In contributo ricevuto da Collettivo Tazebao
Il
30 marzo del 2018, nella ricorrenza della Giornata della Terra, i
gazawi si sono riversati al confine della Striscia di Gaza,
rivendicando il diritto al ritorno nella propria terra, usurpata
dall’occupante sionista da settant’anni.
Settant’anni
che ricorrevano proprio l’anno scorso, il 15 maggio, e che Trump ha
voluto festeggiare spostando l’ambasciata Usa da Tel Aviv a
Gerusalemme. Solo pochi mesi prima infatti il presidente statunitense
aveva dimostrato la sua fedeltà allo storico alleato sionista
dichiarando Gerusalemme capitale dello Stato d’Israele, volendo
negare ai palestinesi una delle loro rivendicazioni fondamentali
e mettendo contemporaneamente una pietra tombale sulle illusioni
sparse dai suoi
predecessori sulla soluzione “due popoli due Stati” e, in generale, sugli Accordi di Oslo.
predecessori sulla soluzione “due popoli due Stati” e, in generale, sugli Accordi di Oslo.
La
risposta dei palestinesi non si è fatta attendere: da marzo ad oggi
ogni venerdì
migliaia di donne, uomini e bambini scendono al confine creato dagli
occupanti tra Gaza e i territori del '48, in quella che viene
chiamata la Grande Marcia del Ritorno, dimostrando di non voler
subire in silenzio questa ennesima provocazione. La repressione è
stata ed è tutt’ora durissima, con lancio di lacrimogeni,
cecchini, arresti: attualmente il bilancio è
di
più di 260
palestinesi uccisi e più di 27 mila feriti.
Non
paghi delle stragi sui manifestanti, i sionisti hanno avviato una
progressione di attacchi aerei contro la Striscia di Gaza, che hanno
raggiunto l'apice lo scorso novembre. L’aggressione sionista si è
fermata grazie alla risposta decisa delle forze della Resistenza
Palestinese che hanno dato una dura lezione al nemico, bersagliandolo
massicciamente con i razzi qassam, costruendo nuove armi frutto della
creatività della guerra partigiana (come gli aquiloni incendiari) e
sventando militarmente un'incursione degli occupanti a Gaza, tra l'11
e il 12 novembre, tesa a rapire dirigenti politici palestinesi. Ciò
è avvenuto grazie all’unità dimostrata dai combattenti
palestinesi, che hanno condotto la battaglia con le forze
d’occupazione tramite un comitato militare operativo congiunto di
tutte le fazioni della Resistenza. I sionisti sono stati così
costretti a dichiarare la tregua, la quale ha avuto diverse
conseguenze in campo israeliano, fra cui la principale l’aver
aperto delle grosse falle all’interno del governo. Mentre infatti i
palestinesi festeggiavano la tregua, i coloni scendevano in piazza
per protestare contro la fine dei bombardamenti, chiedendo una
maggiore escalation bellica. In loro appoggio si dimetteva il
ministro della difesa Lieberman. Netanyahu si è ovviamente rifiutato
di andare ad elezioni anticipate, ma ha subito annunciato che si
sarebbe assunto lui stesso la carica di ministro della difesa ad
interim. Attualmente quindi Netanyahu è primo ministro, ministro
della difesa e ministro degli esteri (carica occupata fin dalla
nascita dell'esecutivo).
La
Knesset, però, non ha sostenuto questa decisione e il 28 dicembre ha
votato lo scioglimento delle camere in vista di elezioni anticipate
ad aprile. Netanyahu non è rimasto inerme di fronte a questa
disposizione ed ha iniziato subito la sua campagna elettorale: da un
lato si scaglia contro l’Iran annunciando di voler continuare a
bombardare la Siria “in difesa d’Israele”, dall’altro non
dimentica di mostrare il suo supporto ai coloni. A dimostrazione di
ciò, a fine gennaio ha deciso di espellere l’International
Monitoring Force (Tihp) che monitora la situazione nella città
palestinese di Hebron, nel sud della Cisgiordania occupata, città
dove la presenza di 700 coloni ha imposto la militarizzazione e
creato pesanti disagi ad oltre 2 mila palestinesi.
