La
strage di Bologna del 2 agosto 1980, avvenuta alle 10:25 presso la
Stazione Centrale, provocò la morte di 85 persone, ne ferì o mutilò
oltre 200 e, secondo la sentenza di primo grado emessa l’11 luglio 1988,
fu causata da una carica esplodente, collocata nella sala d’aspetto di
seconda classe, probabilmente all’interno di una borsa-valigia.
Di
preciso, non sappiamo se oltre alla bomba collocata nella sala
d’aspetto di seconda classe ce ne fosse un’altra, esplosa per
“contagio”, nelle vicinanze.
Possiamo,
ad ogni modo, cercare di conoscere quali fossero i materiali esplosivi
che provocarono quella colossale tragedia senza dover credere che si
tratti di una scelta bizzarra. L’argomento è di per sé ostico ma
affrontarlo ci permetterà di capire qualcosa in più a livello politico e
storico.
Mentre
si potrebbero fare tante discussioni – per lo più indiziarie come
purtroppo succede in Italia – sugli esecutori, sui mandanti, sulle
motivazioni o sulla presunta “involontarietà” della strage in questione,
non c’è davvero molto da discutere sulla composizione dei materiali
esplosivi che la provocarono.
Per questo motivo, l’attenzione è qui concentrata sull’“arma del delitto”, l’unico punto rispetto al quale ci dovrebbero essere minori possibilità di errore.
L’odore del tritolo e la necessaria presenza anche del T4
Prima delle perizie ufficiali, il maresciallo artificiere dell’esercito Salvatore Scrofani (“Un
esplosivo molto facile da fabbricare”, Stampa Sera, 4 agosto 1980) e l’esperto Francesco Ricci (“Una bimba di 8 anni è l’ultima vittima”, Secolo d’Italia, 5 Agosto 1980) affermarono che l’esplosione sarebbe stata causata da un ordigno a base di nitrato ammonico, un materiale facilmente reperibile, di costo relativamente basso e di solito usato nelle cave.
esplosivo molto facile da fabbricare”, Stampa Sera, 4 agosto 1980) e l’esperto Francesco Ricci (“Una bimba di 8 anni è l’ultima vittima”, Secolo d’Italia, 5 Agosto 1980) affermarono che l’esplosione sarebbe stata causata da un ordigno a base di nitrato ammonico, un materiale facilmente reperibile, di costo relativamente basso e di solito usato nelle cave.
Scrofani
e Ricci pensavano che, in tale ipotesi, fra i materiali esplosivi ci
fosse soprattutto il tritolo (TNT) e, considerando la circostanza per
cui solo 100 chili circa di tritolo avrebbero potuto provocare
una strage così catastrofica, ipotizzarono che fosse basato sul nitrato
ammonico. E secondo Scrofani avrebbe dovuto pesare almeno 40 chili.
In effetti, diversi testimoni parlarono del tritolo: “Dice
un ferroviere, appena sceso dalle macerie: «Subito dopo lo scoppiò si
sentiva il classico odore della polvere da sparo». Un volontario,
Antonio Teora, accorso in stazione appena saputo dell’esplosione. dice
che anche lui e altri hanno sentito «l’odore di tritolo»” (“Si fruga con le pale e con le mani nella nube di polvere, tra le grida”, di Gian Pietro Testa, l’Unità, 3 agosto 1980).
Altre
persone esperte in materia, pur avendo saputo che l’odore del tritolo
era stato sentito da svariati testimoni, ritenevano invece che fra i
materiali esplosivi della strage di Bologna ci fosse anche una
significativa presenza di T4 (RDX), un materiale assai più potente della
nitroglicerina e della pentrite, e più facilmente trasportabile.
Sul T4, che nell’Italia del 1980 non era di facile reperibilità, una valutazione pubblicata in un articolo del quotidiano La Stampa parlava della sua possibile provenienza dalla Francia, dove “lo si trova con dovizia al mercato clandestino perché è usato diffusamente per certi lavori in cava, oltre che dall’esercito” (“Forse si è usato il T4, l’esplosivo impiegato contro De Gaulle” di Gianni Bisio, La Stampa, martedì 5 agosto 1980).
Nel
medesimo articolo, da quanto riporta il giornalista Gianni Bisio, due
periti del tribunale di Torino, il prof. Aurelio Ghio e il dott. Ennio
Mariotti, affermarono che “i reperti, accuratamente analizzati (anche
chimicamente) potranno dire molto. Si potranno trovare tracce di
clorati, perclorati o nitroderivati e stabilire subito la «famiglia» cui
appartiene l’esplosivo usato. Il prof. Ghio fa osservare che anche sui
finestrini dei vagoni dell’«Adria Express», investiti dallo scoppio,
potrebbero esserci delle «microtracce» indicative.”
Infine,
sempre nel medesimo pezzo, l’autore chiese al professor Ghio se una
valigia carica di esplosivo potesse scoppiare anche per cause
accidentali e l’esperto rispose che tale eventualità sarebbe “tecnicamente possibile e le spiegazioni sono diverse: carenza di precauzioni, difetto nel «timer», nel detonatore chimico”.
A
quel punto, anche nella pur debole ipotesi che l’esplosione si fosse
verificata per motivi accidentali, qualcuno avanzò l’ipotesi che i
materiali esplosivi provenissero da un furto in “qualche santabarbara della Nato o di un reparto specializzato militare italiano” (“Il micidiale «T4» già usato dai fascisti a Peteano”, l’Unità, giovedì 7 agosto 1980).
Prima
delle perizie ufficiali, diverse persone quindi parlarono di T4 (RDX) e
tritolo (TNT) come i materiali esplosivi più importanti che avevano
provocato la strage alla stazione di Bologna.
Intanto,
stante un apposito incarico ricevuto dal capo della Procura di Bologna
Ugo Sisti, già dal 4 agosto Bruno Spampinato, della direzione di
artiglieria di Firenze e del Sismi, e il vicequestore aggiunto dott.
Errico Marino, dirigente del centro regionale di polizia scientifica di
Bologna, iniziarono a svolgere i rilevamenti sull’esplosione.
Ad
essi, che già avevano indagato sulla strage (con 12 morti) avvenuta
nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 sul treno Italicus, mentre
quest’ultimo transitava presso San Benedetto Val di Sambro (Bo), in un
secondo momento si aggiunsero altri due periti.
La perizia depositata il 23 dicembre 1980
Il
23 dicembre 1980 fu depositata una relazione di perizia
chimico-esplosivistica il cui contenuto venne poi ripreso dalla sentenza
di primo grado emessa in data 11 luglio 1988.
