Lotta di classe in Sardegna - prima puntata
48 ore
Sono
passati sette giorni dal mercoledì in cui la cisterna è stata
attaccata. La situazione è precipitata, gli eventi si sono accelerati.
Non si tratta più di casi isolati. Oltre a mungere al mattino e al
pomeriggio altri nuovi comportamenti accomunano le vite separate dei
pastori di tutta Sardegna: attaccare le cisterne, non versare agli
industriali, fermare i caseifici. Queste azioni li fanno incontrare. “È diventato un secondo lavoro”
dice un pastore di Nùoro a un blocco sulla strada verso Siniscola. Si
uniscono così i pastori, per attaccare i padroni che non pagano il loro
lavoro, per farsi pagare da chi guadagna sulla loro fatica. È giovedì 14
febbraio e un sole già primaverile sveglia il giovane pastore che
riposa al presidio steso sull’asfalto. Si alza e raggiunge gli altri al
tavolo. I raggi caldi sulla testa lo hanno rincoglionito più del dovuto
lasciandolo preda delle prese in giro dei più grandi riscaldati a loro
volta dal vino più che dal sole. Parlano dell’incontro al Viminale. Oggi
è il giorno. “Salvini? Almeno ha preso in mano la situazione”,
lo dicono un po’ ovunque, negli altri presidi, ai posti di blocco sulle
statali, nei bar. Lo dicono con una punta di soddisfazione per aver
creato un problema non aggirabile. Lo dicono con l’indifferenza di chi
sta a vedere cosa succede. Lo dicono alzando le spalle. Lunedì 11 il
premier Conte si era recato a Cagliari in prefettura promettendo un
tavolo tra industriali del latte e pastori per giovedì 21 in cui
affrontare la questione del giusto prezzo del latte ovino. Dieci giorni.
La
politica è il tempo che logora. È sempre stato così nelle lotte dei
pastori in Sardegna: ore sotto il Consiglio regionale ad aspettare gli
esiti degli incontri, le promesse, gli impegni a lungo termine, i
rimpalli. La lotta, questa lotta con questa determinazione, serve a
bruciare questo tempo, a consumare la politica e gettarla via. Una volta
per tutte. Usarla, scambiarla per i propri interessi, come una merce
qualsiasi. La Sardegna era in subbuglio da quattro giorni e la politica
rinviava la questione di altri dieci. È il mondo da abbattere. Salvini è
più scaltro, si rappresenta come chi ha bisogno di abbattere questo
vecchio mondo. Più prosaicamente non vuole correre il rischio di
arrivare alle votazioni regionali del 24 febbraio con una tensione
sociale così alta e allo stesso tempo vuole capitalizzare la protesta
dei pastori in consenso politico per sé in vista delle elezioni. Il
ministro degli interni pensa di potersi muovere con la solita sua
disinvoltura, ascrivendo quanto accade in Sardegna al cosiddetto "campo
populista”. Cerca di sciogliere le contraddizioni capitalistiche che
animano le tensioni sociali reali in una nuova redistribuzione simbolica
operata dall’alto contro le gerarchie della democrazia che non
funziona, di un mercato che inganna. Martedì Salvini scavalca tutti e
promette: “soluzione
entro 48 ore, si tratta di una questione di ordine pubblico quindi
l’incontro si terrà al mio Ministero e non mi alzerò da quel tavolo fino
a quando non si raggiungerà l’accordo su un euro a litro di latte
versato”.
Salvini
si intesta le parole dei pastori, consuma e getta via con i pastori la
vecchia politica. Entro il campo populista però c’è un altro vettore
possibile, quello che sullo sviluppo di una rigidità di parte mette
ognuno davanti alle proprie responsabilità. L’interesse del pastore non è
quello dell’industriale. Questo antagonismo è svelato da una parte che
si nega a danno dell’altra, a danno di quella che sta sopra e comanda.
Il populismo di Salvini funziona solo fino a quando il popolo che si
nomina è assorbito nel rapporto produttivo vigente. Mai nella sua
negazione, mai nell’autonomia da questo. Questa non è infatti, solo, una
protesta. Il popolo si è spaccato. Gli industriali non ne fanno più
parte. Perché qui c’è uno scontro vero e strappare un euro a litro di
latte significa toglierlo dalle tasche degli industriali. Non basta un
selfie allora ma c’è comunque tra questi pastori, rispetto all’incontro
al Viminale, un temperato ottimismo, mite e sereno, come il clima di cui
si gode a questo presidio anche se stretto tra la statale, i capannoni
industriali e la campagna brulla del Campidano.
Route 131
Ai presidi si mangia molto. Si beve molto. "Stiamo bene anche così",
dice un pastore di non più di 25 anni di Fonni commentando la fatica di
questi giorni mentre allunga un altro bicchiere di Ichnusa al suo
compare davanti alla Se.Pi Formaggi di Marrubiu, un altro caseificio
sulla 131 nel Campidano di Oristano bloccato e presidiato 24 ore su 24.
