da un testo di Eros Barone 12 giugno 2018
Come
diceva Bertold Brecht? È un crimine più grande fondare una banca o
rapinarla? Bene, io a quella domanda come tutti sanno ho dato una
risposta. Ma guardandomi intorno oggi, sai cosa mi colpisce? Che
quarant’anni fa, Milano era più cupa, più sporca. Ma ad avere paura era
solo chi aveva il grano. Le porte delle case restavano aperte. Gli
operai che tiravano la lima alla Marelli lasciavano i ragazzini alla
vicina o in cortile. Oggi chi ha il grano paura non ne ha più. La paura è
dei disgraziati. Paura di essere scippati, violentati, accoltellati. E
sai cosa trovo ancora più incredibile? Che a dire «Al lupo, al lupo»,
però, sono rimasti sempre quelli che hanno il grano. Oggi uno che fa una
rapina prende quindici anni. Chi manda sul lastrico qualche decina di
migliaia di famiglie succhiandosi i loro risparmi, va bene se fa un mese
ai domiciliari. Il senso della comunità è andato a farsi fottere. E se
non c’è comunità, non c’è mito. Guardia o ladro che tu sia1.
Renato Vallanzasca
Il 25 settembre 1967 le vie di Milano furono teatro di una sanguinosa sparatoria tra un gruppo di rapinatori che, dopo aver dato l’assalto a due banche, stavano fuggendo a bordo di un’automobile, e le volanti della polizia che li inseguivano. Al termine di quella folle corsa durata quasi un’ora, corsa che si era snodata attraverso le vie della città coprendo una distanza di dodici chilometri, vi furono quattro morti e quattordici feriti tra i passanti e otto feriti tra le forze dell’ordine. Aveva così termine, con un furibondo conflitto a fuoco e l’arresto di tutto il gruppo nei giorni successivi, l’attività della “banda Cavallero”, che aveva operato tra Milano e Torino mettendo a segno i suoi colpi per quasi nove anni. I suoi componenti rispondevano ai nomi di Piero Cavallero, Sante Notarnicola, Adriano Rovoletto, Donato Lopez e Danilo Crepaldi. Il processo si concluse con la condanna all’ergastolo dei tre principali imputati e pene minori per gli altri due coimputati.
Prima del processo, su questo clamoroso episodio di apparente cronaca nera non mancò neanche un film, Banditi a Milano, realizzato dal regista Carlo Lizzani, che détte il suo virtuoso contributo alla ‘mostrificazione’ della “banda Cavallero”. Ma l’aspetto più sorprendente della vicenda fu quello che si ebbe nel corso delle udienze del processo, poiché gl’imputati, più che a discolparsi dei reati commessi, puntarono a rivendicarne le finalità ideali, appellandosi alla prospettiva di una rivoluzione proletaria per finanziare la quale ritenevano necessario dare l’assalto alle banche, emblematici “santuari del capitale”. Così, in coerenza con tale motivazione, quando i giudici déttero lettura della sentenza, i tre principali componenti della banda Cavallero si alzarono in piedi e, levando il pugno chiuso, intonarono “Avanti, siam ribelli”, celebre ‘refrain’ dello storico canto di protesta intitolato Figli dell’officina.
Le radici della “banda Cavallero” affondavano nell’ambiente proletario della barriera di Milano, uno dei quartieri operai della cintura torinese dove era maturata quella rivolta personale e istintiva contro la società borghese-capitalistica e le sue ingiustizie, che aveva trovato il suo sbocco nella scelta della lotta armata. Non a caso, l’esordio del gruppo, i cui componenti provenivano tutti da un passato di militanza comunista nel quartiere, era stato lo svaligiamento a mano armata delle casse della FIAT. Nel 1971, in tribunale, Cavallero dichiarerà di essere un precursore della lotta armata praticata dai gruppi filocinesi, e che il suo obiettivo era quello di compiere atti di propaganda capaci di impressionare l’opinione pubblica. Cavallero era infatti la figura carismatica del gruppo, il modello su cui si plasmò il giovane Notarnicola, arrivato a Torino dalla Puglia nel 1953. Questo giovane proletario meridionale tratteggerà la figura del ‘capobanda’ in questi termini: «In quel tempo conobbi Cavallero. Egli era dotato di una forte personalità… ed aveva un séguito di giovani che gli giravano intorno. Conobbi anche Crepaldi, il quale per me aveva un fascino particolare essendo stato uno dei più giovani partigiani; nel 1948, dopo l’attentato a Togliatti, fu il primo operaio torinese che innalzò la bandiera rossa su una ciminiera della FIAT. […] I miei idoli allora erano Lenin, Stalin, Togliatti e non i campioni sportivi o altro. […] Arrivò il 1956, il nuovo corso del partito comunista sovietico; smettemmo di sognare […]. Un giorno mi dissero che Stalin era stato un criminale; Togliatti diceva che non c’era più la rivoluzione. Nel partito c’era il caos. […] Ero turbato, confuso, erano caduti certi nostri miti. Cominciò così un periodo di lunghe discussioni e ripensamenti […]. Intanto Crepaldi, Cavallero ed io facevamo discorsi sulla maniera migliore di scuotere le masse: era necessario ricorrere al terrorismo per scuotere le masse? […] Cavallero proponeva di assaltare le banche; anche io ritenevo ciò politicamente giusto. […] Poi si decise di rompere gli indugi e attaccammo decisamente»2.