“L’innesco
della carica, composta da Kg. 20-25 di esplosivo gelatinato di tipo
commerciale (costituenti principali: nitroglicerina, nitroglicol,
nitrato ammonico, solfato di bario, Tritolo e T4 e, verosimilmente,
nitrato sodico), era molto probabilmente costituito da un temporizzatore
artigianale-terroristico di natura chimica. I citati componenti e le
modalità di esecuzione consentono di escludere la mancanza di dolo,
ovvero la accidentalità del fatto.” (sentenza di primo grado emessa
l’11 Luglio 1988; cfr. verbale di deposito in PA, V1, C1, p21. formulati
il 2 agosto ed il 16 settembre precedenti).
Tale perizia ebbe però dei limiti abbastanza chiari.La carica esplosiva della strage alla stazione ferroviaria di Bologna, oltre a sbriciolare la sala d’aspetto di seconda classe e a sfondare quella di prima classe, aveva sventrato un ristorante e due vagoni del treno Adria Express 13534 Ancona-Basilea, fermo sul primo binario.
“È passato un quarto d’ora appena dall’esplosione. La palazzina, a fianco del corpo centrale della stazione, dove c’erano le sale d’aspetto di prima e seconda classe e l’entrata ai sottopassaggi, è ora un buco, attraverso il quale si vedono i treni fermi sui binari. Si vede la tettoia di ferro del primo binario completamente squarciata e sotto quella tettoia le carrozze 611 e 612 di prima classe dell’Adria Express, il convoglio straordinario n. 13534 che era in partenza e che la deflagrazione ha investito in pieno.” (“All’improvviso un boato terrificante e ho visto la stazione saltare in aria”, Gian Pietro Testa, l’Unità, 3 agosto 1980).
Stante quello scenario, così come aveva sollecitato il perito del Tribunale di Torino Aurelio Ghio (“Forse si è usato il T4, l’esplosivo impiegato contro De Gaulle” di Gianni Bisio, La Stampa, martedì 5 agosto 1980), le autorità competenti avrebbero dovuto fare in modo che si cercassero subito tutte le eventuali “microtracce” dei materiali esplosivi anche nella tettoia squarciata del primo binario e nelle carrozze 611 e 622 dell’Adria Express.
Si mossero invece in modo molto diverso. Almeno a livello ufficiale, prelevarono solo dei residui di materiale inesploso ritrovato nel terriccio del cratere e su alcuni reperti raccolti nelle vicinanze del luogo dell’attentato.
Elusero i criteri stabilititi dall’esplosivistica giudiziaria rispetto ai casi di esplosioni “concentrate”, i quali prevedono di setacciare in tempi relativamente rapidi l’area anche nel raggio di diverse decine di metri dagli epicentri acclarati.
Per questo motivo, non prelevarono in tempi ragionevoli tutte le possibili “microtracce” di materiali esplosivi presenti sulle carrozze e sui carrelli del treno Adria Express 13534 Ancona-Basilea.
Secondo la sentenza emessa in data 11 Luglio 1988, le “microtracce” di esplosivo presenti sulle carrozze e sui carrelli del treno Adria Express furono prelevate solo il 19 settembre 1980 e, a rigor di logica, erano di quantità senza dubbio inferiore rispetto a quelle che si sarebbero potute trovare nei giorni successivi alla strage.
Mentre rispetto alla strage di Brescia del 1974 i periti fecero dei rilevamenti solo dopo che qualcuno aveva ben lavato la piazza in cui, ad una manifestazione antifascista, morirono 8 persone e ne rimasero ferite altre 102, per la strage di Bologna i periti cercarono delle “microtracce” sulle carrozze e sui carrelli del treno Adria Express 13534 Ancona-Basilea 48 giorni dopo la strage stessa!
Dal 2 agosto al 19 settembre 1980, in quasi sette settimane, la situazione meteorologica bolognese cambiò diverse volte ma, senza dubbio, come possiamo verificare grazie ad una semplice ricerca su Internet, le giornate peggiori furono il 16 agosto con 12 mm di pioggia, il 28 agosto con 4 mm, il 6 settembre con 7 mm e il 10 settembre con 16 mm.
In quel contesto, insomma, la pioggia eliminò diverse “microtracce” ma non certo il comportamento del tutto sbagliato di chi avrebbe dovuto fare in modo congruo i rilevamenti sui materiali esplosivi che avevano causato la strage alla stazione di Bologna.
I primi periti dissero di aver individuato i più probabili costituenti della carica esplosiva (“nitroglicerina, nitroglicol, nitrato ammonico, solfato di bario, Tritolo e T4 e, verosimilmente, nitrato sodico”) ma, stante l’eccessivo ritardo nei prelievi delle microtracce e visto che tale circostanza non poteva che condizionare i risultati della perizia stessa, ritennero che la strage di Bologna sarebbe stata provocata dall’esplosione di una bomba costituita da “gelatinato di tipo commerciale”, un esplosivo da cava, rubato o acquistato sul mercato clandestino, che contiene solo una piccola percentuale di tritolo e di T4.
L’operazione “terrore sui treni”
La perizia depositata il 23 dicembre 1980 doveva essere segreta e conosciuta solo dai magistrati di competenza, ma il colonnello Ignazio Spampinato diede al suo superiore Federico Mannucci Benincasa, capogruppo del Sismi di Firenze, e – tramite questi – a Giuseppe Santovito, direttore del Sismi, notizie e proprie valutazioni sui materiali esplosivi della strage di Bologna.Poco dopo, il 9 gennaio 1981, ci fu un incontro a Parigi fra il direttore del Sismi Giuseppe Santovito, l’agente segreto e faccendiere italiano Francesco Pazienza, Michael Ledeen (uomo della Cia, giornalista e scrittore, cittadino statunitense e israeliano, neocon, sostenitore del repubblicano Reagan nonché grande amico del democristiano Francesco Cossiga) e i servizi segreti militari francesi.
Da quel giorno, il signor Pietro Musumeci del Sismi si sentì legittimato a organizzare l’operazione “terrore sui treni”. Quest’ultima, messa in scena il 13 gennaio 1981 alla stazione ferroviaria centrale di Bologna, precisamente sul convoglio Taranto-Milano, consisteva nel far trovare proprio lì un mitra MAB, un fucile automatico da caccia, due biglietti aerei Milano-Monaco e Milano-Parigi, oggetti personali di due estremisti di destra, un francese e un tedesco, chiamati Raphael Legrand e Martin Dimitris (vedasi: Carlo Lucarelli, Nuovi misteri d’Italia. I casi di Blu Notte, Torino, Einaudi, 2004), connessioni a decine e decine di persone, per la maggior parte straniere e neofasciste ma perfino diverse di estrema sinistra come quelle collegate all’Eta, e degli esplosivi.
Fra questi ultimi c’erano due barattoli contenenti gelatinato del tipo stabilizzato con solfato di bario, cioè “un esplosivo per impieghi civili”, e sei barattoli contenenti del Compound B, “un esplosivo di impiego militare” costituito molto probabilmente da “materiale di recupero dalla scaricamento di munizioni” (perizia chimico-esplosivistica comparativa).
