NOTIZIARIO
ILVA 3 - 10-11.8.12
IN
FABBRICA
La
sentenza del riesame è stata accolta in fabbrica con un misto di
parziale sollievo e di diffidenza.
Il parziale sollievo è dato dal fatto che essa secondo le notizie
finora conosciute – non sono però uscite ancora le motivazioni del
dispositivo del riesame – scongiurerebbe l’ipotesi della chiusura
dell’Ilva per indirizzare verso il risanamento degli impianti;
dall’altro però c’è diffidenza circa l’effettiva volontà di
Riva di andare in questa direzione, diffidenza circa gli effetti che
potranno esserci comunque sul piano della continuità lavorativa, e
– qui condiviso anche dall’ala operaia e popolare più
preoccupata per gli effetti sull’ambiente - circa comunque le
dimensioni di questa bonifica che sia in grado realmente di attaccare
la gravità e profondità dei danni alla salute e all’ambiente che
l’azione dei dirigenti dell’azienda prima e di Riva dopo ha
prodotto.
E
intorno a questi problemi che si muove ora tempestivamente l’azione
dello Slai cobas per il sindacato di classe. Innanzitutto togliendo
dubbi su un punto: affidarsi in fabbrica a Riva e fuori a
Magistratura e a Istituzioni è una linea perdente e illusoria che
non salverà né lavoro né salute.
Riva
senza la lotta degli operai farà fatica ad ottemperare alle
ordinanze, alle prescrizioni, egli vuole fare solo quello che
permette di salvaguardare la continuità dei suoi profitti che, come
tutti hanno detto e alcuni tardivamente scoperto, fanno dell’Ilva
la fabbrica più grande del paese e il principale centro siderurgico
d’Europa, con forti influenze sull’economia e sul sistema
industriale italiano. Senza la lotta degli operai le dimensioni degli
interventi in Ilva saranno di stampo ultraparziale, graduale e
concertativo e quindi non in grado di raggiungere l’attuale
obiettivo che dovrebbe essere comune tra operai e movimento popolare
di fermare i danni alla salute e all’ambiente – teniamo anche
conto che già sul piano degli interventi di “messa a norma” vi è
di fatto un contrasto che vede da un lato Riva/Governo e Istituzioni
locali, in primis Regione di Vendola che nel Tavolo Regionale hanno
siglato un intesa che prevede piccoli e insignificanti interventi,
prevalentemente di sistemi di controllo, e in larga parte già
scritti in passato e non attuati da Riva, e dall’altro le
prescrizioni della Magistratura più estese e radicali.
Senza
la lotta degli operai fondi e sostegno dello Stato vogliono essere
un’ancora di salvataggio per padron Riva piuttosto che quel
radicale intervento che le lotte di queste giornate richiedono con
forza. Senza la lotta, gli operai non avranno un ruolo di riferimento
e direzione come classe di tutto il movimento di lotta della città.
Nell’incontro
di questa settimana tra azienda e sindacati confederali
questi sono tornati a svolgere il solito ruolo, quello di portavoce
essenzialmente degli interessi di Riva. Il segretario della Fim
Panarelli sembra parlare come Ferrante: “Si, l’Ilva si aspetta al
più presto le motivazioni, perché da quello che scriveranno i
giudici si comprenderà la direzione di marcia…
Dall’interpretazione del dispositivo del riesame fornita
dall’azienda non si evince la fermata degli impianti e quindi gli
impianti dovrebbero continuare a marciare. D’altra parte i soldi
devono pure venire fuori, un’azienda inattiva, che non produce non
potrebbe reggere a lungo, se gli impianti non vanno spenti devono
produrre. Ferrante ci ha chiesto di diffondere un messaggio di
serenità…”.
E’
chiaro che con questa posizione ogni effetto del riesame sarà
scaricato sugli operai, una riduzione della produzione viene
giustificata a priori e di conseguenza lo sarà il ricorso alla
cassintegrazione, che peraltro era già annunciata per effetto di
alcune difficoltà sul mercato.
Anche
in questo incontro, però, si è riproposto che, ove ci fosse come
applicazione del dispositivo una interpretazione restrittiva, i
sindacati convengono con Ferrante che lo stabilimento sarebbe
comunque a rischio.
Lo
Slai cobas per il sindacato di classe affronta gli stessi problemi e
pone agli operai un altro approccio.
