di Enzo
Pellegrin
Il recente decreto
Minniti sulla sicurezza urbana ha suscitato una levata di scudi nei
più diversi ambienti progressisti, in particolare perché aderente
ad un’idea di sicurezza che “considera la marginalità sociale
presente nello spazio pubblico come elemento deturpatore del decoro,
della quiete pubblica e finanche della moralità.”
Pur condividendo lo
spregio nei confronti di un’agenda securitaria che considera
l’emergenza del Paese quella di provvedere ad un armamentario di
sanzioni amministrative nei confronti dei soggetti vulnerabili e
svantaggiati che popolano lo spazio urbano, in completa continuità
con le grida del vecchio decreto Maroni che promuovevano la figura
del sindaco-sceriffo, già ho avuto modo di commentare come la
preoccupazione umanitaria per clochard, venditori ambulanti di borse
contraffatte (altra priorità sociale…) ed altre figure simbolo
della vulgata di regime sulla marginalità, sia una prospettiva
nobile e pienamente condivisibile, ma insufficiente.
Il decreto Minniti
fonda un’architettura legislativa che consente poteri enormi ad
autorità amministrative come il Sindaco o il Prefetto, norme che
incidono sulla libertà fondamentale di circolazione, ed
indirettamente, diciamo noi, anche sulla libertà di manifestazione
del pensiero e sulle libertà politiche.
Con la scusa della
sicurezza urbana “integrata”, si prevedono ad esempio poteri ampi
di interdizione nei confronti delle occupazioni arbitrarie di
immobili, oppure nei confronti di “turbative” dell’uso di spazi
pubblici.
L’articolo 5 del
decreto prevede la possibilità per prefetti e sindaci di concludere
patti di attuazione della sicurezza urbana, con l’obiettivo, tra
gli altri, di «promozione
del rispetto della legalita’, anche mediante mirate iniziative di
dissuasione di ogni forma di condotta illecita, comprese
l’occupazione arbitraria di immobili e lo smercio di beni
contraffatti o falsificati, nonche’ la prevenzione di altri
fenomeni che comunque comportino turbativa del libero utilizzo degli
spazi pubblici».
Non v’è chi non
veda come una concezione del genere non solamente possa essere
utilizzata contro i clochard che recano fastidio nelle stazioni alla
pulizia classista del veteroborghese, ma anche ai manifestanti che
abbiano deciso di occupare per protesta i locali od i binari di una
stazione o magari gli scioperanti del settore logistica che abbiano
programmato un picchetto nelle strutture di un Centro Agroalimentare,
oppure anche solo in una pubblica strada.
Ciò sembra
confermato altresì dal testo dell’art. 9 stesso decreto, il quale,
sotto la rubrica “Misure a tutela del decoro (sic!) di particolari
luoghi”, dispone che «Fatto
salvo quanto previsto dalla vigente normativa a tutela delle aree
interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie,
aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed
extraurbano, e delle relative pertinenze, chiunque ponga in essere
condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione delle
predette infrastrutture, in violazione dei divieti di stazionamento o
di occupazione di spazi ivi previsti, è soggetto alla sanzione
amministrativa del pagamento di una somma da euro 100 a euro 300.
Contestualmente alla rilevazione della condotta illecita, al
trasgressore viene ordinato, nelle forme e con le modalità di cui
all’articolo 10, l’allontanamento dal luogo in cui è stato
commesso il fatto».
Nulla,
nell’eccessiva formulazione di questa norma, vieta che la sanzione
e il conseguente ordine di allontanamento non possano essere
applicati anche al picchetto od alla manifestazione in stazione, in
aeroporto od al deposito tramviario o marittimo. Basta un cartello di
divieto o le normali norme del Codice della Strada.
