..E POI METTONO IN PRATICA QUELLO CHE PENSAVA LA THATCHER NEL 1984
Thatcher ecco i documenti
segreti: “L’esercito contro i minatori in sciopero”
Nel 1984 l'allora premier britannico valutò l'uso dei
militari per contrastare la protesta dei lavoratori, che metteva a rischio le
scorte di energia e cibo. Dalle carte dell'Archivio nazionale emergono anche il
timore per gli aiuti sovietici ai sindacati e lo scarso interesse per le sorti
del prigioniero politico sudafricano Nelson Mandela
Armamenti nel 2014 niente
spending review per la Difesa: spese per 5 miliardi
Cacciabombardieri, navi da guerra, blindati ed
elicotteri da combattimento, cannoni, siluri, bombe, droni e satelliti spia. E'
la lista della spesa che l'apparato militare italiano ha in serbo nonostante
l'opposizione parlamentare e le polemiche sugli F-35. Un
"investimento" che non ha a che fare con la sicurezza nazionale, ma è
il costo occulto delle missioni internazionali, prima fra tutte l'Afghanistan.
E dal ministro Mauro arriva soltanto un "no comment"
Generali e ammiragli brindano
all’inizio di un nuovo anno di spese pazze in armamenti alla
faccia della crisi. Nel 2014 la Difesa si prepara a spendere altri 5
miliardi di euro in cacciabombardieri, navi da guerra,
blindati ed elicotteri da combattimento, cannoni, siluri, bombe, droni e
satelliti spia. Impermeabili a ogni spending reviewe refrattari a
qualsiasi controllo parlamentare, gli stati maggiori continuano a sentirsi
intoccabili. Ma l’anno che viene potrebbe riservare loro qualche sorpresina. Il
2013 verrà ricordato come l’anno in cui il Parlamento, pungolato
dall’opposizione di Sel e Cinque stelle e facendo leva su
un’articolo della riforma militare del 2012, ha osato esercitare le
proprie prerogative di controllo sui programmi di riarmo della Difesa. A
partire dai famigerati F35 da 150 milioni di euro l’uno, per cui
le mozioni
approvate da Camera e Senato il 26 giugno e 7 luglio impegnavano il governo a
non procedere a nessuna “ulteriore acquisizione” in attesa delle conclusioni di
un’apposita indagine conoscitiva parlamentare. Un’inaudita insolenza per i
vertici militari, che hanno immediatamente reagito attraverso il Consiglio
supremo di Difesa presieduto da Giorgio Napolitano lanciando
un duro monito: “Niente veti del Parlamento sulle spese militari”. E infatti,
incurante della volontà del Parlamento, il ministro della Difesa Mario Mauro
ha continuando ad autorizzare di nascosto la firma di nuovi contratti per
centinaia di milioni di euro.
IL MINISTERO: “NUOVE COMMESSE? NO COMMENT”. Il 27 settembre scorso, oltre a
saldare l’ultima rata da 113 milioni dei primi 3 aerei già acquistati (e già
pagati per 350 milioni di euro), è stato firmato il contratto d’acquisto
definitivo di altri 3 aerei per 403 milioni (per i quali in precedenza erano
stati anticipati 47 milioni). Successivamente, non è dato sapere quando, sono
anche stati versati 60 milioni di anticipo per ulteriori 8 aerei (che la Difesa
vuole acquistare nel 2014, anno in cui intende inoltre dare anticipi per altri
10 aerei). Quando queste informazioni di “ulteriori acquisizioni” – trapelate
dagli Stati Uniti – sono state riferite in commissione Difesa, diversi
parlamentari, sentitisi presi in giro, hanno chiesto immediate spiegazioni e
hanno preteso di avere accesso a tutti i documenti contrattuali. Niente da
fare: il ministro Mauro si è limitato a ribadire (nemmeno di persona, ma per
bocca di un messaggio letto in aula il 18 ottobre dal sottosegretario
all’Agricoltura…) che a suo giudizio le mozioni parlamentari “non incidono sulle
politiche di acquisto già determinate”. A più riprese ilfattoquotidiano.it ha
chiesto alla Difesa dettagli sull’avanzamento dei contratti del programma F35,
rimbalzando contro un cortese muro di gomma e ottenendo alla fine solo
un secco ma eloquente “no comment”.
“Queste
ulteriori acquisizioni sono contra legem - taglia corto Gianpiero
Scanu, capogruppo Pd in commissione Difesa – così come lo è
l’ostinata resistenza della Difesa a ogni controllo parlamentare sulle sue
politiche di spesa. Un potere di controllo che è stato introdotto nella
legislazione italiana con una norma dall’aspetto innocuo ma di portata
dirompente: l’articolo 4 della legge 244 del 31 dicembre 2012. Dal
giorno della sua approvazione è in atto uno scontro durissimo, una continua
guerra di posizione tra il Parlamento e la Difesa che non vuole accettare
questa legge che pone fine a decenni di spese incontrollate. L’indagine
conoscitiva parlamentare sugli F35, che qualcuno voleva chiudere
frettolosamente a dicembre senza alcuna presa di posizione, proseguirà fino a
febbraio e si dovrà concludere con un documento prescrittivo che la Difesa
dovrà rispettare”. Quale sarà questa ‘prescrizione’ non è ancora dato sapere
ma, dopo la svolta renziana del Pd, tra gli addetti ai lavori c’è chi
ipotizza (e chi teme) un congelamento del programma o un suo ulteriore forte
ridimensionamento. Durante la campagna per le primarie, il sindaco di Firenze
aveva dichiarato: “Gli F35 sono soldi buttati via, io ho proposto il
dimezzamento”.
