Anche i braccianti si ammalano di covid-19
articoli di Angela Caporale, Annalisa Camilli e un’iniziativa dello Slai Cobas
Taranto: iniziativa dello Slai Cobas per contrastare il contagio tra le lavoratrici e i lavoratori braccianti
Nella provincia di Taranto le lavoratrici e i lavoratori braccianti, o che operano nelle aziende ortofrutticole della Regione, si ammalano a decine di covid
In un’azienda ortofrutticola di Locorotondo, per esempio, sono parecchie le lavoratrici contagiate, e in questa azienda vanno a lavorare da Talsano circa 40 persone.
A tutto questo aggiungono ricatti, minacce verso le lavoratrici di perdere il lavoro se si mettono in malattia. Certo queste minacce non sono nuove, ma oggi chi va a lavorare con un minimo di febbre o malessere, può contagiare le compagne di lavoro.
Occorre uscire dal ricatto e dalla paura. La vera paura che si deve avere è di ammalarsi, col rischio anche di morire – perché la situazione in Puglia, e anche in provincia di Taranto, va molto peggio della prima fase.
Ci vuole organizzazione, per non lasciare nessuna/nessuno a vedersela da soli con i padroni.
I sindacati confederali, se pur denunciano questa situazione, si affidano soprattutto agli Enti di controllo, che il più delle volte non arrivano, o arrivano tardi.
Noi dobbiamo affidarci alle nostre forze, prima di tutto!
Le lavoratrici Slai Cobas sono a disposizione, per incontrarci, fare assemblee nei paesi, in sicurezza e senza esporre nessuna ai ricatti delle aziende.
contattateci: slaicobasta@gmail.com – tel. 3339199075
L’emergenza coronavirus tra i braccianti di Rosarno – Annalisa Camilli
“Siamo stati abbandonati, non abbiamo avuto informazioni sulla diffusione del covid, la settimana scorsa ci hanno detto che alcune persone all’interno della tendopoli erano positive al test, ma non ci hanno detto chi erano, né li hanno separati dagli altri, ora dicono che i positivi potrebbero essere aumentati”. Mor Dembélé è un bracciante della Costa d’Avorio, vive da anni nella tendopoli di San Ferdinando, nella provincia di Reggio Calabria, e racconta una situazione esplosiva, dopo che la settimana scorsa uno dei ghetti più famosi d’Italia è stato dichiarato zona rossa da un’ordinanza regionale.
Nella notte tra il 16 e il 17 ottobre ci sono state proteste degli abitanti della tendopoli – in cui vivono circa 250 persone – che rifiutavano la decisione della regione di chiudere l’area in seguito all’individuazione di quattordici casi positivi su trenta tamponi effettuati. “Abbiamo passato sei mesi senza lavorare e ora ci dicono che non possiamo uscire ed entrare dalla tendopoli, il che corrisponde a un’ulteriore sospensione del lavoro nel momento in cui sta cominciando il raccolto. Nel frattempo non ci hanno dato mascherine, non ci hanno dato informazioni, ci hanno impedito di fare assemblee: è una situazione davvero pesante sia dal punto di vista sanitario sia da quello economico”, continua Dembélé, residente in Italia dal 2011.
Ad allarmare la giunta regionale sono le condizioni igienico-sanitarie dell’area che hanno determinato un’incidenza del 50 per cento di positivi tra i trenta sottoposti a test in una popolazione di più di duecento persone. Il 13 ottobre la regione aveva dichiarato zona rossa anche il campo di container nella zona industriale di Rosarno e le restrizioni sono state estese fino al 26 ottobre. Nel campo erano stati individuati venti positivi, isolati in tende montate in una zona adiacente al campo. La zona rossa nella tendopoli invece dovrebbe essere in vigore fino al 27 ottobre. “Abbiamo allestito sei tende per l’isolamento dei positivi”, afferma Fabio Costa, responsabile della tendopoli di San Ferdinando. “Ma i bagni rimangono in comune e non riusciamo ad assicurare un isolamento vero e proprio”, sottolinea. Ora la situazione sembra di nuovo calma, ma per giorni i braccianti hanno rifiutato il cibo distribuito dalla Caritas e hanno chiesto di poter uscire e andare a lavorare nei campi.
