la tradizionale subalternità atlantica: se gli Usa chiamano, l’Italia risponde sull’attenti, rivendicando semmai un posto al sole («l’Italia aspira a occupare alcune poltrone chiave» della Nato, leggiamo). E rimanda al riequilibrio tra i poteri istituzionali, con la politica estera schiacciata sulla «difesa» e lo svuotamento del Parlamento come luogo di conflitto politico e, poi, deliberazione.
Afghanistan riflette la tradizionale subalternità atlantica: se gli Usa chiamano, l’Italia risponde sull’attenti, rivendicando semmai un posto al sole («l’Italia aspira a occupare alcune poltrone chiave» della Nato, leggiamo). E rimanda al riequilibrio tra i poteri istituzionali, con la politica estera schiacciata sulla «difesa» e lo svuotamento del Parlamento come luogo di conflitto politico e, poi, deliberazione.
Ma la guerra in Afghanistan è una guerra innanzitutto politica. Talmente politica che ministri e primi ministri ne stanno alla larga. Sanno che è persa, ma non hanno il coraggio di ammetterlo.
La soluzione, allora, è semplice: discuterne il meno possibile, lasciando carta bianca – e responsabilità – ai militari. Abituati a dire sì.
Il «sì» italiano seguirebbe quello di altri paesi che,
come Regno unito e Danimarca, hanno già promesso alla Nato il loro appoggio al
surge americano, anche quello per ora affidato solo a indiscrezioni di stampa,
salvo il fatto che Trump ha dato l’autorità al capo del pentagono James Mattis
di decidere come e quanti soldati americani andranno a ingrossare le fila degli
8.400 militari stellestrisce che già operano in Afghanistan. Stando a Mattis i
dettagli saranno chiariti definitamente a metà luglio. Il dibattito intanto
infuria. E mentre sui giornali ci si chiede a cosa serve il nuovo surge
americano in un paese dove la missione militare non sta ottenendo risultati, il
massimo teorico del surge, il generale in pensione David Petraeus, non solo ha
dato il suo appoggio all’invio di nuovi soldati ma ha chiarito, in
un’intervista, alcuni dei dettagli che probabilmente Mattis si prepara e
mettere nero su bianco: non solo, dice l’ex teorico del surge in Iraq e
Afghanistan, 3 o 5mila soldati sono un numero «sostenibile», ma gli Stati uniti
devono «sciogliere le restrizioni ancora in piedi nell’uso della forza aerea in
sostegno ai nostri partner locali». Più bombe dunque e non solo più soldati e
senza i laccioli che adesso, almeno teoricamente, impongono all’Air Force di
avvisare e concordare con Kabul i suoi raid che hanno comunque già conosciuto
un surge da due anni a questa parte come si evince dall’aumento delle vittime
civili dovute ad azioni dal cielo. Il Pentagono avrebbe finalmente mano libera
e non dovrebbe più aspettare ordini dal presidente per azioni che normalmente
richiedono l’approvazione della Casa bianca. Se infine non dovesse render più
conto nemmeno a Kabul, quello militare diventerebbe uno strapotere che ha già
comunque dato un segno nell’aprile scorso col lancio della cosiddetta «Madre di
tutte le bombe», un ordigno da 11 tonnellate di esplosivo sganciato nella zona
di confine col Pakistan.
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