Con l’operazione “terrore sui treni”, il Sismi decise di mettere in pratica una strategia del caos che
di fatto, in particolare dopo le contraddizioni emerse fra i paesi
dell’Alleanza Atlantica a causa della strage di Ustica del 27 giugno
1980, quando un’azione bellica (probabilmente di un paese difensore dei
“valori” dell’Occidente) abbatté a Ustica l’aereo civile DC 9
dell’Itavia partito da Bologna e diretto a Palermo, ebbe il significato
di suggellare una rinnovata unità fra il Sismi italiano, lo Sdece
francese e, tramite Michael Ledeen, i servizi segreti statunitensi e,
logicamente, anche quelli israeliani.
Tutti questi servizi segreti avallarono una falsa pista internazionale (per lo più contro i neofascisti) per diversi motivi: alimentare il caos sulle indagini relative alla strage di Bologna;
attutire le precedenti contraddizioni fra di loro;
far dimenticare quasi del tutto la strage di Ustica;
non far sapere nulla del fallito golpe in Libia del 6 agosto 1980 per eliminare il regime di Gheddafi, considerato nemico assoluto
soprattutto da paesi come la Francia, la Gran Bretagna e Israele e da
reazionari italiani residenti in territorio libico come Aldo Del Re,
personaggio in contatto con Roberto Rinani, a sua volta fedele
collaboratore di quel Massimiliano Fachini di cui riparleremo in
seguito;
e, last but not least, chiudere gli occhi di fronte alle azioni del 1980 del terrorismo di Stato francese nel territorio italiano:
attentati
del 14 agosto dei servizi segreti francesi ai ripetitori radio posti
sul monte Capanna sull’isola d’Elba e che risultavano appartenere ad
alcune società dell’Eni, al servizio antincendi della Regione Toscana,
alla Banca d’Italia, ai Vigili del fuoco, alla Guardia di finanza e ad
alcune radio locali della provincia di Livorno e di una emittente;
attentato
del 28 ottobre a suon di esplosivi collocati da “uomini rana” dei
servizi segreti francesi contro la nave militare libica «Dat Assawari»
che si trovava a Genova per lavori di ristrutturazione.
In
questo quadro, sulla base delle informazioni date dal perito Ignazio
Spampinato a Federico Mannucci Benincasa, il Sismi usò degli esplosivi
compatibili rispetto a quelli che avevano provocato la strage del 2
agosto 1980 nella stazione bolognese. Agì di certo in modo
donchisciottesco, tanto da essere scoperto facilmente dalla
magistratura, ma quasi nessuno ha mai riflettuto a sufficienza sul
significato “segreto” dell’operazione “terrore sui treni” a livello politico.
Quasi nessuno ha mai davvero capito a sufficienza che ogni depistaggio sulle stragi è la prosecuzione dello stragismo con altri mezzi!
La perizia chimico-esplosivistica comparativa del 7 dicembre 1981
Una successiva perizia chimico-esplosivistica, quella depositata il 7 dicembre 1981, fece un’analisi comparativa fra i materiali esplosivi considerati responsabili della strage di Bologna e quelli rinvenuti nella stessa città il 13 gennaio 1981 sul convoglio ferroviario Taranto-Milano.La sentenza emessa l’11 luglio 1988 ne recepì le considerazioni secondo cui l’esplosivo gelatinato, stabilizzato con solfato di bario, possedeva molti punti di contatto, per caratteristiche di composizione qualitativa, con quello da ritenersi utilizzato a Bologna il 2 agosto 1980, mentre una piccola quantità di Compound B (miscela di tritolo e T4) potrebbe “essere entrata nella composizione della carica esplosiva impiegata per la strage del 2 agosto 1980” (sentenza di primo grado emessa l’11 luglio 1988).
La perizia depositata il 22 aprile 1990
Un paio di anni dopo la sentenza di primo grado, nel corso del primo processo di Appello, ci fu un’altra perizia che modificò la valutazione su quali fossero le caratteristiche della carica esplosiva usata per la strage del 2 agosto 1980.La perizia fatta eseguire dal tribunale di Bologna e depositata il 22 aprile 1990 affermava che la strage sarebbe stata causata dalla deflagrazione di una bomba composta da 18 chili di gelatinato per usi civili e da 5 chili di Compound B (vedasi pagina 27 di Stragi e mandanti. La strage di Bologna: alla ricerca dei mandanti, a cura di Paolo Bolognesi e Roberto Scardova, 2012, editore Aliberti).
Nella sentenza del primo processo di Appello del 18 luglio 1990 i neofascisti dei Nar Valerio Fioravanti e Francesca Mambro furono assolti dal reato di strage, ma anche lì si affermava che “una piccola quantità di Compound B”, cioè della miscela di tritolo e T4, potrebbe “essere entrata nella composizione della carica esplosiva impiegata per la strage del 2 agosto 1980”.
Si ricordò inoltre che fra i materiali esplosivi c’era senza dubbio il T4 ma circa il suo uso nella miscela esplosiva “i periti avevano proposto due ipotesi: 1) che con esso fosse stato confezionato un detonatore secondario; 2) che il T4 fosse entrato nella miscela esplosiva, frammisto al tritolo, componente principale. In tale ultima ipotesi, il tritolo sarebbe provenuto da recupero, cioè da sconfezionamento di cariche esplosive.” (sentenza II^ Corte di Assise di Appello di Bologna, 18 luglio 1990).
Inoltre, secondo la perizia del 22 aprile 1990, il T4 era costoso e di solito non entrava a far parte di esplosivi per impieghi civili.
Capitolo su T4 e Compound B della sentenza del secondo processo di Appello del 1994
Nella sentenza del secondo processo di appello del 1994 un intero capitolo si riferiva espressamente al T4 e al Compound B.
“(…) la Corte osserva che la presenza del T4 nell’ordigno scoppiato alla stazione di Bologna non è minimamente in discussione.”
Ipotizzava
però, contestando i periti, che la miscela esplodente non fosse
costituita da gelatinato commerciale arricchito da T4 ma, attraverso un
confezionamento artigianale, “da un esplosivo contenente gelatinato e Compound B miscelati in proporzioni 2:1.” (Sentenza del secondo Processo d’Appello, 16 maggio 1994).
Sulla
base di questo ragionamento, la sentenza del processo d’appello puntò
il dito contro Massimiliano Fachini, ma i giudici non trovarono allora
prove sufficienti per condannarlo:
“Il
suddetto valore, conseguentemente, sarebbe tale da fornire un elemento
di compatibilità con la provenienza dal Fachini dell’esplosivo della
stazione. Il dato processuale ricavabile – è bene precisarlo, a scanso
di equivoci – è, allo stato, soltanto teorico, posto che agli atti manca
la necessaria verifica peritale.”
(Sentenza del secondo Processo d’Appello, 16 maggio 1994).
