lunedì 5 ottobre 2015

pc 5 ottobre - Foxconn: la globalizzazione dello sfruttamento intensivo dei padroni.

TURNI DI 12 ORE E DORMITORI, L’EUROPA DI FOXCONN SEMBRA LA CINA.

DA INTERNAZIONALE di Michelangelo Cocco

Devi Sacchetto ha condotto (assieme a Rutvica Andrijasevic) una ricerca sugli stabilimenti Foxconn nella Repubblica Ceca e in Turchia. Il lavoro del docente di “Sociologia del lavoro” all’Università di Padova e della sua collega ha evidenziato similitudini e differenze tra il modo di produrre della multinazionale taiwanese dell’elettronica (tristemente nota in Cina come “La fabbrica dei suicidi”) in Europa e nella Repubblica popolare. “Ci sono alcune analogie – ci spiega Sacchetto -, come quella del subappalto o delle agenzie, molto più pronunciata in Europa, ma che si sta facendo strada anche in Cina”. Sacchetto, curatore assieme al suo collega di università Ferruccio Gambino del volume “La fabbrica globale” ( pubblicato da ombre corte) sottolinea che, soprattutto, persiste il problematico rapporto tra grandi brand (in questo caso Apple, HP e tanti altri) e chi produce (Foxconn), che vorrebbe rimanere nell’invisibilità: “una caratteristica non certo cinese, sviluppata piuttosto nei paesi occidentali per scaricare su altri (i fornitori) tutto il peso della gestione della forza lavoro e di salari bassissimi e tassi di profitto irrisori, necessari per generare quelli stratosferici del brand che appalta la produzione”.

Professor Sacchetto, l’ultimo suicidio in un impianto cinese di Foxconn è stato registrato nell’agosto scorso. Quali condizioni di lavoro avete riscontrato invece nel corso della vostra ricerca, condotta nella Repubblica Ceca, dove Foxconn impiega 9.000 lavoratori, e in Turchia, dove ha circa 400 dipendenti?

Per quanto riguarda la Cina il nostro impegno è stato soprattutto quello di portare all’attenzione del pubblico italiano dei lavori (i saggi di Pun Ngai, Han Yuchen, Guo Yuhua e altri, raccolti in “Nella fabbrica Globale”) che ci sembrano particolarmente interessanti. Ci risulta che in Cina Foxconn non abbia migliorato se non in misura minima le condizioni che possono aver contribuito all’ondata di suicidi di operai del 2010 (14 nel solo parco industriale di Shenzhen), salvo forse aver limitato i rapporti più “feroci” che si registravano all’interno dei suoi stabilimenti, cioè il controllo ferreo da parte delle guardie giurate sui lavoratori. Ma, da quanto ci riferiscono i ricercatori locali con cui siamo in contatto, da allora non sono stati registrati cambiamenti sostanziali e il sindacato (quello ufficiale è legato al Partito comunista cinese, ndr) rimane una costola fondamentale nella gestione della forza lavoro. Anche se i nostri colleghi spingono molto su questo punto, in un’azienda con circa 1 milione di dipendenti come Foxconn (in Cina il primo datore di lavoro del settore privato, ndr) è complicato collegare direttamente la questione dei suicidi ai ritmi di lavoro. Tuttavia è certo che mansioni altamente ripetitive, la dimensione enorme degli stabilimenti e le condizioni di lavoro causano alienazione, isolamento, schiacciamento della propria identità.

L’estrema ripetitività delle mansioni è indicata come una delle principali cause di alienazione negli stabilimenti Foxconn. Ora però si parla molto di robotizzazione, con le macchine che andrebbero a sostituire gli operai proprio nei lavori più ripetitivi…