“L’istituzione della zona rossa dal punto di vista sociale mette in ginocchio dei lavoratori che, senza contratto, non possono avere nessun tipo di tutela”, spiega Ilaria Zambelli, operatrice di Medici per i diritti umani (Medu). Già a luglio l’ong aveva pubblicato il rapporto La pandemia di Rosarno, in cui ha raccolto dati e testimonianze sulla condizione critica dei braccianti agricoli durante l’epidemia, denunciando lo sfruttamento a cui sono sottoposti oltre alla mancanza di strutture per fare la quarantena e di un piano pandemico generale. “Nella tendopoli non sono state predisposte strutture per l’isolamento dei contagiati che si trovano a vivere in tende da campo, con l’inverno alle porte e con un possibile peggioramento delle loro condizioni di salute date dal freddo incombente e dalle basse temperature dei giorni scorsi”, continua l’operatrice.
“I servizi igienici sono condivisi, le persone positive devono essere subito spostate in luoghi idonei alla quarantena”, afferma Zambelli. Secondo le stime dell’Osservatorio Placido Rizzotto, sarebbero tra i 400mila e i 430mila i lavoratori agricoli in Italia che ogni anno sono irregolarmente impiegati dai caporali e gestiti in regime di dipendenza nell’ambito delle loro attività lavorative quotidiane. Di questi, più di 132mila sono impiegati in condizione di grave vulnerabilità sociale e forte sofferenza occupazionale, tanto da essere esposti, come rilevato per esempio nell’agro pontino laziale e in Calabria, a gravi patologie e al rischio quotidiano di perdere la vita a causa di incidenti sul lavoro.
Secondo il ricercatore Marco Omizzolo “quasi un lavoratore su due, in agricoltura, durante la pandemia è stato impiegato in modo irregolare. Se in genere più di 300mila lavoratori agricoli, ovvero quasi il 30 per cento del totale, lavorano ufficialmente meno di cinquanta giornate l’anno, sebbene in realtà ne lavorino almeno il triplo, durante la pandemia il numero delle giornate di lavoro registrate dalle aziende agricole è diminuito del 20 per cento, anche se con un aumento delle ore giornaliere effettuate e non registrate e dell’intensità di lavoro”.
Per il vicesindaco di San Ferdinando, Gianluca Gaetano, la situazione esplosiva nella piana è frutto di anni di politiche sbagliate che non hanno portato ad alcuna soluzione, a cui ora si aggiunge la crisi sanitaria. “Stiamo cercando di collaborare con tutte le organizzazioni che sul campo ci hanno aiutato in questi anni, ma denunciamo anche noi l’assenza di un piano regionale per affrontare la situazione. Con i braccianti non si può solo percorrere la strada della coercizione, bisogna invece assicurargli un sostegno sul breve periodo, e sul lungo periodo la tendopoli deve essere superata”. La nuova tendopoli costituita da 64 tende è stata allestita dopo lo sgombero della baraccopoli, voluto dall’ex ministro dell’interno Matteo Salvini nel marzo 2019. Si stima che oltre alle 266 persone alloggiate nella tendopoli, circa 1.500 braccianti vivano in casali abbandonati e masserie nelle campagne della piana.
Secondo Gaetano è necessario un piano sul breve periodo con un sostegno al reddito e sul medio periodo con un fondo per l’affitto e alloggi o foresterie per i braccianti della piana: “Al momento la morte della governatrice Santelli ha creato un vuoto di potere in regione, inoltre il mito del migrante untore sta spargendo il terrore e alimentando tensioni nel territorio”. Il sindaco di San Ferdinando ha inviato una lettera al prefetto e alla regione il 20 ottobre chiedendo un incontro e proponendo il “congelamento del numero dei migranti aventi diritto a permanere all’interno della struttura; l’allontanamento dei soggetti non autorizzati o privi di titolo a dimorare nel sito; l’espulsione dei migranti responsabili di danneggiamenti e di turbamento all’ordine pubblico; l’abbattimento definitivo delle tende superflue, oltretutto gravemente ammalorate; l’avvio di tutte le azioni utili alla accoglienza diffusa sul territorio, usando le risorse finanziarie garantite dall’assessore regionale Gallo”.
