sabato 10 agosto 2013

pc 10 agosto. Ancora una strage di immigrati in mare in fuga da guerra e miseria: verso di loro l'ipocrita solidarietà dei rappresentanti di uno Stato imperialista che mantiene i lager CIE e le leggi razziste, che ammazza gli immigrati nelle caserme, che fa le guerre e sostiene regimi fascisti per opprimere i popoli che non si piegano e che fa di tutto per impedirne la partenza

Il cordoglio della Boldrini e del ministro Kyenge per i 6 immigrati siriani ed egiziani morti affogati nel tentativo di raggiungere la riva a Catania non cambia la sostanza delle cose sulla politica imperialista dello Stato italiano: il "governicchio" Letta, in continuità con tutti i governi di ogni colore politico, partecipa ai piani d'aggressione imperialista in Siria e stringe patti d'amicizia con gli aguzzini libici in funzione antiimmigrati


Libia, “trappola infernale” per migranti
di Cristina Amoroso
Non è cambiata la Libia del prima e dopo Gheddafi per i profughi costretti a transitare in un paese che non contempla un sistema d’asilo, né ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra sui diritti dell’Uomo, eppure sono stati stretti nuovi accordi tra la Libia e l’Europa, che vi ha riversato fiumi di finanziamenti, investimenti e contratti per gas e petrolio.
Per i migranti dal 2006 ad oggi nulla è cambiato: la Libia resta un luogo di detenzione brutale e disumana su cui l’Occidente continua a chiudere gli occhi, accrescendo anzi il ruolo di argine coatto, per impedire a chi scappa per salvare la propria vita di raggiungere le coste della Fortezza Europa.
E’ l’allarme lanciato dal dossier “0021, trappola libica” della onlus In Migrazione. 0021 come il prefisso internazionale libico: quello che i detenuti compongono sui cellulari che sono riusciti a nascondere per far sentire le loro voci sull’altra sponda del Mediterraneo. Il dossier riporta terribili testimonianze dei profughi.
“Ti tirano il cibo in faccia, ti picchiano senza alcun motivo, ti prendono a schiaffi, ti minacciano con i fucili e le pistole, qualsiasi libico ora ha fucili o pistole, te le puntano alle tempie”. Così John da Gandufa, uno dei carceri per potenziali “clandestini”, sintetizza la Libia vista dai migranti intrappolati a metà strada tra il deserto e il mare, tra il Corno d’Africa (Somalia, Etiopia, Eritrea) e l’Europa. “Siamo come animali legati un pò con la corda lunga…”, aggiunge Ahmed.
“Nella stessa stanza di quattro metri per quattro siamo in 17. Qui non c’è scelta, ci facciamo coraggio e cerchiamo di resistere”. Chi parla è un minorenne. Insieme a lui e ad altre 500 persone, nel campo della Mezzaluna rossa di Benghazi c’è Ali: “I nuovi arrivati si spaventano subito anche solo guardandoci per come siamo rimasti in otto mesi…”. Nelle carceri libiche, donne, uomini e anche bambini sono tenuti a pane e acqua, dormendo per terra senza materassi.  E ogni giorno sono sottoposti a umiliazioni e vessazioni da parte della polizia: percosse, botte, stupri e torture.
I carceri, i campi di detenzione e le strutture adattate a prigioni in questo paese sono diventate decine e decine: Ganfuda, Majer, Misurata, Abu Salim e al-Zawiya.
Secondo le stime di Amnesty International sono operativi 17 centri di trattenimento che ospitano circa 5.000 migranti forzati a cui si vanno ad aggiungere le altre diverse migliaia che affollano le carceri comuni e i campi di accoglienza gestiti dai miliziani, stimabili tra le 4.000 e le 6.000 persone. Il comitato internazionale della Croce Rossa ha visitato 60 strutture a vario titolo detentive in Libia. È noto soprattutto tra i migranti che i centri di detenzione più duri siano nel deserto. Su tutti per condizioni disperate di vita e vessazioni ai danni dei profughi, il campo di Kuhfra e quello Sabha. Quest’ultimo “ospita” al suo interno addirittura 1.300 persone. In questi luoghi e in maniera diffusa e sistematica sono incalcolabili le denunce di trattamenti crudeli e degradanti.
Non rimane che la via del mare, attraversare il mare rappresenta l’unica via per tentare la salvezza. Nonostante le voci corrano e la consapevolezza di rischiare la vita sia alta tra i migranti, non c’è un futuro al quale si possa aspirare e dunque niente da perdere. Prendere il mare può volere dire andare a ingrossare le fila delle quasi 20.000 vittime che giacciono sui fondali del Mediterraneo.
Per la precisione, dal 1988 al novembre 2012 ci sono stati almeno 18.673 morti nel tentativo di raggiungere la “fortezza Europa”. Nel solo Canale di Sicilia, dal 1994 all’aprile 2012, sono decedute almeno 6.226 persone e più della metà sono rimaste disperse. Se non si tiene conto dei naufraghi di cui non si ha notizia questi sono i numeri agghiaccianti di una guerra sommersa.
E l’Italia?
L’Italia – in un quadro più complesso e generale di politiche Ue in materia di immigrazione – ha scelto di delegare di fatto alla Libia il controllo delle frontiere.
Lo ha fatto con il patto d’amicizia nel 2008 tra Berlusconi e Gheddafi, rinnovato poi nel 2012 con la ratifica tra il ministro Cancellieri e il suo omologo libico Fawzi Al-Taher Abdulali, (resa pubblica tre mesi dopo). Lo ha confermato il 4 luglio scorso, quando l’attuale premier Enrico Letta ha incontrato a Roma il primo ministro libico, Ali Zeidan Mohammed rinnovando il ruolo della Libia a difesa d’Europa. Scelte che di fatto delegano un ruolo a un Paese dove non esiste il rispetto dei diritti umani e dei diritti d’asilo. In altri termini si continua quell’approccio all’immigrazione che fu premessa dei famigerati respingimenti collettivi in acque internazionali, che sono costati all’Italia una condanna da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo.
Secondo Simone Andreotti, presidente di In Migrazione, “evitare queste morti non è impossibile. Sarebbe sufficiente permettere a queste persone di ottenere un lasciapassare nelle ambasciate e nei consolati europei nei Paesi di transito, per poter fare richiesta d’asilo in Europa. Una scelta che metterebbe fine alla sofferenza delle persone, che salverebbe tante vite e che spezzerebbe gli interessi del traffico di esseri umani. Un modo per smarcarsi definitivamente dai ricatti di paesi che trasformano l’apertura o la chiusura delle frontiere in un’arma di pressione internazionale”.

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