Spegnete gli entusiasmi per la "svolta" Fiat, le donne stanno già pagando la politica di Marchionne.
Da Fulvia D’Aloisio
"...L'impatto fortissimo di una fabbrica di auto che assume il 18% di donne,
a sud. L'emancipazione dei vecchi lavoretti, le trasformazioni sociali e
la vita da "famiglie metalmeccaniche". E poi la crisi, con il ritorno
della vecchia economia informale. Così adesso alle donne di Melfi può
capitare di fare 3 giorni da operaie e 3 da estetista, per sostenere il
reddito familiare...
Le donne in tuta amaranto di Melfi, al sorgere dello stabilimento della Fiat nel 1993, avevano caratterizzato il passaggio alla nuova fabbrica integrata e al modello giapponese inaugurando, proprio nel sud d’Italia, ciò che i teorici dell’organizzazione hanno denominato, non senza qualche perplessità, post-fordismo...
Nella grande fabbrica di Melfi denominata Sata, della superfice di 2 milioni e 700.000 metri quadrati, con una previsione di produzione, all’avvio dello stabilimento, di 450.000 vetture annue, le donne hanno avuto un peso numerico in apparenza non così significativo: il 18% della manodopera, su un totale complessivo previsto di 7.000 dipendenti, che attualmente, secondo la Fiom, si attestano sui 5.700 circa. Si tratta tuttavia della percentuale femminile più alta mai avuta in Fiat, dove la media femminile è del 12%, e di una valenza culturale che va molto al di là del dato numerico: donne metalmeccaniche in Basilicata, una regione con forti ritardi di sviluppo industriale e con una disoccupazione femminile tra le più alte d’Italia, dove queste donne hanno segnato realmente, dal punto di vista antropologico che qui si assume, una svolta nel mondo del lavoro, nei tempi della vita locale, negli equilibri familiari e sociali e nei ruoli di genere. Famiglie Fiat, createsi all’interno dello stabilimento con unioni nate sul posto di lavoro, hanno organizzato la loro vita di coniugi metalmeccanici incastrando turni differenti, in modo da poter gestire alternativamente la vita di coppia e i compiti di cura della famiglia, nel quadro di una crescente collaborazione paritaria, molto più articolata di quella che si poteva rintracciare nelle generazioni dei loro genitori: famiglie dove si riscontra dunque il modello dual earner, ancora così faticoso nella sua piena diffusione in Italia, affermatosi progressivamente a Melfi e in piccoli paesi dove le donne lavoravano sì nelle campagne, ma solo in supporto dei mariti, in maniera quindi invisibile e non riconosciuta, dove i retaggi di vecchi modelli patriarcali facevano ancora sentire la loro eco, dove la cura della famiglia ricadeva in maniera pressoché esclusiva nei compiti ascritti alle donne...
I percorsi di emancipazione variegati e multiformi che hanno interessato le donne della Sata, portando anche a nuove famiglie ricostituite fondate su più moderni rapporti tra vecchi e nuovi nuclei familiari, sembrano subire una battuta d’arresto con la crisi attuale. Lo scenario odierno è preoccupante, ma soprattutto molto contradditorio rispetto alle conquiste comunque ottenute venti anni fa, al momento dell’assunzione. Le giovani donne, tutte al di sotto dei 32 anni, in maggioranza diplomate, avevano vissuto lo stacco, in apparenza definitivo, rispetto ad un passato di precarietà lavorativa, di lavoro temporaneo e in nero, caratterizzato da assenza di tutele e violazioni dei diritti: insomma lavori minuscoli, per usare la famosa espressione di Aris Accornero; avevano raggiunto finalmente una condizione di lavoro tutelata e garantita, stabile, anche se di fatto avevano pagato con un lavoro duro e con una complessiva retrocessione del contratto, rispetto alle altre fabbriche Fiat, quella che nel contesto era stata comunque una conquista di sicurezza lavorativa e di status agiato. Attualmente, molte di loro sono le prime ad adoperarsi per riprendere i loro vecchi “lavoretti” in nero, come estetista domiciliare, come rappresentanti per marchi di prodotti per la casa, collaboratrici domestiche o assistenti per gli anziani, allo scopo di integrare i sempre più esigui redditi da operaie decurtati dalla cassa integrazione...