E GLI F-35 “ABBATTONO” GLI EUROFIGHTER. Ipotesi a parte, al momento ciò che fa testo rimane
il cosiddetto Dpp (Documento programmatico pluriennale) della Difesa per il
triennio 2013-2015 presentato lo scorso aprile dall’allora ministro della
Difesa Di Paola – oggi consulente di Finmeccanica – che dei
5 miliardi di spesa totale allocata per il nuovo anno su decine di programmi di
riarmo (guarda la tabella) ne assegna oltre mezzo (535,4 milioni per la
precisione) agli F35 della Lockheed Martin. Questo mentre si continua a
investire il doppio (un miliardo l’anno, anche nel 2014) nel programma
aeronautico alternativo Eurofighter – rara concretizzazione della tanto
auspicata cooperazione industriale europea nel settore difesa e principale
concorrente del programma americano – che invece la Difesa ha deciso di
tagliare proprio per far posto agli F35, nonostante tutti gli esperti del
settore lo ritengano ampiamente sufficiente a soddisfare da solo le esigenze
della nostra Aeronautica (come lo è per la Luftwaffe tedesca, che
infatti ha scelto Eurofighter rinunciando agli F35), per giunta con
indiscutibili vantaggi in termini di costi di manutenzione, di ricaduta tecnologica
e occupazionale e, non ultimi, di autonomia operativa vista la comproprietà
dell’hardware, che invece rimane sotto esclusivo controllo americano sugli F35:
veri e propri “aerei a sovranità limitata”. L’attaccamento della Difesa al
programma F35 è spiegabile solo tirando in ballo delicati equilibri di politica
estera. Il 16 luglio scorso, pochi giorni dopo l’approvazione delle
mozioni, l’ambasciatore americano David Thorne ha convocato nella sua
residenza romana di Villa Taverna i massimi vertici militari italiani per
ricordare loro, con il sorriso e un bicchiere di rosso in mano, che l’Italia
“deve” mantenere gli impegni presi rispetto al programma F35 se vuole
“continuare a essere nostro stretto alleato, ad avere voce in capitolo quando
si tratta di prendere decisioni sulle regioni più critiche e sulla sicurezza
mondiale e a rimanere tra gli alleati Nato di alto livello giocando un
ruolo di leadership”. Gli F35 come pegno di fedeltà verso il nostro potente
alleato, come suggello di quella “stretta alleanza che unisce Italia e Stati
Uniti e che – spiegava Thorne quella sera d’estate ai nostri generali – è
andata rafforzandosi negli ultimi dieci-quindici anni con il comune impegno nei
Balcani, in Medio Oriente, in Afghanistan e Nord Africa”. Un impegno, quelle
nelle missioni internazionali, che incide in maniera sostanziale
sulla spesa italiana in armamenti.
IL COSTO OCCULTO DELLA MISSIONE IN AFGHANISTAN. Dopo aver esaminato la lista dei
programmi di riarmo in corso, sorge infatti spontaneo chiedersi a cosa ci
servano tutte queste nuove armi visto che, per fortuna, non si intravedono
all’orizzonte conflitti mondiali o invasioni straniere. La risposta data la
scorsa primavera in Parlamento dal capo di stato maggiore della Difesa,
ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, era stata molto sincera: “Le nostre
forze armate dispongono di materiali, sistemi d’arma e mezzi adeguati
all’impegno attuale e il cui standard possiamo considerare, dal punto di vista
qualitativo, paritetico a quello di molti nostri alleati; sussiste tuttavia
l’esigenza di ammodernare e rinnovare costantemente le dotazioni delle nostre
unità per l’impiego continuato in operazioni lontane dal supporto logistico in
patria, che ne ha fortemente accresciuto l’usura”. Insomma, non compriamo nuove
armi tanto per ragioni di sicurezza nazionale, quanto in funzione delle
prolungate campagne militari condotte in paesi lontani. Afghanistan in
primis. Combattere una guerra implica la necessità di ricostituire le
scorte di munizioni (durante la campagna aerea sulla Libia del 2011
abbiamo sganciato bombe per 260 milioni), rimpiazzare i blindati
danneggiati negli attacchi nemici e impiegare mezzi più robusti e sicuri,
potenziare i sistemi di protezione delle basi e degli avamposti, dotarsi di droni
di sorveglianza, di artiglierie più precise, di mezzi e armi per le forze
speciali e di tutta una serie di altri strumenti richiesti dalle esigenze
operative. Voci di spesa (evidenziati in grigio nella tabella) da centinaia di
milioni che contribuiscono a far salire a 5 miliardi la spesa annua in
armamenti e che rappresentano un costo occulto delle missioni militari
internazionali che si somma al costo palese dichiarato nei periodici
decreti di rifinanziamento. Lo tengano a mente i nostri parlamentari
quando al rientro dalle festività saranno chiamati a rifinanziare la
prosecuzione del coinvolgimento militare italiano nella sempre più sanguinosa
guerra civile afgana (2.730 civili uccisi nel 2013, un incremento del 10
percento rispetto all’anno precedente). I principali paesi della Nato se ne
sono già andati dal’Afghanistan o se ne andranno entro un anno, perfino la Gran
Bretagna lo ha annunciato pochi giorni fa. Il governo italiano invece,
senza consultare il Parlamento, si è impegnato con Washington e con il
presidente Karzai (che con le elezioni presidenziali del prossimo 5
aprile uscirà di scena e Allah solo sa da chi verrà rimpiazzato) a
lasciare le sue truppe nei deserti afgani almeno fino al 2017 e a donare 360
milioni all’esercito di Kabul.
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