Mercoledí verso il tramonto sono una trentina davanti al fuoco sulla via
di accesso al caseificio. Scrutano la penombra provando a interpretare
dai fari quali mezzi si sfilano dallo svincolo in uscita dalla 131 per
dirigersi verso lo stabilimento: "gente
di noi, pattuglia, antisommossa... cisterne? Cisterne no, non ci
pensano neanche più a provare a farle entrare. Ormai lo sanno che non ce
la fanno". Sono ragazzi di paesi dell'oristanese ma molti
vengono da lontano. Fonni, Desulo, Orune. Centri della Barbagia. Mungono
e si mettono in macchina per coprire mezza Sardegna e raggiungere i
caseifici. Se li girano tutti. "È il divertimento del momento",
dice un altro del Mandrolisai. Sì stiamo bene così. I visi non
tradiscono nessuna emozione ma gli occhi non sono annoiati, non come
quando si lavora e basta, quando si fa sempre lo stesso giro: dalla
campagna al bar e ritorno. E poi non c'è da scomporsi ora. Senza
cambiare espressione il ragazzo di Desulo scandisce le parole con
serenità: "Non ci siamo ancora arrabbiati, se ci arrabbiamo glieli assaltiamo i caseifici".
L’ordine
pubblico non è il non rispetto delle leggi o finanche delle regole, la
regolazione degli scambi tra diritti e doveri del corpo civile. Siamo
nel mondo dei barbari, direbbero alcuni, di civile non c’è più nulla.
Men che meno il mercato replicherebbero i barbari. In un commento sotto a
un video di sequestro di una cisterna del latte da parte di alcuni
uomini travisati pubblicato su un portale on-line isolano nella giornata
di martedì si legge: “il
passamontagna serve a proteggersi o pensate che si stiano divertendo
con mogli e figli a casa che sperano che non vengano arrestati. Il
passamontagna ce l'ha il mercato che non ha un volto ma detta legge”.
L’ordine pubblico è allora l’organizzazione del territorio sui flussi
dello scambio delle merci: ripristinare la normalità significa
preservare quest’ordine della valorizzazione contro un modo di vivere il
territorio per i propri interessi, per aumentare il proprio costo
sociale a partire da una domanda collettiva: il latte l’industriale ce
lo deve pagare a non meno di 1 euro a litro iva esclusa. Una richiesta
corporativa? No, è su un egoistico interesse di parte che avanzano le
condizioni per uno sviluppo di classe della domanda di riorganizzazione
del vivere assieme. Sono le comunità incastrate tra la terra e
l’infrastrutturazione ad avere bisogno di un’organizzazione diversa del
territorio. Le strade allora non servono più per far attraversare la
Sardegna dai camion ma per raggiungere i presidi, per bloccare i flussi,
per dare la caccia alle cisterne.
La
s.s.131 è una strada che collega i due capi della Sardegna. 231 km in
direzione nord, 231 in direzione sud. È detta anche la Carlo Felice, dal
nome del viceré sabaudo che negli anni ‘20 del XIX secolo la progettò
come arteria in grado di convogliare le produzioni agricole isolane dal
Campidano di Cagliari verso lo scalo portuale di Porto Torres per la
loro esportazione. La statua del tiranno sabaudo al centro di piazza
Yenne a Cagliari indica il nord. La 131 fa schifo. In tutti i sensi. È
una strada ad alta percorrenza, dissestata in più punti, continuamente
interrotta da lavori in corso. La 131 fa schifo perché nelle campagne
attorno alla sua striscia di asfalto e in quelle dei suoi affluenti si
aggrumano i capannoni industriali, qualche fabbrica e diversi caseifici
intervallati dai paesi, dai nuraghi con sullo sfondo le campagne
dell’isola. È una superstrada utilizzata per lo spostamento delle merci e
delle persone. Dai turisti ai camionisti. Adesso la 131 è un campo di
battaglia. È lo snodo dove si concentrano le maggiori tensioni e dove il
mercato viene disarticolato. Dove il territorio organizzato secondo il
mercato si scontra con un suo nuovo uso, in funzione dei pastori e non
degli industriali, per le comunità e non per il mercato. Da nord a sud
negli ultimi nove giorni sono sbocciati presidi permanenti ai caseifici
dislocati a ridosso di questa superstrada. La 131 unisce i sardi nella
lotta contro gli industriali, mette in comunicazione i presidi, permette
ai pastori di dare la caccia alle cisterne. È una bardanìa contro gli
industriali, come le razzie a cavallo dell’800 a danno dei ricchi centri
controllati dai don, i facoltosi proprietari terrieri e notabili di
zona. Le volanti della polizia fanno le vasche in su e in giù sulla
statale con gli occhi aperti. Qualsiasi può succedere in qualsiasi
punto, a qualsiasi bivio. Correre in 131 è più divertente ora e ha il
gusto di un po’ di libertà in più e di obbligo in meno. Una temporanea
route 66 in mezzo al Mediterraneo.