Nel
1994 non fu stabilito con certezza se la carica esplosiva fosse stata
prodotta da un’industria per scopi militari, da un’industria per scopi
civili – ad esempio per la produzione di esplosivi da cava – oppure in
modo artigianale, ipotesi quest’ultima poi considerata come quella più
probabile.Si capì che non poteva essere ritenuta esaustiva la perizia depositata il 23 dicembre 1980 secondo cui la carica esplosiva sarebbe risultata costituita da “gelatinato di tipo commerciale”.
Si giunse alla conclusione che la carica esplosiva era composta sia da gelatinato che da tritolo e T4, ma sulle proporzioni fra il primo e i secondi vi furono diverse interpretazioni da parte della difesa, dell’accusa e dei giudici.
Al tempo stesso ci furono diverse interpretazioni sulla presenza del Compound B nei materiali esplosivi della strage.
Compound B nella sentenza della Cassazione del 23 novembre 1995
Nella sentenza della Cassazione del 23 novembre 1995 si affermò esplicitamente che disporre di residuati bellici contenenti Compound B significava poter da essi estrarre notevoli quantità di quel particolare tipo di esplosivo che era stato impiegato alla Stazione di Bologna.
“… Massimiliano
Fachini era stato coinvolto in altri procedimenti penali, perché
accusato di avere partecipato ad alcuni attentati dinamitardi
verificatisi nel 1978-1979 e 1980, nonché di disporre, sul lago di
Garda, di un deposito di residuati bellici: quest’ultima accusa veniva
ricollegata al fatto che nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, le
forze anglo-americane avevano fatto largo uso del “compound B”, una
miscela di tritolo e T4, sicché disporre di residuati bellici
significava poter da essi estrarre, in gran quantità, quel particolare
tipo di esplosivo, che, per il suo alto potere distruttivo e
frantumante, era stato impiegato alla stazione di Bologna ma che era
difficile reperire sul mercato.” (sentenza della Cassazione del 23-11-1995 relativa al processo sulla strage di Bologna)
Massimiliano
Fachini, inizialmente considerato il possibile armiere degli stragisti
di Bologna, alla fine fu assolto perché da una parte era stato nel
frattempo scagionato dalle accuse di aver partecipato
ad alcuni attentati dinamitardi verificatisi negli anni 1978-1979-1980 e
dall’altra parte perché non solo lui, ma svariate altre persone reazionarie ed atlantizzate del Triveneto disponevano, sul lago di Garda, di un deposito di residuati bellici.
Le
sentenze definitive – quella del 1995 contro Valerio Fioravanti e
Francesca Mambro e quella del 2003 contro Luigi Ciavardini, un militante
dei Nar che nel 1980 era addirittura minorenne – giunsero ad ipotizzare
che l’ordigno della strage di Bologna potrebbe essere stato preso a
Roma e portato a Venezia dalla coppia Fioravanti-Mambro prima di farlo
giungere a Bologna.
Lasciavano
inoltre intendere che i Nar avrebbero avuto un’autonoma capacità di
reperimento di materiali esplosivi, ma non riuscirono a dimostrare che
fra questi ultimi vi fosse il Compound B.
Proprio
su questo punto fecero leva svariati sostenitori dell’innocenza dei Nar
rispetto alla strage di Bologna. Ecco, ad esempio, cosa scriveva Luca
Telese:
“(…)
cosa avevano a che vedere i colpi di pistola e le bombe srcm (di quelle
trafugate da Fioravanti durante il suo servizio militare)
dell’Esquilino con l’esplosivo devastante (una miscela di 5 chili di
tritolo e T4 detta «Compound b»,
potenziata da 18 chili di nitroglicerina a uso civile) utilizzato dai
terroristi alla stazione di Bologna? Nulla. Dal punto di vista militare
era come paragonare una fionda a una bomba atomica” (pagina 50 di “Giusva”, di Andrea Colombo, Francesco Patierno, Nicola Rao, Luca Telese; casa editrice Sperling & Kupfer, 2011; il passo citato è tratto da “Negli occhi dei Nar” di Luca Telese).
Mentre
però Luca Telese parlava di presenza del Compound B nell’esplosivo
della strage di Bologna, qualche altro giornalista pensava che i Nar
sarebbero stati innocenti anche nel caso in cui l’ordigno in questione
fosse stato del “gelatinato di tipo commerciale”.
L’ipotesi del gelatinato di tipo commerciale
In
realtà l’ipotesi del “gelatinato di tipo commerciale” (che
paradossalmente ed erroneamente viene citata nella sentenza definitiva
di condanna contro Luigi Ciavardini) sembrava in perfetta sintonia
rispetto alle indagini che fecero gli inquirenti nell’ottobre 1980, al
tempo delle accuse contro Francesco Furlotti, il neofascista romano
detto «Chicco» e considerato da alcuni “pentiti” come un esperto di
esplosivi.
“Viene
fatta dagli inquirenti l’ipotesi che l’esplosivo sia stato rubato in
una cava di Tivoli. Un’indicazione in questo senso sarebbe emersa dopo
gli interrogatori di Marco Mario Massimi, camerata quarantenne detenuto a
Regina Coeli” (“Strage di Bologna ruolo di un aristocratico
nero. Interrogato in carcere Francesco Furlotti. Su di lui pesa l’accusa
di aver confezionato la bomba micidiale. Comunicazioni giudiziarie per
Freda, Tuti e Bonazzi”, Vincenzo Tessandori, La Stampa, 29.10.1980).
Le specifiche accuse contro Francesco Furlotti erano però prive di fondamento e lui fu poi scagionato.
L’ipotesi
del gelatinato di tipo commerciale avrebbe però potuto essere
facilmente usata per accusare i fratelli Cristiano e Valerio Fioravanti,
entrambi neofascisti dei Nar.
A Roma “(…)
tra fine ottobre e novembre 1978 sono compiuti tre attentati contro
sezioni del Psi. Cristiano (Fioravanti; n.d.r.) racconterà: «Ricordo, in
particolare, un attentato ad una sezione socialista, quella di
Testaccio che fallì per difetto di esplosivo, ma che avrebbe potuto
avere gravi conseguenze; (…) la bomba non esplose perché la polvere era
umida. Se fosse esplosa avrebbe potuto uccidere o ferire molte persone».
Quanto al «procacciamento di esplosivo posso solo dire che gli
attentati fatti dal nostro gruppo (tre al Psi, uno al Pci-zona Alberone)
furono fatti con esplosivo procurato nei seguenti modi: con balistite
granulare ricavata da proiettili di contraerea pescati in più riprese
nell’estate e inverno 1979 a Ponza su un relitto di nave americana. Mio
fratello provvedeva a predisporlo ed a preparare l’ordigno che esplodeva
con semplice miccia. A pescarlo provvedevamo io, mio fratello (Valerio
Fioravanti; n.d.r.), Alibrandi e Tiraboschi. Per altri attentati (Acea,
Centrale del latte) usammo il tritolo acquistato da Alibrandi. Per gli
attentati a due sezioni di Autonomia Operaia utilizzammo esplosivo
procurato presso una cava di Civitavecchia»” (nota 62, pagine 81-82, “Guerrieri 1975/1982. Storie di una generazione in nero”, Ugo Maria Tassinari, Immaginapoli 2005).