Primo, la continuità della fabbrica che noi rivendichiamo è legata
alla continuità dell’attività lavorativa degli operai al cui
obiettivo occorre piegare i piani Ilva e la compatibilità tra i
piani e l’indirizzo della sentenza volta al risanamento. E’
soprattutto necessario togliere ogni alibi all’azienda circa lo
scarico sugli operai degli effetti della sentenza. Già nel giugno
scorso lo Slai cobas denunciava l’accordo segreto già esistente
tra operai e sindacati circa una nuova cassintegrazione per 2.900
operai, rinviata a luglio e poi entrata nel vortice della situazione
attuale. Già nella precedente fase della crisi 2008/2009 l’Ilva
teneva bene sul mercato, ciononostante è stata fatta e autorizzata
una cassintegrazione ordinaria prima e straordinaria dopo per
migliaia di lavoratori. Riva cavalcava la crisi, gonfiandone effetti
per aumentare i numeri dei cassintegrati ben oltre le necessità. La
cosa è stata così evidente che l’azienda non è riuscita neanche
a farla integralmente questa cassintegrazione, gli operai in cig sono
risultati alla fine meno di quelli richiesti inizialmente
dall’azienda e la stessa cassintegrazione ha trovato poi una
sostanziale sospensione. Aveva quindi ragione lo Slai cobas per
opporsi ad essa e chiederne un netto ridimensionamento. Ma la cig
richiesta aveva anche un altro scopo, da sempre utilizzato in Ilva,
di pressione ricatto verso gli operai per mantenerli ben saldi sotto
il controllo dell’azienda per il tramite dei sindacati confederali,
collaborazionisti, collusi e in parte anche venduti. Anche su questa
base che vi sono state le aperture dell’Ilva sul problema del
cambio tuta con concessioni volte a dare un po’ di soldi ai
lavoratori in cambio di un diritto rubato e svenduto. E’ in questa
fase che circa 1000 operai si sono schierati con lo Slai cobas per il
sindacato di classe e una parte di essi si è organizzata nello Slai
cobas, compresi alcuni attivisti ex Fiom noti anche nelle vicende di
questi giorni. Così lo Slai cobas ha potuto prendere corpo e forza
in seno alla fabbrica divenendo un pericolo reale per l’azienda a
cui l’Ilva ha reagito non riconoscendo le deleghe, perseguitando
alcuni lavoratori iscritti, creando un clima di alleanza infame con
dirigenti sindacali e delegati confederali per impedire che questo
pericolo reale si trasformasse in lotta e in rovesciamento dei
rapporti di forza in seno alla fabbrica.
L’esplosione
della vicenda ambientale è servita all’azienda a ricompattare, di
fronte al pericolo della chiusura, gli operai intorno al suo sostegno
e ridimensionare anche l’influenza crescente dello Slai cobas.
Della
pressione repressiva aziendale e dell’emergenza chiusura fabbrica
sono state vittime anche alcune avanguardie che si erano avvicinate
al cobas Ilva; questi operai/ex delegati hanno avuto timore che la
mancata copertura sindacale ne potesse provocare il licenziamento, e
quindi sono passate alla Fim sulla base di queste sole ragioni; salvo
poi impegnarsi, alcuni in maniera decisa e totale, nel movimento
ambientalista, visto anche come opportunità di ribellione ai diktat
di Riva e di contestazione generale ai sindacati confederali.
Lo
Slai cobas tiene duro e continua a ritenere che vada colta
l’opportunità dell’attuale crisi per andare ben oltre la
contestazione ambientalista e costruire il sindacato di classe e di
massa fondato sui cobas, che può essere la vera arma vincente,
capace di rafforzare il peso in fabbrica degli operai più coscienti
e ribelli e guidare su posizioni di classe il movimento esterno
popolare.
Una
doppia lotta che in queste giornate viene nettamente alla luce.
Come i sindacati confederali in fabbrica intorno alla continuità
della produzione pro Riva cercano di riconquistare una credibilità
perduta soprattutto contro il pericolo rappresentato dallo Slai
cobas, così nel movimento esterno alla fabbrica, guidato in parte da
un gruppo di operai protagonisti della contestazione del 2 agosto,
tenta di mettere le grinfie l’ambientalismo borghese e piccolo
borghese che vuole la fabbrica chiusa, gli operai assistiti, in uno
scenario tipo Bagnoli, a cui danno manforte alcune “mosche
cocchiere” presenti nell’area dei sindacati di base e del
movimento cittadino, che del tutto estranei agli operai e alla
fabbrica e spesso alla stessa popolazione dei quartieri, ora
cavalcano la tigre della contestazione per togliervi il carattere di
classe, e soprattutto minare il ruolo degli operai in quanto
direzione di classe per ricondurli nell’area di innanzitutto di
“cittadini che hanno a cuore l’ambiente, la salute e il futuro di
Taranto”.