Oggi che il mercato automobilistico segna battute d’arresto in tutto l’occidente, e la Fiat (ormai Fiat-Chrysler) fatica molto più di altri marchi, la posizione e lo status delle donne della Sata sono gravemente minacciati: quale destino le attenda dipende dalla ristrutturazione in atto a Melfi, dalla produzione di due nuovi modelli (500 X e Mini Suv Jeep), dall’ulteriore anno di lavoro ridotto e di cassa integrazione che separa dall’avvio della nuova produzione.
Le donne della Fiat patiscono, assieme ai loro colleghi uomini, le ristrettezze dello stipendio ridotto con la cassa integrazione guadagni, vivono un clima di crescente tensione lavorativa, di impossibilità in questa delicata fase di manifestare esigenze fondamentali, come l’astensione dal lavoro per malattia o l’impossibilità di sostenere postazioni pesanti, dovute alle ridotte capacità lavorative: il timore di poter perdere il lavoro, di una eventuale riduzione del personale conseguente alla ristrutturazione inducono, a torto o ragione, a sopportare e a stringere i denti, anche in funzione di una settimana lavorativa articolata su soli tre giorni a settimana e su pause a singhiozzo.
Da A. Leogrande.
Le donne in tuta amaranto di Melfi, al sorgere dello stabilimento della Fiat nel 1993, avevano caratterizzato il passaggio alla nuova fabbrica integrata e al modello giapponese inaugurando, proprio nel sud d’Italia, ciò che i teorici dell’organizzazione hanno denominato, non senza qualche perplessità, post-fordismo...
Nella grande fabbrica di Melfi denominata Sata, della superfice di 2 milioni e 700.000 metri quadrati, con una previsione di produzione, all’avvio dello stabilimento, di 450.000 vetture annue, le donne hanno avuto un peso numerico in apparenza non così significativo: il 18% della manodopera, su un totale complessivo previsto di 7.000 dipendenti, che attualmente, secondo la Fiom, si attestano sui 5.700 circa. Si tratta tuttavia della percentuale femminile più alta mai avuta in Fiat, dove la media femminile è del 12%, e di una valenza culturale che va molto al di là del dato numerico: donne metalmeccaniche in Basilicata, una regione con forti ritardi di sviluppo industriale e con una disoccupazione femminile tra le più alte d’Italia, dove queste donne hanno segnato realmente, dal punto di vista antropologico che qui si assume, una svolta nel mondo del lavoro, nei tempi della vita locale, negli equilibri familiari e sociali e nei ruoli di genere. Famiglie Fiat, createsi all’interno dello stabilimento con unioni nate sul posto di lavoro, hanno organizzato la loro vita di coniugi metalmeccanici incastrando turni differenti, in modo da poter gestire alternativamente la vita di coppia e i compiti di cura della famiglia, nel quadro di una crescente collaborazione paritaria, molto più articolata di quella che si poteva rintracciare nelle generazioni dei loro genitori: famiglie dove si riscontra dunque il modello dual earner, ancora così faticoso nella sua piena diffusione in Italia, affermatosi progressivamente a Melfi e in piccoli paesi dove le donne lavoravano sì nelle campagne, ma solo in supporto dei mariti, in maniera quindi invisibile e non riconosciuta, dove i retaggi di vecchi modelli patriarcali facevano ancora sentire la loro eco, dove la cura della famiglia ricadeva in maniera pressoché esclusiva nei compiti ascritti alle donne...