È
chiaro che i palestinesi non otterranno nulla di buono da questo
eventuale cambio di governo, dato che da destra a sinistra tutti i
politici israeliani sono accomunati dalla volontà di ripulire la
“Terra Santa” dagli arabo-palestinesi e dall’interesse a
proseguire la colonizzazione della Palestina. È un dato di fatto
però che la Resistenza riesce a seminare contraddizioni tra il
nemico e che quest'ultimo si ricompatta solo in nome della guerra
imperialista e dell'espansionismo coloniale.
Non
solo gli occupanti infatti si stanno organizzando alla luce delle
elezioni anticipate, ma anche la politica palestinese sta vivendo dei
grossi cambiamenti al suo interno. Nei primi giorni del 2019,
infatti, cinque partiti della sinistra palestinese, il Fronte
popolare (Fplp), il Fronte democratico (Fdlp), Iniziativa Nazionale
del parlamentare e attivista Mustafa Barghouti, il Partito del popolo
(Ppp) e l'Unione Democratica Palestinese (Fida) hanno annunciato la
formazione a Gaza e in Cisgiordania dell’Unione Democratica, una
sorta di terzo polo alternativo ai due partiti maggiori, Fatah del
presidente dell'Anp Abu Mazen e il movimento islamista Hamas. Saranno
i fatti a dirci se questa aggregazione unitaria si basa sulla
prospettiva di sviluppare la lotta del popolo palestinese o se è
frutto di logiche di perpetuazione di un ceto politico oggi
marginalizzato dal duopolio Fatah-Hamas. Certo che appare chiaro come
la parte più avanzata del popolo palestinese, in particolare della
Striscia di Gaza, ha dimostrato, con la Grande Marcia, di non voler
riconoscere una dirigenza, quella dell'Anp e
dei vertici di Fatah,
che collabora ogni giorno di più con l’occupante sionista.
L’Anp
infatti continua a portare avanti la “collaborazione sulla
sicurezza”, partecipando cosi attivamente all’arresto dei suoi
stessi cittadini da parte degli occupanti. Inoltre il regime di Abu
Mazen reprime sistematicamente ogni manifestazione in appoggio a Gaza
in Cisgiordania e collabora attivamente al blocco alla Striscia
imposto da Israele ed Egitto: lo scorso anno l'Anp ha tagliato lo
stipendio dei propri dipendenti a Gaza, ha rifiutato di pagare
l'elettricità che ancora arriva nella città assediata e a gennaio
il ritiro della delegazione dell'Autorità dal valico di Rafah ha
provocato un'ulteriore stretta del
blocco
da parte del regime egiziano.
Sarà
da vedere se questa nuova coalizione si impegnerà o meno a portare
avanti una rivendicazione fondamentale per il popolo palestinese,
ovvero la fine degli Accordi di Oslo del ’93, che sono stati
chiaramente una trappola per i palestinesi e che nella pratica non
hanno fatto altro che portare ad un riconoscimento ed una
“normalizzazione” dell’occupazione, nell’ottica di chiudere
definitivamente con una linea, quella dei “due popoli e due stati”,
dimostratasi fallimentare da ogni punto di vista. Le parti più
avanzate della sinistra palestinese hanno coscienza che ciò
significa rompere con la borghesia compradora stretta attorno all'Anp
e alla direzione di Abu Mazen all'interno di Fatah, postasi al
servizio dell'imperialismo Usa, del sionismo e della reazione araba.