L’idea che animava il gruppo era quella di accumulare le risorse finanziarie per porre le basi di una organizzazione rivoluzionaria. I componenti del gruppo percepivano un modesto stipendio mensile e mantenevano, anche per non dare nell’occhio, il livello di vita precedente. Una parte del denaro accumulato fu investita in imprese economiche (una rimessa, una carrozzeria ecc.), che però non ebbero il successo sperato in vista del salto organizzativo sul terreno politico. Ma soprattutto quello che mancò fu un organico progetto politico, sicché, vuoi per l’isolamento prepolitico in cui rimase confinata vuoi per le carenze di elaborazione che ne condizionarono la prospettiva, la “banda Cavallero” fu soltanto un sintomo, ancorché politicamente premonitore, del crescente disagio socio-politico degli ‘anni del boom economico’, ma non ebbe la forza, le radici di massa e l’incidenza che caratterizzarono successivamente l’attività delle Brigate Rosse e degli altri gruppi combattenti: attività molto più articolata, diffusa e complessa in quanto filtrata dal grande ciclo delle operaie e studentesche esplose nel ‘biennio rosso’ 1968-’69.
Certo, la “banda Cavallero”, se da un lato evocava, insieme con la tesi politica della “Resistenza tradita” e con il mito romantico del bandito che insorge contro la società dei padroni, le esperienze reali vissute da coloro che, finita la Resistenza e il momento epico della lotta partigiana, non erano riusciti a reinserirsi nella vita normale – esperienze come quelle raccontate da Fenoglio nel romanzo La paga del sabato -, rispecchiava anche, da un altro lato, quella composizione di classe operaia e proletaria che, nel volgere di un breve lasso di tempo, avrebbe trovato, almeno in parte, la sua espressione politica e militare nel modello della lotta armata metropolitana elaborato e praticato dalle Brigate Rosse. Non a caso, quando durante il sequestro Moro le Brigate Rosse chiesero allo Stato la liberazione dei prigionieri rivoluzionari in cambio della liberazione di Aldo Moro, misero Sante Notarnicola all’inizio dell’elenco dei detenuti politici da liberare: riprova, questa, del ruolo politico riconosciuto a un militante comunista che era stato uno dei principali componenti della “banda Cavallero” ed era, in quel periodo, uno degli esponenti più lucidi e combattivi della rivolta contro il regime detentivo e il carattere totalitario dell’istituzione carceraria3.
Sta di fatto che la “banda Cavallero”, così come, quattro anni dopo, la “banda 22 ottobre” a Genova, rappresentano, nel crogiuolo incandescente degli anni Sessanta e Settanta, due importanti e significative manifestazioni, di stampo proletario e comunista, non meramente criminali se non per talune modalità di azione, di quella che è stata definita “la nascita maldestra della lotta armata in Italia”4. Uno dei riflessi, dunque, dei grandi eventi politici, sociali e ideologici mondiali che, a partire dalla rivoluzione cubana e dal tentativo di generalizzarla su scala continentale operato da Ernesto Che Guevara, passando attraverso l’epopea della guerra di liberazione vietnamita e la “grande rivoluzione culturale proletaria cinese”, per giungere alla rottura con il revisionismo moderno compiuta dalla Cina maoista e dai gruppi marxisti-leninisti che ad essa facevano riferimento, hanno segnato indelebilmente quel periodo storico5.
3 Notarnicola, .. ha avuto nel corso dei decenni successivi, trascorsi in gran parte in carcere a studiare, scrivere, discutere, istruire e organizzare rivolte, l’evoluzione politicamente e culturalmente più significativa (importante e pregevole è, ad esempio, la sua produzione poetica). Da questo punto di vista, si può legittimamente affermare che le lotte animate da Notarnicola e da altri detenuti, come lui coscienti e combattivi, hanno contribuito a rendere possibile la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 e la legge Gozzini del 1986. Notarnicola, dopo avere scritto un libro autobiografico sulla sua drammatica esperienza nelle carceri, intitolato L’evasione impossibile e pubblicato da Feltrinelli nel 1972, tentò anche materialmente di evadere. Così ha raccontato in un’intervista la sua “evasione impossibile”: «A Favignana le celle erano state costruite su una vecchia cava di tufo, l’umido aveva creato una camera d’aria […]. Noi l’avevamo capito e così scavammo un lunghissimo tunnel che finiva oltre il muro di cinta […]. Ci volle un anno e mezzo […]; infine riuscimmo a guardare le stelle in libertà, ma non a scappare. Eravamo su un’isola».
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