[Editoriale di www.infoaut.org ]In questi giorni si è fatto un gran parlare di un episodio di scarsa rilevanza politica, sociale e persino sanitaria, il ferimento alla gamba di un dirigente dell’Ansaldo, a Genova. Il ministro Cancellieri lancia messaggi intimidatori ai movimenti, mentre il povero Bersani rispolvera tentativi di limitare l’espressione del dissenso, degni di una Germania d’Autunno da operetta. E noi, che facciamo? Beh, non possiamo che mandare i nostri auguri a loro e a Monti, che vive in un paese pieno di disagio sociale: riusciranno i nostri eroi nella titanica impresa di convincere le italiane e gli italiani (e le immigrate e gli immigrati) che un vita migliore è compatibile con la loro presenza in questo sistema solare? Ben altre, rispetto al ferimento di Genova, sono le preoccupazioni reali delle persone che, in un modo o nell’altro, vivono cercando di pagare un debito, o cercano un lavoro che permetta loro di arrivare alla fine del mese. Lo dimostra il fatto che dalle agenzie delle entrate a Equitalia, dalle sedi di comuni e regioni alle ferrovie, fino alle curve degli stadi, la casta italiana e i suoi tentacoli strozzinari sono sotto attacco diffuso con manifestazioni, contestazioni, incursioni e assalti: l’Italia degli sfruttati ribolle di rabbia. La casta giornalistica è, in questo scenario, tutta votata al tentativo di fornire alle vittime una distrazione dai propri problemi, al costo di 1.50 euro (o del canone RAI, o di un quintale di pubblicità): in questi giorni i suicidi e le manifestazioni sono diventati notizie datate, presto lo diventerà anche la rivendicazione del ferimento di un manager.
Distrazioni che durano poco, il tempo della lettura di un articolo, il tempo per gli infermieri di estrarre una pallottola. Bersani si è ricordato degli operai, all’epoca della riforma del lavoro, recandosi in visita all’Ansaldo per dire loro che occorre fare attenzione “alle parole che si usano”, affinché i “terroristi” non abbiano “l’acqua in cui nuotare”; la Cancellieri ne ha approfittato per attaccare il Movimento No Tav, “madre di tutte le preoccupazioni”. Gli squali della politica sanno che l’episodio di Genova non ha alcuna connessione reale con le proteste sociali che hanno luogo in Val Susa come a Genova o nel resto d’Italia, da Napoli a Termini Imerese; ma sanno anche che l’eco del gesto può essere usata contro di esse. State zitti adesso, e sentitevi controllati – dice la politica di palazzo – in Val Susa e altrove. Ma non è così che funziona: non stiamo e non staremo zitti, e queste dichiarazioni sono espressione della difficoltà che il governo ha con il carattere capillare delle proteste vere, quelle sociali, e della necessità di trovare occasioni buone per (1) instillare la paura dei movimenti e dei militanti antagonisti nella popolazione, affinché li percepisca come dei fanatici pronti ad agire come solitari, anche in contrasto con le sensibilità di chi sta iniziando a far sentire la propria voce e (2) sbandierare una maggiore militarizzazione degli spazi urbani, che sarà in realtà inesistente, per ridurre invece ulteriormente l’agibilità del dissenso con i già notevoli effettivi dispiegati sul campo, ben prima di questo episodio.
Questo non vuol dire, si badi, che dietro l’azione di Genova sia da vedersi una “mano occulta”, magari legata genericamente “allo stato” o “ai servizi”. Tutt’altro: c’è la mano di chi, prigioniero del proprio autismo più che delle indubbie coercizioni della società contemporanea, ha creduto con questo gesto di poter insegnare qualcosa ai movimenti e ai militanti che agiscono nelle lotte. Non agli altri, si badi: della società multiforme e complessa, meraviglioso bacino di insorgenza delle lotte, unica possibile fonte del cambiamento, nulla interessa alla FAI. Il “consenso” e i “cori in mezzo ai cortei” sono cose da poveracci, perdite di tempo: molto più sensato è il bel gesto “nichilista”, l’illuminazione che viene da chi ha avuto il colpo di genio di comprendere ciò che nessuno aveva compreso. Impostazione quanto mai ideologica, e presuntuosa, intrisa di quell’individualismo esasperato e venato di narcisismo che vede, con la tipica declinazione di una dottrina astratta, semplici casi di “alienazione” (politica? mentale, forse?) nelle altre forme di protesta.