Citando
Khaled Barakat,
portavoce del Fronte Popolare, “Dopo
54 anni il movimento di Fatah si è trasformato in un gruppo di
sicurezza, di centri finanziari e negozi annessi alle capitali della
regione, da Riyadh a Dubai a Tel Aviv, dal Cairo ad Amman. A poco a
poco la leadership ha scelto di cambiare fino a diventare uno
strumento di liquidazione dei valori e degli strumenti della causa
palestinese, di svendere il contenuto dei legittimi diritti nazionali
del popolo
palestinese fino a limitare i confini della Palestina a meno del 23% della sua area effettiva, di far ruotare attorno agli interessi di un gruppo limitato di investitori i legittimi diritti nazionali (...) È giunto il momento per la nascita di una nuova Palestina, in cui le forze della resistenza palestinese e araba, insieme con i militanti di Fatah, riprenderanno la loro responsabilità storica e politica. È anche il momento di rilanciare insieme a queste forze la creazione di un'alternativa rivoluzionaria a favore di una maggioranza popolare palestinese democratica in Patria e nella diaspora; un’alternativa che unisca tutti, proteggendo e rimarcando i suoi capisaldi ed i legittimi diritti nazionali”1.
palestinese fino a limitare i confini della Palestina a meno del 23% della sua area effettiva, di far ruotare attorno agli interessi di un gruppo limitato di investitori i legittimi diritti nazionali (...) È giunto il momento per la nascita di una nuova Palestina, in cui le forze della resistenza palestinese e araba, insieme con i militanti di Fatah, riprenderanno la loro responsabilità storica e politica. È anche il momento di rilanciare insieme a queste forze la creazione di un'alternativa rivoluzionaria a favore di una maggioranza popolare palestinese democratica in Patria e nella diaspora; un’alternativa che unisca tutti, proteggendo e rimarcando i suoi capisaldi ed i legittimi diritti nazionali”1.
Se quindi la situazione in Palestina
è in continuo sviluppo, di sicuro ci rimane una certezza: il
sostegno incondizionato dei vari governi nostrani all’entità
sionista. L’asse giallo-verde non è da meno dei predecessori, come
dimostrato da Salvini già più di un anno fa, quando si è
precipitato a sostenere la posizione di Trump su Gerusalemme,
nonostante a livello internazionale la maggior parte dei paesi si
fosse tenuta tatticamente in disparte.
Non
è inoltre mancato il consueto viaggio in Israele, fondamentale per
tenersi stretti gli alleati e per concludere ulteriori accordi, in
particolare quelli che riguardano i rifornimenti di gas all’Italia.
Salvini infatti è un fervente sostenitore del progetto Eastmed,
gasdotto che dovrebbe rifornire il nostro paese partendo dalle
risorse sottratte ai palestinesi, passando per Grecia e Cipro. Questo
gasdotto ovviamente non farà che aumentare il peso politico di
Israele a livello internazionale, dato che si garantirebbe, allo
stesso tempo, un notevole vantaggio rispetto ai competitors
mediorientali e una sempre maggiore dipendenza energetica dei
palestinesi.
Ovviamente
il progetto dell’Eastmed è solo l’ennesimo accordo che lo Stato
italiano firma con i partner sionisti e si aggiunge alle migliaia di
collaborazioni in campo militare, industriale e della ricerca, per
non parlare dell’esportazione di tutto l’apparato securitario
israeliano: metodi e strumenti repressivi vengono prima testati sulla
pelle dei palestinesi e poi utilizzati qui per attaccare chi lotta.
La
Grande Marcia del Ritorno è stata e continua ad essere un momento
molto alto della lotta per la liberazione della Palestina e la
Resistenza di Gaza rappresenta un faro per tutti i popoli che si oppongono all’imperialismo. Per questo risulta fondamentale,
nell’ottica di portare avanti una vera e concreta solidarietà
internazionalista nei confronti della lotta del popolo palestinese,
smascherare e denunciare gli accordi attuali e futuri tra Italia e
Israele e lottare ogni giorno contro il governo di casa nostra,
complice dell’occupazione.
I POPOLI IN RIVOLTA SCRIVONO LA
STORIA!
CONTRO IL SIONISMO E CHI LO
SOSTIENE, PALESTINA
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