Un utile lavoro da parte di Clash city workers.
Il problema che poniamo noi oggi però è un altro, perchè non si è riusciti ad opporre al jobs act un movimento tipo quello francese?
JOBS
ACT:
IL (MAGRO) BILANCIO DI UN ANNO DI INTERVENTI RENZIANI, E I LORO VERI OBIETTIVI
Riporto a seguire un interessante,
dettagliato e documentato articolo dei compagni Clash City Workers sui mancati
effetti positivi del Jobs Act.
Nell’articolo si dimostra che i
motivi reali per cui è stato varato il pacchetto “Jobs Act” non è stato certo un
aumento dell’occupazione, la crescita del PIL, il miglioramento dell’economia
italiana.
Il Jobs Act è servito piuttosto
per mantenere o aumentare il profitto per i padroni, per scaricare in parte
sulla collettività il costo del lavoro, per cancellare la conflittualità, per
estendere la flessibilità del lavoro fino a legalizzare vere e proprie forme di
lavoro nero.
Ma cosa c’entra tutto questo con
la sicurezza sul lavoro?
Un primo effetto deleterio
(diretto) del Jobs Act è stato l’ulteriore riduzione delle tutele previste dalla
normativa su salute e sicurezza (D.Lgs. 81/08) a causa delle modifiche
peggiorative ad essa apportate, come evidenziato in un mio articolo
specifico.
Il secondo (indiretto, ma, secondo
me, ben più grave) peggioramento apportato dal Jobs Act è il cancellamento o la
riduzione della conflittualità, rendendo così i lavoratori ancora più
ricattabili e quindi meno propensi ad avviare vertenze anche sul rispetto del
diritto a un lavoro salubre e sicuro.
In conclusione, come ha già avuto
modo più volte di scrivere, la crisi la stiamo pagando (e continueremo a pagarla
visto l’andamento involutivo dell’economia mondiale) sulla nostra pelle, nel
senso letterale del termine.
L’aumento degli indici
infortunistici e delle malattie professionali ne è una prima
conferma.
Marco Spezia
da Clash City Workers
6 marzo 2016
PREMESSA
Quello che state per leggere è il
nostro quarto o quinto contributo sul Jobs Act. Se la nostra è un’ossessione, lo
è in misura speculare a quella del Governo e dei suoi megafoni ambulanti che,
nel corso dell’ultimo anno, ci hanno quasi quotidianamente edotto sui prodigiosi
effetti delle politiche governative sul lavoro.
Arriviamo buoni ultimi a rivelarvi
che, in realtà, di prodigi se ne sono visti pochi: ma l’ansia da prestazione
dell’apparato di Governo su questi temi è di per sé
rivelatrice del fatto che l’attacco al mondo del lavoro non può essere oggetto di alcuna critica. Il complesso di interventi volti a rendere più incerta la continuità lavorativa, minore e più precario il salario non consentivano critiche di alcun tipo: la realtà, però, è più forte di ogni rappresentazione, anche di quella di chi controlla le leve del potere politico e influenza paurosamente il potere mediatico.
rivelatrice del fatto che l’attacco al mondo del lavoro non può essere oggetto di alcuna critica. Il complesso di interventi volti a rendere più incerta la continuità lavorativa, minore e più precario il salario non consentivano critiche di alcun tipo: la realtà, però, è più forte di ogni rappresentazione, anche di quella di chi controlla le leve del potere politico e influenza paurosamente il potere mediatico.
NOTA
DI METODO
Ascriveremo alla categoria Jobs
Act molte cose diverse: gli esoneri contributivi stabiliti dalla legge di
stabilità 2015; i decreti che costituiscono il Jobs Act vero e proprio (decreti
Poletti del 2014, contratto a tutele crescenti, demansionamento e controllo a
distanza); l’estensione della possibilità di utilizzo dei voucher. Faremo questa
mescolanza perché, al di là delle differenze tecniche tra i provvedimenti, ci
interessa cogliere il nesso politico dietro tutta l’azione governativa sul
lavoro, in un contesto, quello italiano, che non sembra proprio intenzionato a
voler uscire dalla crisi (ammesso che qualcun altro ci sia effettivamente
riuscito).