E’
del tutto chiaro che quest’area vede nello Slai cobas l’ostacolo
alla sua azione. Quindi il discorso “siamo tutti cittadini”,
“niente bandiere” è per far emergere l’unica bandiera quella
del cittadino interclassista che non può che finire nella
contrapposizione tra operai e città, tra salute e lavoro, e così
via.
Questa
linea si è organizzata dando vita al “Comitato lavoratori
cittadini liberi e pensanti”, che anche nella sua sigla, non a
caso, teorizza visibilmente questa concezione volutamente
interclassista e di effettivo contrasto a discorsi e prassi di
classe.
Nell’assemblea
che il Comitato ha fatto l’8 agosto ai Tamburi – di cui parliamo
in seguito – a fronte di una positiva ribellione degli abitanti del
quartiere, gli interventi dei promotori del comitato, tra cui anche
ex delegati Fiom Ilva, sono stati quelli più sbagliati: operai che
dicono che loro parlano e si sentono soprattutto cittadini piuttosto
che operai, e di fatto ora sono attivi fuori dalla fabbrica ma in
fabbrica non fanno e propongono niente; operai che, dandosi la
classica “zappa sui piedi” hanno detto che la l’Ilva può
chiudere, che ci possono anche togliere il lavoro, che lo Stato deve
espropriare e ridare l’economia in mano ai tarantini, come se
Taranto fosse un isola socialista. Poi ci sono i movimentisti piccolo
borghesi, camuffati da “cittadini”, tra cui il rappresentante del
morto Cobas confederazione, uscito improvvisamente da anni di
inattività, che gridano con una irresponsabilità demagogica che i
cittadini dei quartieri devono andare a “bloccare l’Ilva, le
portinerie!”, minando la ricerca di unità tra operai e popolazione
dei quartieri che invece è stata espressa da vari altri interventi.
Una
visione pericolosa e dannosa, a cui le avanguardie operaie sono
chiamate a riflettere e ragionare, ad assumere un ruolo importante,
di fronte ad un’opportunità anche storica di cambiare realmente le
cose nella più grande fabbrica del paese e assumere un riferimento
con influenza nella classe operaia a livello nazionale.
Chiaramente,
però, questa battaglia ha riproposto in maniera clamorosa,
attraverso una rivolta operaia e il movimento cottadino di
contestazione i temi e le battaglie che lo Slai cobas per il
sindacato di classe ha
sviluppato e costruito, non solo su scala cittadina ma anche su scala
nazionale. Prima tra tutte, la battaglia contro le morti bianche con
la costruzione dell’associazione ‘12 giugno’ formata da
familiari, operai Ilva attivi sulla sicurezza, ma anche tecnici,
giuristi, intellettuali, artisti, da cui si è tratta ispirazione per
la costruzione della Rete nazionale per la sicurezza sui posti di
lavoro che attraverso due straordinarie campagne ha costruito due
manifestazioni di classe e di massa, prima alla Thyssen e poi a
Taranto il 18 aprile del 2008, che hanno fatto diventare
effettivamente l’Ilva una questione nazionale, conosciuta e che ha
attirato ben prima degli ambientalisti operatori dei mass media ed
energie anche sul campo culturale – basti pensare alla spettacolo
di Attricecontro “Se questo è un operaio, viaggio nell’inferno
dell’Ilva”, all’importante documentario di Valentina D’Amico
“La svolta”. E tutto questo non ha mai avuto come obiettivo
quello di cancellare la fabbrica, bensì quello di elevare la
coscienza di classe degli operai e stringere tutti intorno alla
battaglia che si conduce in fabbrica, al fianco degli operai contro
il sistema Riva, una delle forme del fascismo padronale ancor prima
di Marchionne.
Lo
Slai cobas intorno a battaglie quali quella sulla “palazzina Laf”,
i processi contro le morti bianche, il caso “Nuova Siet” che
riguardava il sistema di truffa ed estorsione negli appalti Ilva e
non solo, aveva già colpito, sia pur principalmente nelle aule del
Tribunale, Riva e incoraggiato i magistrati a fare con più decisione
la loro parte. La definizione “Riva assassino” sui muri
dell’Ilva, per la quale la dirigente dello Slai cobas è stata
processata e assolta in un confronto/scontro diretto con padron Riva
in persona, ha indicato la strada, per la quale vi sono ora
condizioni migliori, purchè non se ne abbandoni l’orientamento di
classe e di guerra al capitale.
Ora
che l’Ilva è tornata in forma così evidente all’attenzione
nazionale, tutte le realtà di classe del nostro paese sono chiamate
a scendere in campo, cosa possibile solo se sanno distinguere
l’apparenza dalla sostanza, l’autonomia operaia,
l’organizzazione, la lotta di classe.