Negli
attentati alle due sezioni di Autonomia Operaia i Nar utilizzazono
dell’esplosivo “procurato” presso una cava di Civitavecchia, cioè del
gelatinato di tipo commerciale.
In
seguito, e stiamo già verso la fine del mese di luglio del 1980, a
Milano ci fu un altro attentato con l’utilizzo di esplosivi.
“La
notte del 30 luglio, poco prima delle 2, esplode un’auto imbottita con
14 chili di esplosivo davanti a Palazzo Marino. Si è conclusa da qualche
minuto una lunga seduta del consiglio comunale milanese. Alcuni
frammenti raggiungono i tetti circostanti. Le indagini saranno
indirizzate da alcuni “pentiti” contro una delle batterie che fanno capo
a Giuliani. L’ordigno disintegra una 132, rubata ad Anzio sette giorni
prima. Nei pressi è ritrovato un tubo di piombo e una tanica con 8 chili
di esplosivo da cava (…). Sarebbero stati Silvio Pompei e Benito
Allatta – con materiali forniti dal loro leader su mandato di Cavallini –
a rifornire gli autori materiali, presunti avanguardisti milanesi” (pagina 179, “Guerrieri 1975/1982. Storie di una generazione in nero”, Ugo Maria Tassinari, Immaginapoli 2005).
In
questo caso, l’esplosivo non deflagrato era costituito da 8 chili di
gelatinato di tipo commerciale, probabilmente anch’esso rubato in una
cava.
Tritolo (TNT) e T4 (RDX) in altri attentati
Dato
però, come abbiamo accennato fin dall’inizio, che fra i materiali
esplosivi della strage di Bologna avrebbero dovuto esserci delle
significative quantità di Tnt e T4, è opportuno rammentare alcune altre
vicende.
Nella
strage avvenuta il 31 maggio 1972 a Peteano (Gorizia), che provocò la
morte di tre carabinieri e il ferimento di altri due e di cui nel 1984
iniziò ad essere reo confesso il neofascista Vincenzo Vinciguerra, senza
dubbio venne usato il T4 e non certo il Semtex H, lo stesso tipo di
esplosivo sequestrato nei primissimi anni ’80 in diversi depositi di
armi delle Brigate rosse, come vanamente cercò di far credere nel 1982,
con un vero e proprio tentativo di depistaggio, l’esperto balistico
Marco Morin.
Nel
settembre 1984 fu ordinata una nuova perizia, curata dai periti
Brandimarte, Marino e Monitoro, che giunse alla conclusione secondo cui «l’esplosivo
impiegato per l’attentato di Peteano era costituito da comune esplosivo
da mina, potenziato, probabilmente nella zona di innescamento, con una
aliquota di esplosivo al T4» (Salvi, La strategia delle stragi: dalla sentenza della Corte d’Assise per la strage di Peteano, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 253.)
A ciò bisogna aggiungere che “TNT
e T4 furono ritrovati come residuo fra i reperti di numerosi attentati
“minori” compiuti in quel periodo, come ad esempio quello in danno al
periodico Il Borghese del 30 gennaio 1975, e altri attentati alle linee
ferroviarie” (27 aprile 2012 liberoreporter – su Bologna e esplosivo; http://news.liberoreporter.eu/?p=25328).
Ricordando l’attentato al periodico Il Borghese
del 30 gennaio 1975, come se fosse stato opera dell’estrema sinistra, i
giornalisti di “libero reporter” caddero in un clamoroso errore.
“Nel
gennaio 1975 sono compiuti a Roma attentati dinamitardi allo studio
dell’avvocato di Soccorso rosso, Edoardo Di Giovanni (e autore con Marco
Ligini del bestseller La strage di Stato), all’abitazione del
giornalista Willy de Luca e presso la redazione del Borghese.
Nell’inverno-primavera 1975 il Fulas colpisce anche la concessionaria
Fiat di Catania, il catasto di Reggio Calabria, la redazione dell’Ora di
Palermo. Alcuni attentati sono eseguiti in simultanea.” (nota 27, pagina 39, “Guerrieri 1975/1982. Storie di una generazione in nero”, Ugo Maria Tassinari, Immaginapoli 2005).
Il Fulas (Fronte unitario di lotta al sistema), che fra l’altro fece l’attentato al periodico Il Borghese, era un’organizzazione clandestina neofascista e non certo un’organizzazione clandestina comunista o anarchica.
Ovviamente
il fatto che nel decennio precedente al 1980 alcuni gruppi neofascisti
abbiano compiuto degli attentati dinamitardi usando il T4 o il tritolo
insieme al T4 non significa affatto che quegli specifici gruppi siano
stati responsabili di qualche strage.
In
altre parole, nell’Italia degli anni ‘70 molti neofascisti, come
Pierluigi Concutelli, non erano stragisti; d’altra parte, esistevano
alcuni neofascisti atlantizzati che divennero agenti dei servizi
segreti, infiltrati nella destra e come minimo collusi con gli
stragisti.
L’assoluzione di Massimiliano Fachini
Massimiliano
Fachini, uno di quei neofascisti atlantizzati, era imputato per la
strage di Bologna ma fu assolto il 16 maggio 1994 dalla Corte d’assise
d’appello e dalla Corte di Cassazione il 23 novembre 1995 perché ancora
non si sapeva che lui fosse una delle poche persone in grado di disporre
anche dei residuati bellici situati nei laghetti di Mantova
(sentenza-ordinanza del giudice istruttore Guido Salvini del 1998) e
neppure che fosse ben conosciuto dal “pentito” Carlo Digilio, anche se
quest’ultimo – nelle confessioni rilasciate nella seconda metà degli
anni Novanta, quando dichiarò di aver agito per conto del Comando delle forze terrestri alleate per il Sud Europa
(FTASE) della NATO di Verona e si proclamò responsabile anche del
preventivo controllo dell’ordigno esplosivo che a Milano provocò la
strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 – fece finta di non
conoscerlo.
La sentenza della Corte d’Appello di Bologna del 13.12.2004 contro Luigi Ciavardini
Nella
sentenza d’appello di condanna per Ciavardini, il quale essendo stato
minorenne al tempo della strage di Bologna ebbe un processo a parte, si
dice che il gruppo di Valerio Fioravanti aveva la disponibilità di “ingenti
quantità di armi, munizioni ed esplosivo, anche del tipo di quello (T4 e
nitrato sodico) che, secondo la perizia esperita nell’ambito delle
indagini per la strage di Bologna (f. 3237), sarebbe stato usato in
quella operazione criminale” (pagina 32 Sentenza Ciavardini, Corte d’Appello di Bologna, 13.12.2004).