La mancanza di accesso agli ammortizzatori sociali da parte dei lavoratori della piana, che in molti casi non hanno contratti di lavoro, ha determinato una situazione sociale ancora più acuta, secondo gli operatori di Medu. “La recente sanatoria inoltre si è dimostrata del tutto inefficace nel campo dell’agricoltura e, nello specifico, nella piana di Gioia Tauro non ha portato all’emersione di nessun lavoratore”, continua Medu. Secondo l’organizzazione era prevedibile che con l’inizio della stagione agrumicola l’arrivo di lavoratori stagionali da altre regioni italiane potesse produrre un aumento dei contagi: “Ma le autorità non hanno disposto alcun protocollo specifico”.
Per Ilaria Zambelli di Medu, ora il rischio è che i lavoratori, che temono di perdere altre giornate di lavoro, nei prossimi mesi non si rivolgano neppure alle autorità sanitarie anche in caso abbiano i sintomi del covid-19 e che diventino ancora più invisibili, contribuendo alla diffusione della malattia. Per Francesco Piobbichi di Mediterranean Hope si tratta di “un disastro annunciato, che doveva essere evitato”. Per l’operatore, ora la situazione è ancora più critica perché i braccianti, che lavorano in nero o in situazioni di grigio, sono senza reddito e si è creata una tensione che non aiuta a risolvere la questione sanitaria: “Vogliono andare a lavorare a tutti i costi e non accettano la quarantena. Per riaprire il dialogo con loro bisognerebbe pensare a una forma di reddito di quarantena. E questo non vale solo per i braccianti della piana, ma per tutti i lavoratori essenziali che se messi in lockdown rischiano di rimanere senza sussistenza”.
“LA PANDEMIA DI ROSARNO”: IL RAPPORTO DI MEDU SULLA CONDIZIONE DEI BRACCIANTI PRE E POST COVID-19 – Angela Caporale
“Lo sfruttamento lavorativo e le pratiche illecite ampiamente diffuse, a cui si aggiungono la carenza di controlli e l’assenza di efficaci misure di contrasto alle illegalità sul lavoro, hanno impedito anche quest’anno l’accesso dei braccianti a condizioni di vita dignitose”: con queste parole Medici per i diritti umani, ong che opera da sette anni nella Piana di Gioia Tauro offrendo assistenza sanitaria e socio-legale ai braccianti impegnati nella raccolta agrumicola, commenta la stagione della raccolta 2020. Una stagione fortemente segnata dal Covid-19 e dalle misure attuate dal Governo a partire dal mese di marzo raccontata nel rapporto “La Pandemia di Rosarno” pubblicato nel mese di luglio.
PRE E POST COVID-19: LA RACCOLTA DELLE ARANCE A ROSARNO NEL 2020
La stagione agrumicola nell’area della Calabria dove opera la clinica mobile di Medici per i Diritti umani è partita nel mese di novembre 2019 e si è conclusa, dal punto di vista del monitoraggio, a maggio 2020. I decreti della Presidenza del Consiglio dei mesi primaverili e il lockdown hanno, prevedibilmente, condizionato la vita anche dei braccianti, nella totalità di origine straniera, che si trovavano ad abitare negli insediamenti informali della zona durante quel periodo.
MEDU, insieme alle altre associazioni e ai sindacati presenti sul territorio, ha continuato a operare fornendo assistenza sanitaria, ma anche informativa a chi si è trovato improvvisamente bloccato nella zona della Piana di Gioia Tauro senza potersi muovere verso la tappa e il lavoro successivi.
Nello specifico, l’ong ha rilevato la presenza di circa 2.000 braccianti stagionali di origine straniera distribuiti in parte nella nuova tendopoli di Rosarno, inaugurata nel 2019 con 440 posti, e in parte in insediamenti informali distribuiti nei Comuni di Rosarno, San Ferdinando, Drosi e Taurianova. La maggior parte di essi, l’81%, era presente sul territorio temporaneamente solo per la raccolta degli agrumi, e il 90% era dotato di un permesso regolare (richiedenti asilo, titolari di protezione internazionale, altri tipi di protezione, persone in fase di rinnovo e soltanto in minima parte, il 7%, presentava un permesso per motivi di lavoro).