AGGIORNAMENTO
6 MARZO 2016: NOTA SULLE FONTI
I dati che sono stati utilizzati
per questo documento sono presi, essenzialmente, dall’Osservatorio sul
Precariato dell’INPS e dal database dell’ISTAT. In particolare, quelli relativi
all’incremento occupazionale 2015 e alla sua composizione sono tratti dal
comunicato stampa ISTAT del 2 Febbraio 2016, reperibile al link:
L’ISTAT ha, successivamente,
aggiornato tutte le serie storiche relative all’occupazione, in seguito ad
un’innovazione metodologica relativa alla destagionalizzazione dei dati. I
cambiamenti non sono pochi, né di scarso peso: per fare solo un esempio, il dato
relativo all’incremento occupazionale 2015, che ammontava a +109.000 unità
secondo il vecchio metodo, è “improvvisamente” diventato +163.606. Non avendo la
possibilità di verificare di nuovo, e in breve tempo, tutti I dati, ci
attestiamo su quelli che l’ISTAT forniva fino al mese scorso. Non
possiamo fare a meno di notare, però, che la procedura seguita dal nostro
istituto di statistica è poco rigorosa e piuttosto “bizzarra”, quantomeno dal
punto di vista comunicativo. Del resto questo improvviso aumento
di circa un terzo dei posti di lavoro in più per il 2015 (che ai malpensanti
potrebbe far nascere più di un sospetto) è in scia con quanto è accaduto, ad
esempio, in Grecia, Spagna e Portogallo negli anni scorsi; o con quanto è
accaduto con i dati sulle migrazioni forniti da Frontex; dati che cambiano
all’improvviso e che dimostrano, anche presupponendo la buona fede di chi li
fornisce, il carattere profondamente politico, e quindi ideologicamente
orientato, della raccolta ed elaborazione statistica di dati, sulla quale poi si
fanno, o si giustificano, le scelte dei governi.
1.
SPAZZIAMO IL CAMPO DALLA FALSA PROPAGANDA: IL JOBS ACT È STATO UN FLOP (A CARO
PREZZO)
Vi chiediamo un momento di
pazienza prima di iniziare. Vi sembrerà di essere sommersi da un mare di numeri
contraddittori e incomprensibili, e di perdervi, ma state tranquilli:
ne
usciremo vivi.
Le fonti utilizzate sono, come
abbiamo detto, il bollettino mensile dell’Osservatorio sul Precariato dell’INPS
e le rilevazioni statistiche dell’ISTAT.
Qual
è la differenza tra le due fonti?
L’INPS analizza i flussi, cioè
l’andamento mensile delle attivazioni e delle cessazioni di contratti; l’ISTAT
lo stock, cioè il saldo finale degli occupati, il suo incremento o
decremento.
Non
è la stessa cosa, un nuovo contratto o un nuovo posto di
lavoro?
No. Una stessa persona può essere
intestataria di più contratti, contemporaneamente (due part-time, per esempio) o
successivamente: ad un solo posto di lavoro possono corrispondere più contratti.
Un altro esempio (è successo nel 2015) è che un lavoratore, formalmente
“autonomo”, diventa dipendente: quel lavoratore già era presente nel mercato del
lavoro, quindi al nuovo contratto non corrisponde automaticamente un nuovo
posto.
Che cosa ha fatto la propaganda
governativa, a partire dall’inizio del 2015? Ha usato sistematicamente i dati
INPS, cioè quelli sui contratti, e li ha spacciati per posti di lavoro (con la
supina, pigra e colpevole complicità della quasi totalità della stampa
nazionale); non solo, per cantare le lodi del Jobs Act il Governo è arrivato
addirittura a presentare come “crescita dell’occupazione” il dato lordo sui
nuovi contratti attivati, senza calcolare le contemporanee cessazioni. Hanno
imbrogliato spudoratamente e goffamente, per un anno
intero.
La realtà, ovviamente, è
diversa.
Il
numero di nuovi contratti a tempo indeterminato attivati, al netto delle
cessazioni, nell’anno 2015 è 186.048. Il numero dei nuovi occupati, invece, è
109.000 (secondo ISTAT): questo è il prodotto di un
incremento
del lavoro dipendente (+247.000) e un forte
decremento del lavoro autonomo (-138.000); all’interno del lavoro
dipendente prevale, seppur di poco, il tempo indeterminato sul determinato
(135.000 contro 113.000) ma sono i posti
a tempo determinato che hanno la percentuale di crescita più
alta (+4,9% rispetto al +0.9% degli indeterminati),
confermandosi la tipologia di lavoro più dinamica e finendo per rappresentare il
14,2% del totale dell’occupazione, cifra record mai registrata (nel 2014 erano
il 13,6%).