Qui
la sentenza lascia intendere che fra i materiali esplosivi della strage
di Bologna c’erano, fra l’altro, il T4 e il nitrato sodico. Poi entra
di più nel merito e, sulla base delle “perizie espletate al fine di accertare le modalità dello scoppio ed il tipo di esplosivo e di congegno utilizzati”, dichiara con certezza che “il quantitativo di esplosivo del tipo gelatinato, tra cui si annoverano anche tritolo e T4” , si aggirava tra i 20 e i 25 Kg; era molto potente “per l’alta velocità di detonazione e per il grande volume di gas capace di generare”; era racchiuso in una valigia; non poteva esplodere con un congegno a distanza “per
l’impossibilità del segnale di attraversare ostacoli di scarsa
permeabilità, come pareti, convogli ferroviari ed altro, né un congegno
di tipo meccanico, attesa l’assenza di residui di fili e sistemi di
alimentazione idonei ad erogare una congrua quantità di energia” e poteva esplodere con “un congegno di tipo chimico che richiedeva un’attivazione in loco dello stesso”.
La sentenza inoltre precisa “che
la bomba fu collocata sul tavolinetto porta-bagagli posto all’interno
della sala d’aspetto di seconda classe, situato all’angolo posto a
destra rispetto all’ingresso del locale, e non già abbandonata a
contatto diretto con il pavimento”.
Afferma per altro “che
il posizionamento sul tavolinetto posto all’angolo della costruzione si
è rivelato di particolare importanza per l’intensità distruttiva della
carica esplosiva, in quanto la collocazione a ridosso di muri abbastanza
robusti ha convogliato gran parte dell’energia distruttiva in una
direzione abbastanza concentrata ( v. perizia f. 3227)”.
Conclude dichiarando “che
la scelta dei componenti dell’esplosivo e le modalità di esecuzione
dell’attivazione della bomba portano ad escludere l’ipotesi di innesco
fortuito della carica dovuta ad urti, riscaldamento, instabilità chimica
della miscela, autocombustione, effetti di correnti vaganti o di campi
magnetici (f. 3236).”
(pag. 147-148-149 Sentenza Ciavardini, Corte d’Appello di Bologna, 13.12.2004)
Perizia depositata il 27 giugno 2019 al processo a Gilberto Cavallini
Sedici anni dopo la sentenza contro Luigi Ciavardini, cioè nel 2020, anche l’ex militante dei Nar Gilberto Cavallini è
stato condannato per la strage di Bologna. Qui non entriamo nel merito
della sufficienza o meno delle prove d’accusa contro gli ex Nar, anche
se indubbiamente i processi su base indiziaria sono sempre di per sé
molto discutibili. Qui si sta cercando di capire meglio come andarono le
cose e si vuole, per il momento, concentrare l’attenzione sulle perizie
esplosivistiche.
Ebbene,
la perizia depositata il 27 giugno 2019 aveva il non piccolo limite di
dover andare oltre la circostanza per cui nel 2006, al termine di una
fase processuale, fu deciso di eliminare ogni reperto raccolto al tempo della strage.
Per
tale motivo e affinché la loro perizia fosse almeno degna di questo
nome, i periti nominati nel 2018, Adolfo Gregori e Danilo Coppe,
ritennero inizialmente di avere cinque possibilità per la ricerca di
nuovi reperti da analizzare: “1. realizzare nuovi carotaggi nell’area del cratere (…); 2. cercare oggetti possibilmente presenti nella ex sala d’attesa di 2°
classe; 3. cercare fra i ricordi delle vittime consegnati ai loro
familiari senza sottoporli ad analisi; 4. cercare fra le macerie
stoccate, all’epoca, in un’area militare nel Bolognese; 5. cercare
reperti autoptici conservati a diverso titolo.” (pag. 11).
Per
ottemperare al punto 1, i periti avrebbero dovuto acquisire la
documentazione tecnica dei lavori ma ciò non divenne possibile in quanto
l’impresa che aveva preso in appalto “ i lavori di ripristino della sala d’attesa di 2°
classe, la Edilterra, fallì negli anni successivi. Il loro archivio
tecnico, confluì in un’impresa cooperativa che a sua volta è fallita” (pag. 11).
Rispetto al punto 2,
“l’unico oggetto presente nella sala d’attesa o in sua prossimità,
prima dell’esplosione, era un vecchio cartellone pubblicitario dell’Ente
del turismo locale. Questo cartellone fu raccolto da un ferroviere e
conservato per decenni in un ufficio” fino al momento in cui quell’uomo dovette andare in pensione, allorché lo consegnò “all’Associazione dei familiari delle vittime che lo mise sotto vetro e ricollocò nella nuova sala d’attesa.” (pag. 12).
I
periti fecero quindi delle ricerche sui campioni prelevati dal pannello
fotografico che in origine, il 2 agosto 1980, si trovava nella sala
d’attesa della stazione di Bologna e analizzarono i tamponi ottenuti dai
lavaggi della superficie del pannello e riscontrarono che il Tritolo
era presente in tre quadranti su venti (pag. 61).
Per
ottemperare al punto 3, i periti ricevettero l’aiuto dell’Associazione
delle vittime del 2 agosto 1980 e in particolare riuscirono a
recuperare: “a) una chitarra appartenuta a Davide Caprioli; b) una
borsa in tela appartenuta a Sala Vincenzina; c) un borsone sportivo in
tela con attrezzi sub e ginnici appartenuti a Lugli Umberto; d) un
portafoglio con tessera appartenuti a Bonora Argeo; e) una borsetta
vuota appartenuta a Marangon Maria Angela.” (pag. 12)
I periti acquisirono dai parenti delle vittime un totale di 28 campioni (pagine 63 e 64) dalle cui analisi è stata evidenziata la
presenza di tracce di Tritolo o TNT (12 campioni), RDX o T4 (11
campioni), HMX od ottogene (4 campioni), DNT (3 campioni) e PETN o
pentrite (1 campione).
In
relazione al punto 4 recuperarono 16 campioni (polvere in busta,
porzione di cemento, due parti di ceramiche e il resto costituito da
parti di laterizi) dal deposito presso la Caserma di “Prati di Caprara”
dalle cui analisi (pagine 64 e 65) è stata messa in rilievo la presenza
di tracce di Tritolo o TNT (14 campioni), di RDX o T4 (7 campioni), di
DNT – H (8 campioni), di PETN o pentrite (7 campioni), di MC (3
campioni), di HMX od ottogene (2 campioni) e di EC (un campione).
