Il Cavaliere chiede uno spiraglio a Napolitano
ROMA - È una flebile speranza, che lascia un lumicino acceso a Palazzo Grazioli. E come tale viene tenuta in considerazione da un Berlusconi che, anche dopo che i capigruppo Schifani e Brunetta tornano dall'incontro al Colle, i suoi descrivono sempre più affranto, sfiduciato, provato, comunque pessimista. "Presidente, ci rimettiamo nelle sue mani" è l'appello accorato che portano i due "ambasciatori". La ricerca di una soluzione, di una qualche via d'uscita non viene cassata a priori dal capo dello Stato. C'è un impegno a riflettere, ad esaminare, con tutta la voluta genericità e la cautela che la circostanza impone, ma al contempo con rapidità.È la ragione per cui ancora per un paio di giorni il Cavaliere non si muove da Roma, attende, presidia il territorio, anche perché domani la giunta per le elezioni al Senato affronta il nodo incandidabilità e l'incognita Pd grava come un macigno sui suoi incubi.
Per il resto, il presidente Napolitano non poteva essere più chiaro, stando a quando i due "Renati" riferiscono al loro capo, una volta rientrati a Grazioli dopo 75 minuti di confronto. La premessa quasi brutale: "Non ci sono le condizioni per chiedere un'eventuale grazia" avrebbe tagliato corto prima ancora che la questione venisse posta dai due. Ma poi, come ha raccontato Schifani anche ad altri dirigenti Pdl, il Quirinale è stato altrettanto tranchant su un altro aspetto cruciale nei piani berlusconiani: "Vi sia chiaro che con questa legge elettorale non vi manderò mai alle elezioni" è l'altro paletto ben piantato da Napolitano. Niente grazie e niente elezioni, dunque.
Brunetta è come al solito più intraprendente. "Presidente, pensiamo che non si possa estromettere Silvio Berlusconi, il leader politico che rappresenta dieci milioni di italiani, dalla vita politica". Se così fosse, ha aggiunto il capogruppo alla Camera, "non saremmo in grado di garantire la tenuta del partito e dunque nemmeno del governo. Schifani usa un'espressione più felpata col presidente. "Quel che noi invochiamo è l'agibilità politica di Berlusconi", ma il concetto non cambia. Napolitano ribatte facendo sapere che la priorità in questo momento è l'emergenza economica, non si può far cadere il governo Letta, piuttosto approvare alla svelta i provvedimenti urgenti all'esame delle Camere. Pretende e ottiene dai due l'impegno ad andare avanti. Sul resto, non chiude del tutto le porte, ma il presidente non apre nemmeno praterie. Anzi. Napolitano fa sapere che esaminerà coi tecnici dell'ufficio legislativo ogni possibilità per un'eventuale soluzione purché prevista dalle leggi vigenti, non più di quello. Schifani, spiegando la cosa al Cavaliere, aggiunge che "i margini di manovra sono ridotti, il capo dello Stato non potrà fare nulla di mirabolante".
È a quel punto che i falchi Verdini e Santanché - nel lungo vertice protrattosi poi dal pranzo al pomeriggio con Alfano, Letta, Gasparri, Cicchitto, Capezzone - sono passati all'attacco: "Non ci possiamo fidare, vedrai che a settembre poi il presidente dirà che non può fare nulla e tu finisci in galera". Berlusconi è nello sconforto più nero. "Se dipendesse da me, ritirerei la fiducia per andare al voto subito, ma con Napolitano non abbiamo questa garanzia, anzi abbiamo la certezza che al voto non andremo" è la sua tesi. Di più, spiega ai dirigenti Pdl che "con questa sentenza si è rotto un tabù: ci sarà un'accelerazione su tutti i processi, si potrebbe arrivare in Cassazione con Ruby già l'anno prossimo". L'incubo del tracollo, delle porte del carcere che si aprono davvero. Il vertice non trova una conclusione, il leader prende tempo, ne avrà fino al 15 ottobre per optare tra domiciliari e servizi sociali e fino ad allora resterà fermoentato - raccontano dopo l'incontro serale con gli avvocati - dalla rinuncia sia ai domiciliari che ai servizi sociali, per "costringere" il Quirinale a impedire il carcere commutando la pena,
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