Posto di blocco
Tra
martedi 12 e mercoledì 13 febbraio si arriva a un blocco generalizzato
della Sardegna ad una settimana dell'inizio della rivolta. È
l'evoluzione naturale di un conflitto che cresce perché invade con le
proprie ragioni altre sfere della cosiddetta comunità di appartenenza,
perché aumenta la consapevolezza di un potere nei confronti di una
controparte – gli industriali – che è presa alla sprovvista e non riesce
a difendersi. Ora sono i padroni che chiedono assistenza alla politica.
È con i blocchi che si esercita la forza. Per piegare l’industriale. Da
lunedì anche la Gallura si unisce alla protesta. A Olbia
collettivamente viene gettato il latte davanti al municipio. È il segno
distintivo della rivolta. Nella distruzione del proprio lavoro ci si
nega come parte del processo di valorizzazione controllato
dall’industriale. Come parte subalterna ma indispensabile a produrre la
merce che arricchisce l’industriale: “E che soddisfazione c’è a lavorare così?” dice un ragazzo di Nurallao al presidio di Thiesi, davanti al caseificio dei f.lli Pinna, i più potenti tra gli industriali. “Traballu po fai guadangiai a issus”,
lavoro per far guadagnare solo loro, non c’è soddisfazione. Bisogna
distruggersi come lavoro per l’industriale per aumentare il costo del
proprio lavoro, di chi si è. Per farsi rispettare. È un lavoro che si
articola su una filiera industriale: l’allevamento, il caseificio al
quale si conferisce, i distributori, la grande distribuzione
organizzata. Quando un solo anello di questa catena, il primo, la sua
parte viva, si nega nella sua funzione, quando non si combina più con le
macchine dell’industriale, quando non si conferisce più, tutta la
catena è danneggiata, tutto il processo è vulnerabile. Si inizia a farsi
rispettare, a contare di più. Il padrone si riorganizza, prova a
ricombinare secondo un’altra filiera la propria produzione. Bisogna
farsi rispettare. Al molo sbarchi di Porto Torres e di Olbia mentre
albeggia i pastori fermano ogni camion per controllare che non trasporti
latte da fuori importato per rifornire i caseifici assetati. Sono
coperti, fermano i mezzi, perquisiscono se sospetti, lasciano ripartire.
Polizia e carabinieri osservano a distanza.
“Qui siamo partiti più tardi, da due giorni, ma ora nessuno sta versando”
raccontano dei ragazzi giovanissimi di Loiri al blocco convocato per
martedì mattina al bivio di Trudda sulla 131 Diramazione, a pochi
chilometri da Olbia. Le cose girano più veloci, tutto si accelera.
Entrambi i sensi di marcia vengono bloccati, il latte versato sulla
carreggiata e anche dal cavalcavia, come una cascata. Il blocco tiene
per diverse ore. Nel frattempo nel tardo pomeriggio Salvini se ne esce
con il suo proclamo: “soluzione entro 48 ore”, ma aggiunge “non tollererò altri blocchi”.
Non si tratta di stare fuori dal perimetro della legalità, come
ammonisce un agente rivolgendosi a pastori che non lo vedono e non lo
sentono mentre stanno seduti sul guard-rail della statale, ma si tratta
di ristabilire un principio di autorità. “Le legge la facciamo noi adesso”
dice un pastore della Baronia il giorno dopo. Il bivio di Lula sulla
131 è completamente bloccato dalle nove e mezza del mattino. Tutti i
centri del nuorese si sono dati appuntamento qui. La legge la facciamo
noi significa che ora decidere è chi partecipa al nuovo ordine in cui si
organizza la quotidianità delle persone unite nel conseguire lo stesso
obiettivo: tutti quindi parlano, affermano, dicono la propria,
partecipano. Non c'è immunità a questa battaglia. Mercoledì è uno dei
momenti più alti della mobilitazione. Siniscola è attraversata da un
corteo, a Sassari e Cagliari si snodano due manifestazioni studentesche
che crescono contano diverse migliaia di partecipanti, le scuole sono
chiuse in tanti paesi, in diversi centri anche i servizi comunali sono
sospesi, nei paesi non coinvolti da blocchi vicini i pastori si
ritrovano in piazza per insegnare a trasformare in formaggio il latte
che non hanno versato agli industriali. A Nùoro le attività commerciali
restano chiuse al mattino, tante anche al pomeriggio: “anche l’MD ha
chiuso, il responsabile del punto vendita ha chiesto agli uffici se
poteva chiudere, tutti i clienti hanno almeno un allevatore in famiglia.
C’erano le mie amiche commesse che salivano verso la stazione
ferroviaria per partecipare alla manifestazione”, racconta una barista
di un bar del corso, in centro città.
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