giovedì 23 ottobre 2025

pc 27 novembre - infoaut su guerra e palestina - Pensiamo che lanciare un appuntamento nazionale a novembre... - info

Quando abbiamo lanciato la proposta di un percorso unitario che avesse come ispirazione la costruzione di un processo contro la guerra e per la fine del genocidio in Palestina le condizioni in cui lo abbiamo fatto erano molto diverse. 

Quest’estate, la necessità di fare un tentativo di ricomposizione che vedesse come priorità la pratica di un obiettivo per piegare le scelte politiche del nostro Governo, e che desse un segnale forte contro il riarmo e in solidarietà alla Palestina e al suo popolo che resiste si inseriva in un quadro di quiete prima della tempesta. 

Oggi una piccola tempesta ha scombinato tutto. Abbiamo vissuto giorni che valgono anni. Abbiamo praticato collettivamente, a centinaia di migliaia, in milioni, degli obiettivi grazie alla messa in pratica dello slogan “blocchiamo tutto”. 

Sul piano generale inoltre, principale bussola per orientare il nostro agire, vediamo l’avviarsi di una tregua che apre grandi questioni rispetto a come si svilupperà la situazione sul territorio; come si porranno i nostri governi nella futura “ricostruzione” di Gaza, quali saranno gli interessi, chi ci vorrà guadagnare, chi dovrà pagare per un genocidio e per un’occupazione che non è ancora finita; quali sviluppi e accelerazioni avranno le politiche belliciste e di riarmo nel nostro paese e non solo. Un ulteriore elemento di prospettiva ce lo deve dare la missione della Flottilla, da considerarsi come un soggetto a tutti gli effetti parte integrante e motore del movimento, con il quale mettersi in connessione. Così come lo sono i lavoratori portuali, con i quali occorre stabilire sintonia nell’iniziativa, per sostenerli e per scambiare competenze e saperi.

Pensiamo che lanciare un appuntamento nazionale a novembre in questa fase non risponda più alle esigenze che riscontravamo soltanto un paio di mesi fa. A fronte della velocità con cui la Storia oggi va avanti pensiamo sia fondamentale non collocarsi al di fuori di essa ma immergersi in questo momento storico e cogliere le necessità, nuove, che impone. 

Questo ragionamento ci spinge dunque a sospendere l’idea di una manifestazione nazionale a Roma per l’8 novembre perché sarebbe fuori tempo e fuori contesto. Pensiamo che sia fondamentale allo stesso tempo contribuire a rendere duraturo il movimento. Per fare questo diamo alcune indicazioni che guardano ad alcuni aspetti che ci sono sembrati preponderanti in queste settimane: la geografia della lotta, l’efficacia, la capillarità. 

In questo senso dunque, invitiamo a costruire momenti di confronto e partecipazione con chi ha preso parte alle iniziative di mobilitazione di queste settimane; a darsi gli strumenti per rimanere in contatto e dare aggiornamenti in tempo reale delle iniziative; a coordinarsi per futuri momenti di blocco a livello nazionale, cercando di alimentare l’efficacia di dove si blocca, perché e chi. I carichi di armi, il loro trasporto e la logistica della guerra, la loro produzione, sono alcuni degli obiettivi da tenere a mente come centrali in questa fase. Il ruolo dei media mainstream nel narrare il genocidio e il ruolo dei governi occidentali; i tentativi di criminalizzare le lotte e chi ne prende parte; un cambio di passo nella gestione delle piazze; sono altri elementi su cui avviare un ragionamento complessivo e organico. 

Territorializziamo il processo di lotta e diamoci un tempo di verifica collettivo che possa permettere di ritrovarci e mettere a fuoco cosa serve e cosa non serve in questo momento storico per andare nella direzione di una ricomposizione e di una mobilitazione di massa duratura, contro i piani del governo che intende renderci tutti e tutte disponibili alla guerra. Abbiamo detto che la Palestina ci sta liberando, costruiamo il nostro percorso di liberazione oggi nelle scuole, nelle università, nei quartieri, nel lavoro, nei territori. 

Invitiamo a sostenere, partecipare e convergere nei prossimi appuntamenti che il movimento attuale si darà, nelle prossime occasioni di sciopero generale e a moltiplicare le iniziative territoriali capaci di indicare la logistica e l’infrastruttura della guerra come obiettivi sui territori ai quali guardare per continuare un processo di contrapposizione ai piani bellici, di riarmo e di “ricostruzione” coloniale che anche il nostro Governo sta già attuando per speculare e guadagnare dal piano di colonialismo di insediamento sedendosi al banchetto del “business della pace” in Palestina.

Mentre le macerie di Gaza raccontano l’ennesimo atto di pulizia etnica e annientamento coloniale, il governo italiano si prepara a “sedersi al tavolo della ricostruzione”.