Ciò che l’ISTAT, purtroppo, non ci
dice è la composizione di quei 109.000 nuovi occupati: quanti di loro sono a
termine, quanti indeterminati, quanti autonomi.
Non potendo stimarli in alcun
modo, postuliamo un assunto palesemente impossibile e falso, cioè che
tutti
i 109.000 nuovi posti di lavoro siano a tempo indeterminato: in
questo modo creiamo lo scenario (ripetiamo, impossibile) più favorevole alla
propaganda governativa.
Quindi in sostanza l’occupazione
aumenta di molto poco, anche perchè crolla il lavoro autonomo. All’interno del
lavoro dipendente il miracolo del Jobs Act consisterebbe invece in quei 135.000
contratti a tempo indeterminato. Come veniamo subito a dimostrare però
il
costo potenziale, per la collettività, di ogni posto di lavoro è stato altissimo
e ingiustificabile.
E’ ormai assodato (lo dice da
tempo Marta Fana, lo ha detto finanche Bankitalia) che il “merito” della
relativa, modestissima crescita dei contratti a tempo indeterminato è
essenzialmente da attribuirsi agli esoneri contributivi. Basta vedere,
l’andamento mensile delle accensioni dei nuovi contratti a tempo indeterminate:
a Dicembre hanno registrato un enorme incremento, proprio quando era l’ultima
occasione per le imprese di accaparrarsi i sopraccitati sgravi. Secondo
Bankitalia, inoltre, “la combinazione del contratto a tutele crescenti e degli
incentivi spiega solo il 5% delle nuove assunzioni a tempo
indeterminato”.
Vediamo, dunque, di che cifre
potenzialmente parliamo, quanto ci potrebbe costare questa manovra. I nuovi
contratti che hanno usufruito degli sgravi sono stati 1,44
milioni; l’ammontare massimo degli sgravi previsto dalla legge
di stabilità è 8.060
euro annui per tre anni. Il calcolo, dunque, è:
(8.060x3)x1.440.000 = 34.819.200.000
euro.
Il costo potenziale di ogni nuovo
posto di lavoro (postulando che tutti i contratti godano del massimo degli
sgravi per tutti e tre gli anni) è dunque di 319.442 euro: nella realtà è
sicuramente maggiore, ma non sappiamo di quanto. Altissimo
e ingiustificato, non ci sarebbe neanche bisogno di
scriverlo.
A questo punto qualche cantore
governativo potrebbe dirci che abbiamo imbrogliato, che il Jobs Act non può
essere valutato solo sulla base dei nuovi posti di lavoro e che comunque il calo
della disoccupazione e l’aumento degli occupati sono dati positivi, anche se
irrisori.
Certo! Peccato che il Jobs Act non
c’entri nulla!
La
disoccupazione è diminuita dell’1% scendendo dal 12,4%
all’11,4%,
ma i dati sono sostanzialmente in linea con quelli europei: nell’Eurozona la
disoccupazione è al 10,5%, in Francia al 10,1%, in Spagna al 21,4%, in Germania
al 4,5%. La curva di crescita è in linea con l’UE, dove da gennaio a novembre la
disoccupazione è scesa dello 0,7%.
In
sintesi: il Jobs Act è stato ininfluente rispetto alla dinamica del mercato del
lavoro, l’andamento è stato in linea con quello del resto dell’UE; quel
pochissimo in più ci è costato carissimo!
2.
EFFETTI POLITICI DELL’OPERAZIONE
Insomma, il Jobs Act ha prodotto
poco in termini lavorativi nonostante le roboanti promesse di Renzi; che cosa ha
prodotto, invece, in termini politici?
1.
Contratto a tutele crescenti
Il tempo indeterminato non esiste
più, dal momento che è stato di fatto cancellato il reintegro e la sanzione
amministrativa in caso di ingiustificato motivo è modesta. Ci sono stati,
infatti, già casi di licenziamenti di lavoratori assunti con il contratto a
tutele crescenti.
2.
Contratti a tempo determinato.
Abolito ogni obbligo di
indicazione delle ragioni tecniche, produttive, organizzative, sostitutive nei
primi 36 mesi di ricorso al contratto a termine, fino a un massimo di 5 rinnovi.