Le sanzioni possono
apparire mera questione amministrativo-pecuniaria, ma in realtà
rivestono importanza cruciale, poiché l’ordine di allontanamento,
contestualmente notificato al momento della rilevazione della
sanzione, consente al questore, in caso di reiterazione delle
condotte di turbativa, ai sensi dell’art. 10, di disporre il per un
periodo non superiore a sei mesi, il «divieto
di accesso ad una o più delle aree di cui all’articolo 9,
espressamente specificate nel provvedimento, individuando, altresì,
modalita’ applicative del divieto compatibili con le esigenze di
mobilità, salute e lavoro del destinatario dell’atto». Qualora
la persona sia stata condannata con sentenza in via definitiva o
anche non definitiva ma confermata in grado di appello (in barba alla
presunzione d’innocenza che vale anche in Cassazione) per reati
contro la persona o il patrimonio, il divieto di accesso non è
inferiore a sei mesi e può estendersi fino a due anni! In sede poi
di condanna per reati contro la persona od il patrimonio commessi nei
luoghi di cui sopra, la sospensione condizionale della pena può
essere subordinata all’imposizione del divieto di accedere a luoghi
od aree specificatamente individuati, con ulteriore limitazione della
libertà di circolazione.
Come sopra
analizzato, nulla vieta che questa norma colpisca il manifestante che
ha partecipato al picchetto, impedendogli in futuro di avvicinarsi al
luogo della protesta o di esercizio del diritto di sciopero.
Paradigmatico anche
l’art. 11, il quale prevede l’estensione dei poteri repressivi in
programmate operazioni di sgombero di immobili a mezzo della forza
pubblica. In un paese in cui il problema della casa ha assunto
dimensioni emergenziali, mentre proliferano immobili lasciati sfitti
per speculazione ed affitti estorsivi, nulla vieta che questa norma
contribuisca soprattutto ad affilare le armi contro le occupazioni
popolari, in difesa dei “diritti dei proprietari degli immobili”
che il decreto indica come elementi di tutela prioritaria insieme
alla salute e incolumità pubblica. Un ribaltamento dei principi
costituzionali, i quali indicano chiaramente all’art. 41 Cost. che
è la proprietà privata che dovrebbe segnare il passo di fronte
all’emergenza sociale (la casa lo è): «L’iniziativa
economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con
l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla
libertà, alla dignità umana». Di
fronte agli sgomberi chiesti dai signori delle stamberghe affittate a
prezzi estorsivi ai precari della società, di fronte
all’insufficienza dell’edilizia popolare, dovrebbe valere la
regola dell’esproprio per le sacrosante ragioni di emergenza
abitativa, non la tutela delle ragioni di rendita proprietaria di
speculatori immobiliaristi.
Il lato tragicomico
della vicenda riguarda l’uso del decreto legge per ragioni di
necessità ed urgenza, in un paese in cui – per ammissione dello
stesso Ministro – i reati sono in calo di più del dieci per cento.
Il responsabile del dicastero ha però rimarcato che, anche se i
reati sono in calo, la “percezione” di essi è aumentata.
La “percezione”
– come già notato in altri interventi e non solo da chi scrive –
è l’orecchio al ventre molle del paese, adeguatamente concimato
dall’isteria securitaria di media di regime, i quali montano –
chi in modo spudorato, chi in modo subliminale – campagne d’odio
etnico, razziale, religioso e paura della marginalità sociale. Vi
sono trasmissioni di emittenti nazionali che sono giunte a pagare
membri di comunità nomadi per dire falsamente in televisione che
truffavano migliaia di euro al giorno facendola franca, o sedicenti
credenti nella religione islamica pagati per affermare sullo schermo
odio verso i cristiani (Munafo’,
La macchina dell’odio, L’Espresso, 13.5.2016).
Questa roba qui, la
“percezione”, viene contrabbandata come una ragione di necessità
ed urgenza. Tanto da legittimare un decreto-legge securitario in un
paese in cui le trasgressioni alla legge diminuiscono.
Forse per necessità
ed urgenza si intende l’esigenza del regime al potere di contendere
il terreno elettorale ai seminatori delle campagne d’odio etnico e
razziale che imperversano nelle loro provocazioni?
Come sopra detto,
non è tutto qui, o non è solo questo.
Specialmente se
questa rincorsa ai voti dell’isteria permette anche di emanare
norme che tornino utili per silenziare o criminalizzare il conflitto
sociale, utili magari in occasione delle prossime annunciate
manifestazioni per l’anniversario dei Trattati di Roma.
Di certe brutture –
come la criminalizzazione degli emarginati – non solo non si butta
via niente, ma tornano utili anche per liberarsi della lotta dei
proletari.
“Prima di tutto
vennero a prendere gli zingari. E fui contento perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei. E stetti zitto, perché mi stavano
antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato,
perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed
io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a
prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare.” (Bertolt
Brecht).
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