mercoledì 7 ottobre 2015

pc 7 ottobre - Operai Fiat Chrysler negli Usa minacciano lo sciopero: stanchi della concertazione sindacati/padroni?

Come è noto l’accordo precedente tra Marchionne e i capi sindacali prevedeva che gli operai “giovani” guadagnassero la metà dei vecchi; adesso questo accordo viene rigettato dagli operai, per i quali, a leggere questo articolo di Affari e Finanza, tifa anche il giornalista (quando si tratta degli operai degli altri paesi è più facile!) che parla del ricatto padronale delle delocalizzazioni e della classe operaia che rialza la testa!


Marchionne-Uaw il sindacato americano rialza la testa

Torna la lotta sindacale in America e a farne le spese è Marchionne. La clamorosa bocciatura della sua ipotesi di contratto metalmeccanico è una svolta dopo anni di pace sociale. La causa scatenante: la rivolta degli operai di serie B. Dopo la crisi del 2008-09 che portò Chrysler e Gm alla bancarotta, venne adottato col beneplacito sindacale un doppio regime salariale. I nuovi assunti da allora guadagnano praticamente la metà rispetto ai veterani, a parità di mansione ora le nuove leve ritengono che quel regime iniquo vada superato, essendo finita l’emergenza. La
bocciatura dell’accordo è una sconfessione dei vertici del sindacato accusati di essere troppo amici di Marchionne. Ma dal punto di vista macroeconomico un po’ d’inflazione salariale è esattamente quello che ci si attende, la Fed addirittura auspica che arrivi. La storia di questo rinnovo del contratto Fiat Chrysler è seguita con attenzione negli Stati Uniti per più di un motivo. È il contratto pilota del settore: se fosse stato approvato nel referendum dalla base di Chrysler, sarebbe stato facile far digerire un accordo simile a Ford e Gm. Poi perché la questione salariale è al centro dell’attenzione della Fed da quando alla presidenza c’è Janet Yellen. Uno dei suoi leitmotiv è la preoccupazione per il ristagno delle buste paga. In condizioni normali dopo sei anni di crescita e con un tasso di disoccupazione del 5,1% i salari dovrebbero aumentare in misura significativa. Invece sono quasi fermi, e spesso a livelli inferiori a quelli pre-crisi (in certi settori il potere d’acquisto reale delle retribuzioni è inchiodato da 30 anni).

Me ne sono occupato in questa rubrica citando la famosa “curva di Philipps” insegnata nei manuali di economia. In passato, con una disoccupazione al 5,1% la banca centrale si sentiva obbligata ad alzare i tassi per prevenire una fiammata inflazionistica. Ma la premessa era la vivace dinamica salariale che si ripercuoteva su costi di produzione prezzi dei beni di consumo. Ora manca un passaggio: il rafforzamento del potere contrattuale dei lavoratori. Tra le spiegazioni, la globalizzazione che permette di ricattare gli operai con le delocalizzazioni. Ma nel caso Chrysler questa minaccia non sembra aver funzionato. Marchionne ha bisogno di produrre in America per il mercato americano, e i suoi impianti locali sono già ai limiti di capacità. Forse la classe operaia – o quel che ne resta - sta davvero rialzando la testa. E questo, oltre ad essere una buona notizia in sé, paradossalmente darebbe il via libera al rialzo dei tassi d’interesse fin qui rinviato.

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