Considerato che basta cambiare il titolo della mansione per ricominciare daccapo
con lo stesso lavoratore, si può dire che non
c’è alcun limite di utilizzo ai contratti a termine. L’unica
sanzione prevista, per un utilizzo oltre il limite del 20% del totale del
personale, è minima: il 20% della retribuzione del 21esimo contratto. Non a
caso, nonostante
i consistenti sgravi contributivi per i contratti a tutele crescenti e
nonostante la libertà di licenziare, i contratti a termine sono la forma di
contrattazione più utilizzata nel lavoro
subordinato.
3.
Voucher
Non sono contratti, ma sono la
forma di organizzazione del lavoro maggiormente cresciuta nel 2015. Ne
sono
stati venduti 114.921.574 del valore nominale di 10 euro, per un
ammontare complessivo dunque di oltre un miliardo di euro. Danno diritto alla
maturazione della pensione e all’assicurazione INAIL, ma non
a disoccupazione, maternità, malattia, ecc., perché non si certifica, col
voucher, la continuità del rapporto di lavoro. Il limite
economico di utilizzo annuo è 9.333 euro lordi a lavoratore, più basso nel caso
di prestazioni per imprenditori commerciali e liberi professionisti. Ciò
significa che, nel corso del 2015, almeno
123.134 lavoratori sono stati pagati con voucher. Molti di più,
se si considera che per alcuni settori (pub, ristoranti, ecc.) il limite è più
basso, è che molti vengono retribuiti in parte in nero, in parte in voucher.
Possiamo stimare senza timore di esagerare che sono stati circa 200.000 i
lavoratori pagati in voucher, pari alla totalità dell’incremento del numero
degli occupati (nel cui computo comunque non
confluiscono).
4.
Controllo a distanza
Senza alcun collegamento con
eventuali effetti benefici sul mercato del lavoro, nel Jobs Act è stata inserita
la possibilità, per i datori di lavoro, di controllare i lavoratori attraverso
telecamere a circuito chiuso, controllo telematico sull’uso dei PC, chip nelle
scarpe per il controllo dei movimenti: in pratica è diventato legale il modello
organizzativo di Amazon.
5.
Demansionamento
Come dice questo articolo (http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-sanatoria-nascosta-nel-jobs-act/)
una pratica, quella del mancato riconoscimento della professionalità, che è
anticostituzionale e riconosciuta dalla medicina del lavoro come lesiva
dell’integrità psico-fisica dei lavoratori, è stata riconosciuta innocua e
consentita sempre e comunque.
3.
MA INSOMMA, L’ECONOMIA E’ RIPARTITA?
Il 14 Marzo 2015 Renzi era in
visita al cantiere dell’Expo. Mancavano 50 giorni all’apertura e il cantiere era
pronto al 90%, ma ciò bastava e avanzava, per Renzi e Squinzi, per lanciarsi in
ottimistiche previsioni sulla ripresa in Italia. Dall’articolo de laRepubblica
on-line di quel giorno leggiamo che Squinzi dichiarava: “Possiamo invertire la
rotta e cambiare la condizione del Paese. Expo è il motore che permetterà al
Paese di accelerare i consumi interni ed è il trampolino per la crescita del
nostro PIL”. Renzi, dal canto suo, non si sottraeva: “Dopo questo non finisce
tutto perché finalmente l’economia italiana sta ripartendo e potremo reinvestire
nel settore delle infrastrutture anche alla luce delle nuove tecnologie”. Di
dichiarazioni come queste, il Governo, i giornalisti al suo seguito, gli esperti
che non ne indovinano una da anni ne hanno rilasciate con frequenza più che
quotidiana. E’
andata davvero così?
Insomma: il PIL cresce, ma pochissimo
(+0,7% al secondo trimestre 2015, gli ultimi dati accessibili); la produzione
industriale crolla (-1% a dicembre 2015, era al +0,2% un anno prima; i prezzi al
consumo ristagnano allo 0,1%; la disoccupazione segue la tendenza europea e
resta comunque alta, mentre sale la quota di inattivi; l’OCSE, infine, ha
tagliato le stime di crescita per i prossimi due anni, per praticamente tutto il
mondo. E’ evidente che, in un contesto di crisi generalizzata e globale, solo un
imbecille o qualcuno in malafede può ritenere che misure come gli esoneri
contributivi e il Jobs Act possano rilanciare
l’occupazione...