L’innovazione tecnologica è quasi sempre benvenuta, se va ad alleviare condizioni di lavoro pesanti. Ma nel caso di Foxconn è chiaro che la robotizzazione mira a risparmiare forza lavoro, producendo dunque disoccupazione. Per Foxconn – come per tante altre aziende – l’elemento fondamentale che determina se queste innovazioni tecnologiche vengono introdotte o meno è il rapporto tra il costo dei robot e quello della forza lavoro. La multinazionale taiwanese tra l’altro aveva già annunciato “1 milione di robot” cinque anni fa, sulla scia dei primi suicidi in fabbrica. Eppure nel frattempo non sembra avere fatto passi avanti su questo punto, anche perché – come riportato dalla stampa locale meno di un anno fa – questi robot non sono così precisi come la forza lavoro, come le mani di operai in un lavoro che richiede, sui prodotti elettronici, una precisione millimetrica. Stiamo parlando di un lavoro su device che vengono vendute a prezzi particolarmente elevati e sulle quali Apple (una delle principali aziende appaltanti di Foxconn, ndr) prevede standard di tolleranza di 0,02 millimetri, mentre i Foxbot (i robot testati da Foxconn) sono capaci di arrivare solo a 0,05 millimetri. Questo ci dà un’idea molto precisa della “ossessione” di questi livelli qualitativi i quali – oltre alla ripetitività – rappresentano un altro punto chiave dell’alienazione prodotta da questi stabilimenti. Inoltre ricorderei un tentativo di robotizzazione a noi molto vicino, quello di Cassino negli anni Ottanta: dieci anni dopo, Melfi aprì con una regressione del livello tecnologico, con una fase che dovette tenere conto del fatto che la robotizzazione spinta presenta tanti problemi di funzionamento.

Il caso Foxconn in Cina è emblematico del rapporto tra brand internazionali, aziende appaltatrici e governi locali. Quali sono i reciproci vantaggi di questi tre attori?

La Apple si è avvalsa a lungo di Foxconn come terzista. Dietro all’affidamento a Foxconn di così tanti prodotti da parte della multinazionale californiana ci sono anche le esigenze di segretezza di quest’ultima: in un settore come quello dell’elettronica in cui c’è un tasso di imitazione molto alto, affidarsi a un unico terzista significa riuscire a instaurare con esso rapporti di medio periodo con livelli di segretezza elevata riguardo ai prodotti che si stanno costruendo, cosa che non sarebbe possibile lavorando con più terzisti. Tuttavia negli ultimi mesi Apple sta provando a capire se può appaltare anche ad altri, non solo per le polemiche relative alle condizioni di lavoro in Foxconn, ma anche in risposta a una sua strategia di diversificazione. Tra Apple, Foxconn e Stato cinese c’è un legame molto stretto per quanto riguarda il mantenimento delle condizioni della forza lavoro. Nello stabilimento Foxconn che abbiamo preso in esame in Turchia – dove la multinazionale taiwanese produce per HP -, quest’ultima e Foxconn si sono presentate, come “uno solo uomo”, a contrattare con l’agenzia per gli investimenti turca. In Cina il rapporto è ancora più stretto, perché lì lo Stato – con le sue varie articolazioni – costruisce pezzi di produzione, aiutando le imprese a reperire luoghi di produzione e forza lavoro.

Possiamo dire, in base alle vostre ricerche nel Vecchio continente, che in Europa il lavoro si sta “sinizzando”?

Abbiamo lavorato sugli stabilimenti Foxconn cechi e turchi. La Repubblica Ceca rappresenta il centro logistico europeo di Foxconn, mentre in Turchia ha sede il suo stabilimento più piccolo. Studiando i due impianti cechi è saltata all’occhio, da un lato, la questione dei turni di 12 ore, una cosa tipicamente cinese, molto meno diffusa in Europa e, dall’altro, la presenza dei dormitori accanto alle fabbriche.

In quelli turchi invece non ci sono lavoratori migranti né dormitori. Foxconn fa leva sulle condizioni che trova nei diversi contesti locali: ad esempio, nella Repubblica Ceca fa affidamento su lavoratori migranti europei importati attraverso le agenzie di reclutamento, mentre nel caso turco – dove il bacino di reclutamento è più ricco – si affida a manodopera locale e alcuni programmi messi in campo dal governo turco quali ad esempio i periodi di tirocinio, stage, etc, che coinvolgono fino al 10% della forza lavoro (ad esempio chi è disoccupato lavora circa tre mesi nell’azienda, pagato dallo Stato, e al termine di questo periodo una parte dei lavoratori viene confermata); così come, sempre in Turchia, Foxconn si affida a tirocini di studenti delle scuole professionali. La questione dei turni di 12 ore a mio avviso è emblematica dei tentativi di forzare sulla lunghezza della giornata lavorativa e sull’organizzazione complessiva del lavoro.

Altre questioni, come la ripetitività del lavoro, non sono invece caratteristiche del sistema lavorativo cinese, nonostante in Europa si sia spesso pensato che il lavoro alla catena di montaggio fosse superato (le nostre ricerche ci hanno invece confermato la sua permanenza). Si parla erroneamente di una “sinizzazione” del sistema lavorativo europeo: si tratta semplicemente di un peggioramento delle condizioni di lavoro in Europa, sotto la spinta anche di quanto accade altrove. Ma le colpe non sono certo da attribuire a i cinesi.

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