Recuperarono una decina di reperti dall’archivio del RIS (Reparto Investigazioni Scientifiche) di Roma
(Indagine tecnica 605/80 dalle cui analisi (pag. 67) è stata
riscontrata la presenza di tracce di Tritolo o TNT (6 campioni), di DNT –
H (6 campioni), di PETN o pentrite (4 campioni), di RDX o T4 (3
campioni), di HMX od ottogene (3 campioni).
Recuperarono due campioni presso l’Archivio di Stato all’interno del Volume nr. 94 dalle cui analisi (pag. 68) è stato possibile trovare tracce
di HMX od ottogene (2 campioni), di Tritolo o TNT (un campione), di RDX
o T4 (un campione), di EC (un campione), di MC (un campione).
Inoltre
fecero una ricerca su quattro campioni dei capelli recuperati dai resti
della vittima della strage di Bologna Maria Fresu (o a lei attribuiti)
dalle cui analisi (pag. 69) è stata evidenziata la presenza di tracce di
NG o Nitroglicerina (un campione), di Tritolo o TNT (un campione), di
RDX o T4 (un campione) e di PETN o pentrite (un campione).
Infine
confrontarono 10 campioni di cariche esplosive: 1) Tritolo carica da ½
libra (seconda guerra mondiale); 2) Tritolo da carica supplementare
(seconda guerra mondiale); 3) Tritolo da mina CS42/3 (seconda guerra
mondiale), composto da Tritolo e Pentrite; 4) Tritolo da mina tedesca da
311 gr. (seconda guerra mondiale), 5) Compound B carica cava 1944
(razzo antitank – seconda guerra mondiale), composto da Tritolo, RDX
(T4) e HMX od ottogene; 6) Compound B 100 libre (bomba d’aereo seconda
guerra mondiale), composto da Tritolo, RDX (T4) e HMX; 7) Tritolo Italia
gr 200 (seconda guerra mondiale); 8) Tetritolo da blocco da demolizione
M2 (seconda guerra mondiale), composto da Tritolo e Tetrile; 9)
Balistite USA Cal. 20 – 1943, composto da Nitroglicerina (NG) e
Etilcentralite (EC); 10) Compound B prodotto dopo la seconda guerra
mondiale, da razzi anticarro, composto da Tritolo e RDX (T4) (vedasi
tabella di pag. 71).
Grazie a tale confronto, “le
analisi hanno confermato che nei Compound B (campioni 5 e 6) della WWII
(seconda guerra mondiale, n.d.r.) è effettivamente presente una
percentuale (non determinata) di HMX. Invece il Compound B post bellico
(Campione 10) non contiene alcuna traccia di HMX. Le altre cariche
esplosive hanno mostrato una composizione in linea con i dati attesi, ad
eccezione della carica nr.3 nella quale è stata riscontrata la
presenza, non attesa, di pentrite. Si tratterebbe di Pentolite,
esplosivo a base di Pentrite e Tritolo, che ha comunque un aspetto non
distinguibile dal Tritolo solidificato”. (pag. 71)
Conclusioni pubblicate nella perizia depositata il 27 giugno 2019
Sui reperti in esame, in sintesi, i
periti Adolfo Gregori e Danilo Coppe riscontrarono la presenza delle
seguenti tipologie di esplosivi: TNT o tritolo sulla maggior parte dei
campioni positivi; RDX o T4 su gran parte dei campioni positivi; HMX od
ottogene sui campioni con alti valori di positività all’RDX; PETN o
pentrite su molti campioni; NG o Nitroglicerina su 4 campioni. Inoltre
registrarono la presenza di cariche di lancio sui campioni
Etilcentralite (4 campioni) e Akardite (un campione).
Il TNT o tritolo e il RDX o T4 “appaiono
essere presenti in quantità mediamente superiori alle altre componenti,
e tali da poter ritenere, anche a distanza di circa 40 anni
dall’evento, che potessero costituire la parte preponderante della
carica esplosiva. (…) Sembra plausibile ritenere che la nitroglicerina rinvenuta su alcuni campioni (…) possa provenire dalla presenza di residui incombusti delle cariche di lancio, la cui nitrocellulosa, sulla quale la nitroglicerina è adsorbita, può aver trattenuto e preservato la NG dall’evaporazione. (…)
Le tracce di esplosivo HMX sono quasi sempre presenti a livelli inferiori (almeno un ordine di grandezza) rispetto all’RDX (…).” (pag.72)
Coloro che fecero la prima perizia chimico-esplosivistica “in alcuni casi non hanno cercato gli stabilizzanti delle cariche di lancio, o laddove le hanno cercate, non sono stati in grado di rilevarle per la scarsa sensibilità delle metodiche analitiche impiegate all’epoca (TLC).
La mancanza di questo dato conoscitivo e l’errore di valutazione sulla presenza del solfato di bario
ha indotto il primo collegio peritale a considerare come unica ipotesi
plausibile quella dell’impiego di una gelatina civile fortificata con
TNT e T4”. (pag. 73)
Questi
risultati analitici, pubblicati nella perizia depositata il 27 giugno
2019, cioè quasi 40 anni dopo la strage di Bologna, sono abbastanza
significativi. Escludono che i materiali esplosivi della strage di Bologna fossero costituiti solo ed esclusivamente da “gelatinato commerciale”; dimostrano che le percentuali di HMX od ottogene variabili tra il 5% e il 10% erano presenti nell’RDX (T4) impiegato durante la seconda guerra mondiale; infine eliminano le ipotesi fantapolitiche – come quelle avanzate da Paolo Cucchiarelli in “Ustica&Bologna. Attacco all’Italia” (2020, La nave di Teseo editore, Milano) – secondo cui fra i materiali esplosivi ci sarebbero stati dei prodotti successivi alla seconda guerra mondiale come il C4 e il Semtex H (composto per il 41,2% da RDX e per il 40,9% da pentrite ) a disposizione dei palestinesi dell’OLP, delle italiane Br e di molti gruppi della sinistra rivoluzionaria dell’Europa occidentale.
Questi dati hanno di conseguenza indotto i periti a ritenere che le tracce di HMX od ottogene rilevate provengano dall’RDX o T4 “recuperato da ordigni bellici, e presente nella carica esplosa alla stazione di Bologna” (pag. 72).
“Visti
i risultati delle analisi che danno per certa la sostanziale presenza
di Compound B, è evidente che si è trattato comunque di esplosivo
detonante che necessita inevitabilmente di un detonatore. Di detonatori
nel 1980 ne esistevano solo di due tipi commerciali in circolazione: a
fuoco ed elettrici. Poi era possibile realizzare detonatori “home made”
con entrambe le peculiarità di quelli commerciali” (pag. 137).
“(…)
In questo caso, anche il più imprudente fra gli attentatori, era uso a
inserire fra la sorgente di elettricità (in questo caso una batteria) ed
il detonatore, una “sicura di trasporto”.
Fra le macerie di Prati di Caprara, è stato rinvenuto un interruttore” (pag. 140).
