Un contributo per la riflessione
La Palestina è il nuovo Vietnam: laboratorio della guerra globale e simbolo di resistenza popolare. Come l’Indocina negli anni ’60, Gaza mostra la vulnerabilità dell’imperialismo, alimenta la solidarietà internazionale e svela la brutalità del capitalismo neoliberale.
Palestina come Vietnam: il laboratorio della guerra
La Palestina è il nuovo Vietnam. La formula non vuole essere una boutade, ma una chiave di lettura materialista della fase storica che attraversiamo. Essa indica il luogo in cui si concentrano le contraddizioni dell’imperialismo e dove si misura la capacità dei popoli oppressi di resistere, nonostante rapporti di forza apparentemente schiaccianti.
Il Vietnam fu il punto di rottura dell’ordine imperialista costruito dagli Stati Uniti nel secondo dopoguerra. La guerra indocinese dimostrò che la più grande potenza militare del mondo, armata della più sofisticata tecnologia industriale e sostenuta da un blocco atlantico in piena espansione economica, poteva essere logorata e infine battuta da un popolo contadino che trasformava il proprio territorio in trincea.
Non si trattò soltanto di una vittoria nazionale: fu una frattura globale che ridiede fiato alle lotte di liberazione nel Terzo Mondo, saldandosi con il ciclo del ’68, con le rivolte operaie in Occidente e con la
crisi di legittimità del capitale a livello internazionale.La Palestina svolge oggi una funzione analoga, pur dentro condizioni storiche diverse. L’epoca delle rivoluzioni nazionali è tramontata, il blocco socialista non esiste più, il neoliberismo ha frantumato i legami di classe e individualizzato le esistenze. Tuttavia, proprio per questo, la resistenza palestinese assume un significato universale ancora più radicale: essa mostra che, anche nel cuore del capitalismo globalizzato e finanziarizzato, non esiste dominio capace di cancellare la volontà di un popolo. Ogni bambino che nasce a Gaza sotto le bombe, ogni famiglia che ricostruisce la casa demolita, ogni corteo che nelle metropoli occidentali sfida la complicità dei governi è la prova che il capitale non riesce mai a chiudere del tutto i conti con la storia.
Come il Vietnam fu laboratorio della guerra totale industrializzata — napalm, defolianti, bombardamenti a tappeto, logistica avanzata della distruzione — così Gaza è diventata il laboratorio dell’industria bellica globale del XXI secolo. Israele sperimenta lì droni armati, sistemi di sorveglianza biometrica, intelligence algoritmica, munizionamenti a frammentazione, tecnologie di assedio e contenimento delle popolazioni civili.
Ogni offensiva militare diventa vetrina di prodotti da piazzare sul mercato mondiale delle armi: ciò che viene testato sul corpo palestinese è immediatamente venduto a governi e multinazionali della sicurezza. Gaza è, in questo senso, il Vietnam della nostra epoca: un laboratorio di barbarie funzionale all’accumulazione capitalistica.
E qui il piano economico chiarisce la profondità dell’analogia. La guerra in Indocina fu l’ultima grande manifestazione della guerra industrializzata fordista: catene di montaggio che producevano in serie elicotteri, bombardieri e tonnellate di napalm, mentre le corporation americane accumulavano profitti enormi. Allo stesso modo, la Palestina rappresenta oggi il cuore pulsante del complesso militare-industriale israeliano, che ha trasformato l’occupazione in un laboratorio permanente. Israele figura stabilmente tra i primi dieci esportatori di armi al mondo e vende tecnologie belliche per oltre 12 miliardi di dollari all’anno (2023), con clienti che vanno dall’India all’Azerbaigian, fino all’America Latina.
La formula è semplice e brutale: ciò che viene testato in Palestina viene subito venduto con l’etichetta “combat proven”. La violenza coloniale non è un “costo”: è investimento, è plusvalore estratto dal sangue palestinese e reinserito nelle catene globali dell’accumulazione.
Sul piano geopolitico, il Vietnam si collocava nella cornice della guerra fredda, come teatro in cui si scontravano due blocchi ideologici e militari contrapposti. La Palestina, invece, vive nella transizione a un ordine multipolare: gli Stati Uniti restano garanti dell’impunità israeliana, l’Europa si mostra complice e subalterna, mentre nuove potenze come Cina, Russia e Iran usano la questione palestinese per logorare l’egemonia occidentale.
Ma il cuore del parallelo non sta solo nei giochi tra Stati: sta nel movimento dal basso che la Palestina, come il Vietnam allora, riesce a generare. Negli anni Sessanta la guerra in Indocina alimentò le rivolte studentesche negli Stati Uniti, la radicalizzazione operaia in Europa, l’ondata anticoloniale in Africa e America Latina.
Oggi, la Palestina produce nuove forme di solidarietà: studenti che occupano le università americane, lavoratori portuali a Genova o Oakland che rifiutano di caricare armi, movimenti femministi e antirazzisti che riconoscono nella causa palestinese la stessa logica di oppressione che vivono nei propri corpi e nelle proprie vite.
Se il Vietnam alimentò il Movimento dei Non Allineati e l’immaginario di una via autonoma per il Sud globale, la Palestina ridà voce a un internazionalismo frammentato ma reale: dai portuali europei che fermano le navi, agli studenti americani che sfidano i loro rettori, fino alle piazze di Rabat, Tunisi e Amman che si sollevano contro i propri governi complici. È una nuova geografia della resistenza, meno statuale e più molecolare, che proprio in questa diffusione trova la sua forza.
Dire che la Palestina è il nuovo Vietnam significa allora riconoscere che siamo di fronte a un nodo storico. Se il Vietnam mostrò la vulnerabilità dell’imperialismo americano nella fase fordista e produttivista, la Palestina mostra oggi la vulnerabilità del capitalismo neoliberale, che non riesce a stabilizzare il proprio ordine se non attraverso il ricorso costante alla violenza nuda. È la crisi di egemonia di un sistema che pretende di governare il mondo con droni, sanzioni, apartheid e mercati finanziari, ma che continua a produrre resistenza, insubordinazione, solidarietà transnazionale.
La Palestina è il Vietnam del nostro tempo perché, come allora, costringe ciascuno a scegliere il proprio campo: o con l’oppressore, o con l’oppresso. È la frontiera dove la barbarie capitalistica si mostra in tutta la sua brutalità, ma anche il punto in cui i popoli possono riconoscere la propria forza collettiva, la possibilità di spezzare ancora una volta la catena dell’imperialismo.
Nessun commento:
Posta un commento