Bene:
proveremo a dimostrarvi che tutto ciò che il Governo ha fatto sul lavoro è
esattamente il prodotto di imbecilli in malafede!
4.
QUAL E’ STATO L’OBIETTIVO REALE? DI FATTO, QUALI SONO STATI GLI EFFETTI PIÙ
CONSISTENTI DEL JOBS ACT?
Il
costo del lavoro per le imprese è stato ridotto, scaricandolo sulla
collettività, quindi, in ultima analisi, sul
salario.
La
conflittualità è stata annichilita dalla cancellazione dell’articolo
18, dal controllo a distanza e dal demansionamento.
La
possibilità di ricorrere al lavoro precario, o di “legalizzare” il nero, è
aumentata enormemente, col boom dei voucher e la
predominanza dei contratti a tempo determinato.
Il Governo, insomma, ha fatto
regali
immensi ai padroni: ma i padroni, che stanno facendo per il famoso “sistema
Paese”? Vediamolo.
5. L’ECONOMIA ITALIANA, OVVERO: IL
MORTO INTERROGATO NON RISPOSE
Uno dei cavalli di battaglia del
Governo è stato che gli interventi sul lavoro avrebbero rilanciato la
produttività; non a caso nell’ultima legge di stabilità lo Stato si fa
praticamente carico degli investimenti privati introducendo il cosiddetto
“superammortamento”, cioè una valutazione maggiorata del 40% delle spese
sostenute per l’acquisto di nuovi macchinari e i canoni di locazione, in maniera
tale da avere consistenti sconti su IRES e IRPEF: in
parole semplici i padroni pagano meno tasse se
investono.
A
quanto pare, però, a questo fatto di spendere i soldi i padroni italiani sono
piuttosto refrattari: tra il 1995 e il 2014, infatti,
la quota di investimenti sul PIL è diminuita del 2,51%! Nonostante ciò, nello
stesso arco di tempo la
produttività, cioè la quantità di prodotto per unità lavorativa,
è
costantemente aumentata, tranne che nel 2009 e nel 2012: in
totale, nel 2014 era il 47% in più rispetto al 1995!
Chi
ha fatto questo vero e proprio miracolo italiano? I lavoratori! Solo aumentando
l’intensità di sfruttamento, intesa anche, brutalmente, come pagare di meno per
più lavoro, è possibile crescere in produttività riducendo gli
investimenti...insomma, avremmo
tutto il diritto di decidere noi sulle scelte economiche, visto che sono i
numeri stessi a dirci che mandiamo avanti la baracca, ma invece
dobbiamo sorbirci le lezioncine di chi ci accusa della mancata crescita
perché...guadagniamo
troppo!
In un recente documento del
proprio Centro Studi, infatti, Confindustria grida allo scandalo, sostenendo
esplicitamente che, in uno scenario in cui il valore aggiunto non cresce a
sufficienza, la massa salariale assume, rispetto al PIL, proporzioni
intollerabili.
E
hanno ragione (dal loro punto di vista...)! La curva dei salari, infatti,
dall’inizio della crisi del 2008, da quando cioè il PIL è in contrazione,
diventa leggermente anticiclica. Dal momento che non esiste ancora (per fortuna)
una scala mobile al contrario (anche se c’è da dire che con gli ultimi rinnovi
dei CCNL sono quasi riusciti ad imporla), non è stato possibile per i padroni
tagliare i salari proporzionalmente al crollo del PIL, quindi questi ultimi
sono, in percentuale, aumentati: di pochissimo, +1,20 % la differenza tra il
2014 e il 1995, ma abbastanza per allarmare Confindustria. Non
è un caso, infatti, che nei più importanti rinnovi contrattuali del 2015 i
padroni abbiano chiesto un ridimensionamento salariale, o in alternativa la
corresponsione degli aumenti concordati in forma di premio di
risultato.
Ma che cos’è che davvero preoccupa
Confindustria? La produttività cresce senza che loro investano più di tanto, e
se lo fanno hanno lauti sconti sulle tasse; i salari
sono aumentati in proporzione al PIL, sì, ma dello 0,06% medio
all’anno; non pagano i contributi per i neoassunti, possono
licenziarli quando vogliono, possono usare i voucher in qualunque
settore...che
cosa ti preoccupa, Squinzi?