I periti, a quest’ultimo proposito, così commentarono: “Dispositivi
simili risultano essere stati presenti nell’ordigno destinato a Tina
Anselmi e anche a quello trasportato dalla Christa Margot Fröhlich
quando arrestata a Fiumicino” (pag. 141).
In aula però, a luglio del 2019, il
perito Danilo Coppe ha visionato una foto a colori che fa parte di
alcuni verbali sul sequestro di esplosivo del 29 ottobre 1982 alla
Frohlich (all’epoca militante della nuova sinistra della Germania
Occidentale e poi assolta in Francia da ogni accusa relativa alla sua
eventuale partecipazione all’organizzazione diretta dal venezuelano
Carlos) infine ha dichiarato che “potrebbe trattarsi di una placca, piuttosto che di un interruttore“. Di conseguenza, “del paragone con l’esplosivo utilizzato dalla Fröhlich mi prendo la responsabilità, ma se dovessi riscrivere la relazione non lo rifarei“.
A
parte questo errore, riconosciuto come tale dallo stesso perito Danilo
Coppe di fronte ai giudici, e al di là della scarsa conoscenza della
storia della Prima Repubblica italiana e delle sue numerose stragi,
testimoniata dal vano tentativo di cercare paragoni con attentati
avvenuti in Francia nel 1983, la relazione tecnica esplosivistica da lui
elaborata assieme a Adolfo Gregori risulta essere comunque la più
attendibile fra quelle ufficiali e la più logica stante quell’odore di
tritolo (TNT) e la necessaria presenza anche del T4 (RDX) di cui alcuni
parlarono subito dopo la strage del 2 agosto 1980.
A
questo punto, al di là dell’esistenza o meno di un timer – che secondo i
periti potrebbe essere stato di tipo meccanico – e dei suoi eventuali
difetti o danneggiamenti che avrebbero potuto “determinare un’esplosione prematura/accidentale dell’ordigno”
(pag. 157), ci sono sufficienti prove oggettive per capire quali
fossero i materiali esplosivi recuperati da ordigni bellici del secondo
conflitto mondiale che, in un’unica bomba (come ritengono i periti) o
addirittura in due (come ritiene Paolo Cucchiarelli in “Ustica&Bologna. Attacco all’Italia”), costituivano i materiali esplosivi della strage di Bologna del 2 agosto 1980.
“Dai
risultati analitici e dalla disamina delle perizie precedenti il
presente collegio peritale sostiene che l’ordigno esploso il 2 agosto
1980 alla Stazione di Bologna era costituito essenzialmente da Tritolite
e/o Compound B (TNT + RDX o T4) di sicura provenienza da scaricamento
di ordigni bellici (seconda guerra mondiale) e da una quantità
apprezzabile di cariche di lancio (che giustifica la presenza di
Nitroglicerina e degli stabilizzanti rinvenuti).
Pentrite
e Tetrile rinvenuti in alcuni campioni possono essere riconducibili
alla presenza dei booster relativi agli ordigni stessi. I booster che in
varie deposizioni degli indagati dell’epoca (Calore, Aleandri) vengono
menzionati come utili per la detonazione di esplosivi sordi, come
l’ANFO, e definiti come “preinnesco” o “innesco secondario”.
Inoltre,
non si può escludere completamente la presenza di una percentuale di
gelatinato (civile o militare) a base di nitroglicerina”. (pag. 157)
Di
conseguenza, la principale domanda a cui si dovrebbe rispondere è la
seguente: dato che l’esame dei materiali esplosivi dimostra la totale
infondatezza della pista palestinese o rossa rispetto alla strage di
Bologna, chi erano – nell’Italia del 1980 – coloro che, oltre ad
avere ampia disponibilità di gelatinato a base di nitroglicerina, erano
esperti nello svuotare degli ordigni bellici residuati della seconda
guerra mondiale?
Prendendo in considerazione soprattutto la sentenza-ordinanza
del giudice istruttore Guido Salvini del Tribunale civile e penale di
Milano del 3 febbraio 1998, sulla strage di piazza Fontana del 12
dicembre 1969, con cui si fa chiarezza su tante e successive vicende
della storia italiana, l’ipotesi più probabile è che fossero personaggi reazionari atlantizzati e statalizzati, da parecchio tempo in stretti e organici rapporti con i servizi segreti, come Massimiliano Fachini e Carlo Digilio.
Massimiliano
Fachini, nato a Tirana il 6 agosto 1942 e morto a Grisignano di Zocco
il 3 febbraio 2000, già nel novembre 1972 – secondo l’ex dirigente del
gruppo neofascista Avanguardia Nazionale Stefano Delle
Chiaie – collaborò con i carabinieri e il SID (sigla del servizio
segreto militare di quel periodo) procurando i materiali esplosivi della
“provocazione di Camerino”, laddove e allorché furono fatti rinvenire
armi ed esplosivi assieme a materiale cifrato e a 604 moduli di
documenti in bianco da attribuire ad esponenti di gruppi di sinistra
(prosciolti dalla corte di Assise di Macerata solo il 7 dicembre 1977),
moduli che il neofascista atlantizzato Guelfo Osmani – in contatto con
l’onnipresente capo del controspionaggio di Firenze, colonnello Federico
Mannucci Benincasa – diede all’allora tenente dei carabinieri D’Ovidio e
che facevano parte di uno stock di 4.700 moduli rubati al Comune di
Roma il 14 maggio 1972, uno dei quali – intestato a Enrico Vailati – fu
rinvenuto a Sergio Picciafuoco, uomo che si trovava nella stazione di
Bologna il 2 agosto 1980 durante l’esplosione della bomba tanto da
esserne ferito e che in seguito, grazie anche all’aiuto ricevuto in
carcere da Francesco Pazienza, fu assolto nel processo di cui era
imputato per quella carneficina.
Carlo
Digilio, nato a Roma il 7 maggio 1937, fra il 17 dicembre 1981 e il 28
gennaio 1982 partecipò alla caccia alle Br che avevano rapito il
generale statunitense James Lee Dozier, comandante delle forze terrestri alleate per il Sud Europa (FTASE) della Nato, perché da molti anni era un mercenario della Nato.
In
seguito fuggì all’estero grazie all’appoggio dei servizi segreti.
Tornato in Italia si “pentì” solo rispetto ai reati per cui c’era la
prescrizione. Non confermò l’ultimo alibi di cui parlarono alcuni dei
Nar accusati e poi condannati in maniera definitiva per la strage di
Bologna, forse anche perché un alibi garantito da uno stragista ha ben
poco valore e lo avrebbe messo in ulteriori guai giudiziari. Infine morì
a Bergamo nel 2005.
Curiosamente
cessò di vivere il 12 dicembre, nell’anniversario della strage di
piazza Fontana del 1969, proprio della strage avvenuta a Milano nella
Banca dell’Agricoltura.
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