Un contributo
Marta Fana
In questi dieci mesi segnati dalla pandemia, la violenza nel linguaggio dei rappresentanti delle imprese ha vissuto un’escalation senza precedenti nella memoria più recente. Era inizio marzo quando Confindustria tacciava di irresponsabilità lavoratori e sindacalisti che scioperavano pretendendo sicurezza nei luoghi di lavoro. Due mesi dopo, il neopresidente Bonomi offendeva quanti chiedevano aumenti salariali nei settori essenziali, e nonostante le centinaia di miliardi messe a disposizione dal governo per le imprese (tra cui la cassa integrazione) continuava in malafede a parlare di “Sussidistan” per lavoratori e disoccupati. Produzione e profitto prima di tutto e «Pazienza, se qualcuno muore!» avrebbe detto qualcuno mesi dopo. Dalle parole ai fatti. Mentre i camion militari pieni di morti aspettavano sull’uscio degli ospedali, le imprese usavano tutti i mezzi a loro disposizione per non fermare la propria attività. Ce lo dimostra la Banca d’Italia. Nel periodo del lockdown, rispetto ai primi mesi del 2020, i cambi di codici Ateco per sfuggire ai decreti sulle chiusure sono aumentati clamorosamente in tutti i settori, addirittura quintuplicati nella manifattura, con enorme incidenza al Nord. Le parole sono coerenti coi fatti perpetrati da chi governa la produzione: la vita umana viene dopo il profitto, prima durante e dopo la pandemia. La società è di fronte a questo spartiacque: da un alto, diritti e bisogni della maggioranza della società e dall’altro il profitto. Il senso profondo della politica sta in questa scelta.
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