ASSEMBLEA
POPOLARE AI TAMBURI
Il
“Comitato lavoratori e cittadini liberi e pensanti” ha tenuto l’8
agosto, dopo una prima assemblea, una nuova assemblea in piazza ai
Tamburi – il quartiere più vicino all’Ilva e più inquinato con
un tasso di morti di tumore da record nazionale - di oltre 200
persone, dando così continuità alla contestazione del 2 agosto e
anche una prima risposta alle 41 denunce con cui questura e sindacati
confederali hanno risposto alla contestazione.
Operai
Ilva, pensionati Ilva, giovani disoccupati, rappresentanti dei
miticultori danneggiati dalla diossina, ma soprattutto donne del
quartiere e anche di altre realtà che hanno raccontato in forme
vive, molto commoventi quanto alto sia il prezzo di vite che si sta
pagando per responsabilità dei padroni (privati e prima pubblici)
del siderurgico e delle Istituzioni, dei politici e dei sindacati
confederali, che si sono posti al loro servizio, fino a vendersi
anche concretamente, come comincia ad emergere anche dall’inchiesta
parallela sulla corruzione. Sono proprio le donne, insieme ai
giovani, ad essere l’anima nuova di questa battaglia del quartiere
con 18 mila abitanti e a 200 metri da uno dei settori più nocivi
dell’Ilva: i parchi minerali. Le donne, prendendo coraggio anche
dal loro dolore per i morti, le sofferenze, le preoccupazione dei
figli - alcune parlavano in piazza per la prima volta – hanno fatto
forti appelli a scendere in piazza tutti, ad alzare la testa e
riprendere la dignità, perché indietro non si può tornare;
dall’altra hanno posto con più nettezza il fatto che la battaglia
per la salute e il lavoro devono andare insieme, che i lavoratori
Ilva continuino a lavorare ma la fabbrica si deve mettere realmente a
norma.
Questa
chiarezza è necessaria a fronte di altri interventi e posizioni che
in maniera superficiale e oggettivamente demagogica sostenevano che
l’Ilva deve chiudere, che se si perde il lavoro basta poi
“rimboccarsi le maniche”, che a Taranto vi sarebbero “tante
possibilità di lavoro” se ci si libera delle fabbriche inquinanti,
dei territori occupati dalla Marina, ecc.
I
giovani, provenienti anche dall’area ultras, hanno dato linfa alla
volontà di ribellione e rivolta che non tocca solo il problema di
non volere una fabbrica produttrice di morte e inquinamento ma anche
di volere una città libera dalla disoccupazione, precarietà,
mancanza di futuro – a Taranto – ha detto un operai Ilva vi sono
tante grandi aziende, ugualmente inquinanti (vedi Eni, Cementir,
Evergreen, Marcegaglia, ecc.), ma c’è il 40% di disoccupazione.
Forte
è stata anche la denuncia del voluto disinteresse, abbandono del
quartiere da parte di Comune, Provincia, politici, del ruolo
connivente di Tv e stampa locale, sui libri paga di Riva; così come
del fatto che gli abitanti dei Tamburi stanno subendo tutti i mali e
i guasti delle scelte economiche e politiche e gli viene negato anche
un minimo di contropartita – Tamburi – ha detto qualcuno –
dovrebbe essere almeno considerata “zona franca” per gli
abitanti, perché non paghino le tasse, l’Imu sulle case piene di
minerale dell’Ilva, perché i malati per l’inquinamento
ambientale abbiano le cure gratuite, ecc.
Tornando
all’Ilva si è denunciato il legame governo/Riva: come fa un
governo che ha avuto soldi freschi da Riva per l’Alitalia ad
andargli contro? Come mai oggi si dice che l’Ilva è un bene di
tutto il paese, ma nel ’95 si è svenduta a Riva e oggi non si dice
che sia lo Stato a riprendersi la fabbrica? Si è denunciato, infine,
in più interventi che lo stanziamento da parte del governo di 336
milioni è una presa in giro, tenuto conto poi che una parte di
questi soldi è destinata ad altro, al porto.
Un’assemblea
popolare nel senso pieno della parola che si prende il diritto di
parola e intende chiamare a raccolta anche gli altri quartieri della
città. L’assemblea si è aggiornata dopo ferragosto.
Effettivamente
pensiamo che una rete popolare di Comitati di quartiere, a partire
dai Tamburi, serva a far avanzare questa battaglia, ed essere parte
di un fronte unito con gli operai in fabbrica. Questa battaglia
cominciata deve andare fino in fondo.
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