I percorsi di emancipazione variegati e multiformi che hanno interessato le donne della Sata, portando anche a nuove famiglie ricostituite fondate su più moderni rapporti tra vecchi e nuovi nuclei familiari, sembrano subire una battuta d’arresto con la crisi attuale. Lo scenario odierno è preoccupante, ma soprattutto molto contradditorio rispetto alle conquiste comunque ottenute venti anni fa, al momento dell’assunzione. Le giovani donne, tutte al di sotto dei 32 anni, in maggioranza diplomate, avevano vissuto lo stacco, in apparenza definitivo, rispetto ad un passato di precarietà lavorativa, di lavoro temporaneo e in nero, caratterizzato da assenza di tutele e violazioni dei diritti: insomma lavori minuscoli, per usare la famosa espressione di Aris Accornero; avevano raggiunto finalmente una condizione di lavoro tutelata e garantita, stabile, anche se di fatto avevano pagato con un lavoro duro e con una complessiva retrocessione del contratto, rispetto alle altre fabbriche Fiat, quella che nel contesto era stata comunque una conquista di sicurezza lavorativa e di status agiato. Attualmente, molte di loro sono le prime ad adoperarsi per riprendere i loro vecchi “lavoretti” in nero, come estetista domiciliare, come rappresentanti per marchi di prodotti per la casa, collaboratrici domestiche o assistenti per gli anziani, allo scopo di integrare i sempre più esigui redditi da operaie decurtati dalla cassa integrazione...
Oggi che il mercato automobilistico segna battute d’arresto in tutto l’occidente, e la Fiat (ormai Fiat-Chrysler) fatica molto più di altri marchi, la posizione e lo status delle donne della Sata sono gravemente minacciati: quale destino le attenda dipende dalla ristrutturazione in atto a Melfi, dalla produzione di due nuovi modelli (500 X e Mini Suv Jeep), dall’ulteriore anno di lavoro ridotto e di cassa integrazione che separa dall’avvio della nuova produzione.
Le donne della Fiat patiscono, assieme ai loro colleghi uomini, le ristrettezze dello stipendio ridotto con la cassa integrazione guadagni, vivono un clima di crescente tensione lavorativa, di impossibilità in questa delicata fase di manifestare esigenze fondamentali, come l’astensione dal lavoro per malattia o l’impossibilità di sostenere postazioni pesanti, dovute alle ridotte capacità lavorative: il timore di poter perdere il lavoro, di una eventuale riduzione del personale conseguente alla ristrutturazione inducono, a torto o ragione, a sopportare e a stringere i denti, anche in funzione di una settimana lavorativa articolata su soli tre giorni a settimana e su pause a singhiozzo.
Da A. Leogrande.
"...In questi vent’anni la vita alla catena di montaggio non è stata una
passeggiata. Nel 2004 una vibrante protesta bloccò per quasi un mese la
produzione, con la richiesta dell’adeguamento dei salari agli altri
stabilimenti del gruppo e dell’eliminazione della famigerata “doppia
battuta” che regolava i turni, simbolo dell’organizzazione del lavoro
nella fabbrica toyotista. Quella fu, per certi versi, l’ultima fiammata
operaia meridionale: una lotta non per la difesa del lavoro che
scompare, ma per il miglioramento netto delle sue condizioni e dei suoi
rapporti... Con la mutazione della
Fiat-Chrysler marchionniana, che getta nel limbo il futuro degli
stabilimenti italiani, dal momento che – anche dopo l’acquisizione del
100% della Chrysler – la loro sorte deve ancora essere tracciata caso
per caso e valutata sul mercato, quella emancipazione femminile si sta
corrodendo.
In attesa della ristrutturazione delle linee per i nuovi modelli
(proprio in Basilicata verrà prodotta la nuova jeep) e in presenza di
una notevole crisi di mercato dei vecchi, è stata avviata una lunga fase
di cassa integrazione. La settimana è articolata su soli tre giorni di
lavoro, e le pause a singhiozzo sono frequenti. Di fronte alla
contrazione netta del reddito, le famiglie operaie soffrono
notevolmente. Così ritornano i lavori minuscoli di ieri: “molte di loro
sono le prime ad adoperarsi per riprendere i loro vecchi lavoretti in
nero, come estetista domiciliare, come rappresentanti per marchi di
prodotti per la casa, collaboratrici domestiche o assistenti per gli
anziani”.La parabola delle operaie di Melfi rischia di essere la parabola della deindustrializzazione del Sud, altrove già potentemente in atto. Sono loro la punta dell’iceberg di un profondo sommovimento in atto in tutto il Mezzogiorno..."
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