Noi lo sappiamo, perché loro non
hanno vergogna a dirlo: li preoccupa il cosiddetto MOL, Margine Operativo Lordo,
che noi più chiaramente chiamiamo profitto.
Rispetto al 1995, nel 2014 la percentuale del MOL sul PIL era diminuita
dell’1,40%, e di anno in anno la variazione oscilla tra un + e un – zero
virgola...insomma, si può dire che sia leggerissimamente in calo, e che l’unico
sforzo dei padroni in questi vent’anni sia stato quello di mantenerlo più o meno
costante, non farlo diminuire troppo.
6.
MA CHE COLPA ABBIAMO NOI?
Ricapitoliamo un po’ il
comportamento di questi geni dell’economia e della finanza: scoppia la crisi, e
la prima cosa che fanno in Italia è
minare alla base le possibilità di una ripresa, diminuendo la
percentuale di capitale investito, solo per continuare a mettersi in tasca più o
meno gli stessi soldi a fine anno; dopo che hanno fatto questo decidono che è il
momento di attaccare frontalmente i salari: il
Jobs Act e i rinnovi contrattuali arrivano esattamente a questo
punto, e si portano dietro anche una prevedibile riduzione delle
imposte sul lavoro, dal momento che ci sarà sempre meno welfare da
finanziare.
Il
risultato è che siamo di fronte al più
grave
attacco al salario degli ultimi 30 anni almeno, che: non farà
aumentare il PIL; non avrà risultati sulla produttività; servirà a mantenere
invariata, almeno per qualche anno, la quantità di soldi che i padroni rubano,
fino a trovarci (si parla già del 2017) precipitati in un’altra crisi, peggiore
della precedente (l’andamento delle Borse degli ultimi mesi è un indicatore
affidabile).
Se ciò non bastasse, per non farsi
cogliere di sorpresa il
capitale italiano sta tentando disperatamente di svendere al
miglior offerente i settori produttivi strategici.
Parliamo di Finmeccanica,
che sta svendendo tutto ciò che non è legato alla produzione militare, come
l’aeronautica (e lo sanno bene i lavoratori Alenia, Fincantieri.
Dema...).
Parliamo dell’ILVA,
il più grande impianto siderurgico a ciclo integrale d’Europa
finché non è stato regalato dallo Stato ai Riva, che hanno smesso di investirci
fino a quando, con l’esplodere dello scandalo ambientale, l’unica prospettiva
realistica, per quanto lontana, è diventata una riconversione dello stabilimento
in un impianto di lavorazione di semilavorati, non più competitivo,
a
spese dello Stato.
7.
CONCLUSIONI
Usiamo l’abusata metafora del
Governo, o della società, come una nave, precisamente, per restare ancora di più
nel cliché, come il Titanic.
Qualcuno l’ha costruito male,
risparmiando su tutto, dai pezzi alla manodopera. Ci ha caricato sopra una
quantità di gente, tutta in qualche modo costretta a lavorarci o viverci. Alle
prime falle, questo qualcuno ha pensato bene di ripararle prendendo dei pezzi da
altre parti della chiglia. Ogni volta che riparava, aumentava la fragilità
complessiva, ma al tizio non interessava, l’importante era continuare a
navigare, speculando e arricchendosi su tutti, dai marinai ai passeggeri. A un
certo punto il Titanic inizia a collassare, il tizio e altri stronzi come lui
non solo si buttano sulle scialuppe scacciando gli altri, accusano passeggeri e
lavoratori che è colpa loro, sono troppi, è pure un po’ giusto che muoiano e,
ciliegina sulla torta, prima di salire sulle scialuppe si affannano anche a
sfasciare ulteriori pezzi di chiglia, contando di vendere un po’ di ferraglia a
qualcuno, dopo la bufera.
Sperano,
gli stronzi, di sopravvivere sempre, di restare sempre a galla rispettando la
loro natura;
sperano quindi, dopo l’ennesimo naufragio, di trovare ancora qualcuno a cui
vendere la loro paccottiglia. Ma un dopo, e un qualcuno, per loro potrebbero non
esserci; prima che il naufragio si compia la gente sulla nave potrebbe decidere
di buttarli a mare, oppure potrebbero sbarcare in un posto dove sanno benissimo
com’è andata e fanno loro pagare tutto, fino all’ultimo
centesimo.
Insomma, in questa storia, e nella
Storia, come sempre, il futuro non è scritto!
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