Allora anche un episodio irrilevante può essere occasione per ricordare – non lo si fa mai abbastanza – che la distruzione dell’esistente, se mai sarà possibile, sarà prodotta da mutamenti nei rapporti di forza in seno alla società, che siano in grado di provocare una trasformazione della società tutta. Non possiamo sapere se riusciremo in questo intento, né quando ci riusciremo, ma sappiamo che soltanto allargando i margini della rabbia, coinvolgendo nuove persone (migliaia, milioni di persone) nelle proteste, riproducendo forme di resistenza diffuse e di massa avremo chance di vittoria. Tutto il resto è guardarsi l’ombelico pensando di fare altro, e magari guardarselo in televisione, come chi ha scritto la rivendicazione in questi giorni sta facendo: i media, grande satana contro cui spesso si scagliano i (grezzi) strali di alcuni, diventano unico interlocutore di fatto per pratiche pensate esclusivamente entro una consapevole cornice spettacolare, e dunque prive di qualsiasi autonomia sul piano del rapporto tra forze vive e merci. Un’ambivalenza, quella dei media, e quella dell’autonomia delle pratiche dalla loro vendita narrativa, che vive chiunque agisca nelle lotte; ambivalenza che si annulla là dove chi agisce desidera di fatto scomparire interamente dentro i meccanismi della notizia o del flash, come accade in questo caso e come era già accaduto, su altri versanti, ai tempi dei finti scontri a mani alzate contro (?) la polizia.
L’indipendenza della prassi dalle forme di mera rappresentazione del conflitto, e della sua riproduzione esclusivamente commerciale, è un presupposto, a ben vedere, dell’affermazione rivoluzionaria dei soggetti sociali, che è tale soltanto se è di massa: dell’autonomia, del comunismo o dell’anarchia di quattro sfigati non importa niente a nessuno. Accostare antagonismo e consenso dovrebbe essere, anche per questo, l’ossessione quotidiana di un militante o di una militante rivoluzionari: se non altro perché il potere democratico/consumistico cerca da sempre di impedire il pericoloso connubio tra desiderio di trasformazione e contaminazione sociale di questo desiderio, ben sapendo che in questa idea soltanto è scritta la parola della sua fine. Ogni giorno, in ogni pratica di liberazione, di aggregazione sociale e di azione diretta, dobbiamo porci l’obiettivo di sfatare il mito per cui cercare consenso equivale ad ammorbidire le posizioni, mentre mantenerle antagoniste significa rinchiudersi in un ghetto e, questa volta sì, nell’alienazione (sociale: inavvertitamente o con entusiasmo, a seconda delle ideologie di provenienza). Se insistiamo sul concetto di autonomia, fino a scriverne il nome sulle nostre bandiere, è perché desideriamo abbastanza la distruzione dell’ordine esistente delle cose da porci effettivamente, e senza simulazioni, il problema della sua realizzazione: i soggetti delle lotte devono riuscire a sperimentare forme di mobilitazione che incrinino i rapporti di forza esistenti nella società. Là dove non ci sono soggetti sociali, ma monadi individualistiche, e non ci sono lotte o conflitti, ma gestualità spettacolarizzanti, la questione dell’autonomia neanche si pone. E ciò per un motivo semplice e importante, che è il vero fulcro di tutta questa irrilevante faccenda: che là dove regna l’autismo non si pone, in primo luogo, il problema della vittoria.
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