CONDIZIONI DI VITA E LAVORO ANCORA UNA VOLTA NON DEGNE
I braccianti che vivono negli insediamenti informali della Piana di Gioia Tauro sono, dunque, nella zona per lavorare, nella maggior parte dei casi hanno un regolare permesso e nel 66% hanno dichiarato di avere anche un contratto di lavoro. Ma questi elementi, sottolinea MEDU, non sono garanzia di condizioni di vita e di lavoro degne.
Dal punto di vista agricolo, l’ong sottolinea come il caporalato sia ancora una presenza costante. Se è vero, infatti, che sei braccianti su dieci sono titolari di un contratto di lavoro, soltanto il 10% riceve effettivamente una busta paga e di frequente non sono riportate tutte le giornate svolte nei campi. Questa prassi, che rientra nell’ambito del lavoro grigio, fa sì che ai braccianti non possa essere poi riconosciuta la disoccupazione né di rinnovare e convertire il permesso di soggiorno.
In linea con gli anni precedenti – qui il rapporto relativo al 2019 e qui quello del 2018 – la paga giornaliera assegnata ai braccianti pari a 25/30 euro al giorno, a cui si aggiunge in molti casi il costo dei trasporti, gestito dai caporali, che viene a costare 4 euro a testa. Dal punto di vista sanitario, invece, gli operatori e i medici della organizzazione continuano a denunciare con forza l’inadeguatezza delle strutture dove gli stagionali si trovano a vivere. Si tratta di insediamenti informali, spiazzi, casali, dove non sono presenti carenze di elettricità e servizi igienici. In alcuni è addirittura assente l’acqua corrente.
IL SEGNO DELLA PANDEMIA SULLE VITE DEI BRACCIANTI
Le necessarie norme di distanziamento sociale e di limitazioni degli spostamenti per ridurre il rischio di contagio da Coronavirus hanno avuto un effetto anche sulle vite dei braccianti nella Piana di Gioia Tauro dove, all’inizio di marzo, la raccolta delle arance era quasi al termine. Medici per i diritti umani ha proseguito l’attività della clinica mobile, affiancando una costante e capillare azione di informazione, prevenzione e sorveglianza attiva nella consapevolezza che, se il contagio fosse arrivato negli insediamenti informali, sarebbe stata una emergenza nell’emergenza.
Fortunatamente, tra i braccianti non ci sono stati casi di Covid-19, ma la pandemia ha ugualmente avuto un impatto. In primo luogo, il rapporto spiega come sia stato impossibile, in questi spazi, garantire il distanziamento sociale e come la convivenza forzata abbia comportato un notevole stress psicologico per tutte le persone coinvolte. Le scarse condizioni igieniche degli insediamenti, inoltre, ha reso particolarmente complesso anche il rispetto delle norme igieniche di base, divenute ancor più fondamentali in questi mesi.
Medici per i diritti umani aggiunge che, nonostante l’agricoltura sia stato un settore che non si è mai fermato, è capitato a diversi braccianti di vedersi negata la possibilità di recarsi al lavoro. In molti, dunque, si sono trovati senza lavoro e senza reddito, privati anche della possibilità di accedere alle indennità Covid-19 promosse dal Governo poiché, anche in presenza di contratto di lavoro, non erano state loro riconosciute le effettive giornate lavorative, ma solo una parte non sufficiente per rispondere ai requisiti richiesti.
In conclusione, MEDU denuncia come “per l’ennesima stagione ha potuto constatare l’assenza di una volontà politica e di una pianificazione strategica volte ad incidere in modo significativo sul gravissimo fenomeno dello sfruttamento dei lavoratori stranieri in agricoltura nella Piana di Gioia Tauro.” Una situazione che si ripete, dunque, per cui gli interventi di contrasto allo sfruttamento e al caporalato ancora non sembrano dare i loro frutti, almeno per i braccianti impiegati nella raccolta degli agrumi in questa zona della Calabria.
Nessun commento:
Posta un commento