Lo fa con toni solenni e parole come “pace”, “aiuto”, “stabilità”. Ma dietro le dichiarazioni umanitarie si muovono interessi, strategie e contraddizioni che svelano un’altra verità: la geopolitica al servizio del business.

A Palazzo Chigi si è riunita una task force interministeriale per coordinare gli interventi nella Striscia, a guidarla è Antonio Tajani, che ha annunciato la presentazione di un piano italiano all’ONU per la “ricostruzione politica ed economica” di Gaza, con l’Autorità Palestinese come interlocutore e i governi arabi come garanti.

Dietro l’apparente neutralità istituzionale, però, si profila un vecchio schema: l’Italia che partecipa a una “missione di pace” dopo aver sostenuto nei fatti la guerra.

La doppia morale del governo da una parte, Roma si propone come mediatrice umanitaria, dall’altra, vende armi a Israele: nonostante le parole di sospensione.

Mentre Gaza veniva cancellata a colpi di bombe, Roma preferiva il silenzio. Nessuna sanzione, nessun blocco alle esportazioni, nessun riconoscimento del diritto all’autodeterminazione palestinese. Oggi, gli stessi attori parlano di “ricostruzione” e “rinascita”. Ma cosa si ricostruisce, se prima si è reso possibile distruggere?

L’Italia partecipa attivamente alla missione europea EUBAM-Rafah, con un contingente di Carabinieri (vedi Tuscania Opuscolo No Base) impegnato nel controllo del valico tra Egitto e Gaza.
Ma il contingente italiano, già presente con una piccola unità, è pronto a essere ampliato fino a 250 militari e carabinieri, con l’obiettivo dichiarato di garantire “sicurezza e stabilità” e addestrare le future forze militari palestinesi nella Striscia, dentro il disegno di Trump, NATO e Israele di un governo “tecnico” e coloniale in chiave anti-Resistenza, con il rischio concreto di rafforzare un dispositivo di controllo più che di pace.

È il solito linguaggio delle “missioni post-conflitto”: addestramento, stabilizzazione, ricostruzione. Lo stesso già visto in Somalia negli anni ’90, dove la presenza italiana si è trasformata in un laboratorio di intervento militare travestito da cooperazione. Anche lì, tra affari, ONG cooptate e appalti miliardari, la ricostruzione è diventata terreno di conquista per le imprese “amiche” del governo. Anche allora, si parlava di “aiuti” e “democrazia”, ma i risultati furono corruzione, violenza permanente e consolidamento del potere delle élite.

Dietro la parola “ricostruzione” si muovono già gli interessi delle grandi aziende italiane del cemento, dell’energia e delle infrastrutture.
Webuild, Buzzi Unicem, Cementir, Leonardo, Terna, Italferr: nomi che ritornano ogni volta che una guerra apre nuove “opportunità” economiche. Le stesse imprese che in passato hanno partecipato e tutt’ora partecipano a grandi opere contestate, come il Ponte sullo Stretto, ad appalti nei paesi in guerra o a progetti ad alto impatto ambientale e sociale.
Ora si candidano per ricostruire ciò che l’industria bellica – di cui l’Italia stessa fa parte – ha contribuito a radere al suolo.

Ulteriore ipocrisia sono le proposte del MUR di avviare corsi telematici per il popolo palestinese colpito dallo scolasticidio e la costruzione di una nuova università in cooperazione con l’Italia: iniziative “nobili” da parte del Governo, se non fosse per le innumerevoli complicità tra le nostre università e il sistema accademico-militare-industriale israeliano, che migliaia di student in lotta contestano e su cui nessun Ateneo ha voluto prendere iniziative che non fossero timide, tardive, insufficienti. Con una mano si collabora con i carnefici nella scienza militare, industriale, tecnologica e ideologica del genocidio, con l’altra ci si propone come educatori delle “vittime”.

Tutto ciò rappresenta un’altra occasione per presentarsi come “partner affidabili” nel Mediterraneo, mentre si normalizza la guerra, l’occupazione israeliana come se fossero catastrofi naturali, e si dimenticano le responsabilità.

Per chi da mesi manifesta nelle piazze contro il genocidio, la complicità italiana è lampante.
Non bastano i comunicati di pace o le foto di ministri con caschi da cooperanti per cancellare il ruolo di un governo che ha venduto armi, sostenuto Israele e criminalizzato chi si schiera con la Palestina.
La “ricostruzione” annunciata a Roma non è segno di pace, ma l’ennesimo tentativo di ripulire l’immagine di uno Stato che partecipa alla guerra per profitto e per potere.

Nessuna pace è possibile se si ignora il colonialismo israeliano, se si continua a disumanizzare il popolo palestinese e a proteggere i suoi carnefici.
La vera ricostruzione di Gaza deve nascere da chi Gaza la abita e la resiste, non da chi ha contribuito a distruggerla e ora aggiunge mattoni e cemento al muro dell’oppressione.

 

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