Le elezioni presidenziali in America sono una manifestazione aperta della crisi dell'imperialismo Usa. La presidenza Obama, se sul piano dell'immagine ha permesso all'imperialismo Usa di recuperare una credibilità sul piano dei valori di democrazia, diritti civili, ecc., sul piano invece dei fatti non ha fatto che approfondire le contraddizioni su cui l'imperialismo si attanaglia: l'uscita dalla crisi economica, il controllo delle aree geopolitiche di interesse strategico, il dominio sul mercato mondiale. Su questo l'imperialismo Usa è affondato sempre di più nelle guerre di aggressione in cui è impegnato, dall'Afghanistan, alla Siria, Iraq, ecc; anzi, la sensazione di fondo è stata di una perdita di leadership che ha spinto i diversi imperialismi e le classi dominanti delle zone di guerra ad accentuare lo sviluppo degli interessi autonomi, vedi Turchia, vedi Arabia Saudita, ecc.
A questo Obama ha risposto tornando ad accentuare la sua politica di contesa nei confronti della Russia e spingendo la Nato a riprendere un suo ruolo aggressivo su tutti i piani, come il recente Vertice di Varsavia ha definito – vedi nostro speciale sul Vertice.
La crisi dell'imperialismo, quindi, si è accentuata e ora ricerca una nuova leadership che permetta di uscirne.
La Clinton rappresenta la continuità della politica di Obama, senza l'appeal di Obama, e quindi la sua vittoria vorrà dire un'ulteriore intensificazione delle politiche più recenti dell'imperialismo Usa sul piano internazionale e un'accentuazione dei fattori di guerra nei confronti dell'altro imperialismo russo, ma anche Cina.
Trump rappresenta, invece, la protesta interna agli Stati Uniti che coalizza tutti i fattori di insoddisfazione di settori della borghesia, della media e piccola borghesia benestante, compreso settori della classe operaia che vedono il loro status da aristocrazia operaia profondamente indebolito.
Quindi, il voto a Trump non è un'altra politica dell'imperialismo Usa, ma una protesta sul piano interno di segno reazionario, a l'establishment borghese rappresentato da Obama/Clinton.
E' come se in queste elezioni guerra e reazione, che vanno insieme, si siano temporaneamente separate, tra una candidato che sostiene la guerra e propugna la “democrazia” all'interno e un altro candidato di impronta isolazionista, meno interessato, apparentemente, al ruolo degli Usa sul piano internazionale e ben deciso a fascistizzare il paese sul piano interno, facendo il pieno di tutto ciò che è reazionario negli Usa e delle nuove emergenze di radicalizzazione reazionaria in settori della classe media, aristocrazia operaia, ecc., prodotte dalle questioni terrorismo, rivolte afroamericane, e che trovano poi anche negli Usa il loro cemento nella politica antimmigrazione.
E' evidente che questa temporanea dicotomia tra guerra esterna e reazione interna può dare forza all'imperialismo americano solo se si ricompone.
Dal punto di vista dei proletari sfruttati e delle masse popolari americane, queste lezioni invece rappresentano l'ennesimo scarto ad ogni idea di trasformazione elettorale del sistema esistente.
Alla delusione Obama si è aggiunta la resa Sanders, ed entrambi favoriscono al reazione fascista e imperialista.
La via elettorale e il mito della democrazia americana cova all'interno una nuova ondata e un nuovo salto della reazione.
E non è certo il votare anti Trump che può incidere minimamente in questa contesa. Ma solo la costruzione di una opposizione proletaria e rivoluzionaria all'intero sistema dominante che faccia leva sulle contraddizioni reali che attraversano proletari e masse.
In questo senso il futuro sta nelle rivolte contro la polizia e nella lotta sociale di massa su cui bisogna investire, dentro la prospettiva di costruire realmente anche nel ventre della bestia gli strumenti della rivoluzione proletaria e socialista: il Partito, il fronte unito, la forza combattente.
Siamo, quindi, a fianco di tutti i compagni che boicottano le elezioni e lavorano per questa strada.
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