E dopo Taranto Gela, una indagine del l'Espresso"
E dopo
Taranto Gela
Nell''area
del petrolchimico allarme malattie e tumori. Ecco in esclusiva i dati del
disastro. Nel mirino dei magistrati
Angela
Averna vive e lavora a Gela, profonda Sicilia, e fa la pediatra. Durante
l'intervista la raffineria dell'Eni non la nomina mai. La chiama, semplicemente,
"il Mostro". Racconta: "Mio figlio va alle elementari. Durante una visita
guidata al Mostro hanno chiesto a tutta la classe se sapessero perché il simbolo
dell'Agip è un cane a sei zampe. Lui ha alzato la mano e ha risposto: "Perché è
un cane malformato!". Ho capito che devo stare attenta a non portarmi il lavoro
anche a casa". Anche se per lei non è affatto facile: il medico, su circa mille
pazienti sotto i 14 anni, conta una cinquantina di bimbi malformati. Percentuale
pazzesca, perfettamente in linea con lo studio pubblicato dagli esperti del Cnr
insieme al genetista Sebastiano Bianca nel 2002.
La
pediatra sorride, amara. "Non abbiamo ancora né un registro sui malformati né
uno sui tumori. Perché ai malati di ipospadie, una deformazione degli organi
genitali maschili, e a chi nasce senza braccia e senza gambe vanno aggiunti i
bambini e le bambine malati di cancro e altri morbi assortiti". Spulciando i
casi dell'ambulatorio dell'Averna sembra che a Gela ogni famiglia abbia un
parente malato, e spesso è un minore. "Negli ultimi 12 mesi ho incontrato una
leucemia fulminante, poi un tumore rarissimo al pancreas. Se l'è beccato la
figlio di mia sorella. Secondo il chirurgo che l'ha operata mia nipote è stata
la 619 nel mondo, ma in città non è l'unica: abbiamo altri due casi identici.".
L'elenco della pediatra non è finito: "Ho avuto anche un neonato morto per una
malformazione cardiaca a sette mesi mentre qualche tempo fa il figlio del mio
consulente del lavoro s'è ammalato di un tumore al cervello". Il piccolo ha solo
quattro anni: "Un'altra tragedia, ma scommetto quello che vuole che ne
seguiranno altre".
A Gela
morte e malattia risparmiano poche, fortunate famiglie. Non si salva nessuno:
operai, impiegati, avvocati, casalinghe o professionisti, le malattie sono
democratiche e se ne fregano delle classi sociali. L'inquinamento diffuso sembra
ormai un dato acquisito, così come le sue conseguenze sulla salute della
popolazione. L'area della città, insieme a Niscemi e Butera (108 mila abitanti)
è uno dei siti d'interesse nazionale ad alto rischio. La devastazione di acque,
terra e aria è stata causata secondo esperti e ambientalisti dal polo
industriale che come si legge in un report dell'Istituto superiore di sanità
pubblicato nel 2009, "ha comportato nel corso degli anni una progressiva
contaminazione di diverse matrici ambientali, nelle quali sono stati rilevati
livelli estremamente elevati di inquinanti chimici con caratteristiche di
tossicità, persistenza e bioaccumulo". Traducendo, l'Eni ha sparpagliato i
veleni in lungo e largo per decenni. Anche i dati epidemiologici "hanno
evidenziato" ragiona l'Iss "la presenza di patologie in eccesso rispetto alle
aree limitrofe e alla regione." Eppure il nesso causa-effetto tra inquinamento
industriale e malattie non è stato ancora provato, né in sede scientifica né in
quella giudiziaria: le norme e le leggi italiane sono spesso inefficaci, così
l'Eni finora se l'è cavata alla grande.
Presto,
però, la musica potrebbe cambiare. Se a Taranto nel mirino della procura è
finita l'Ilva e i Riva di Milano, anche nella punta orientale dell'isola di
Leonardo Sciascia ("Il petrolio? Mi creda, se lo succhiano, se lo succhiano. È
così che finisce col petrolio: una canna lunga da Gela a Milano, e se lo
succhiano", scriveva lo scrittore in un racconto del 1966) i magistrati sembrano
aver messo il turbo. In pochi mesi i pm guidati da Lucia Lotti hanno aperto
varie inchieste, e oggi sono 14 i processi istruiti per reati gravissimi, da
quelli ambientali all'omicidio colposo. Sotto accusa sono finiti dirigenti ed ex
quadri di aziende dell'Eni, il colosso statale che controlla il petrolchimico
nato per volontà di Enrico Mattei nel 1965.
Qualcuno
in città spera che nei confronti dello stabilimento siano prese misure
draconiane, che i pm facciano un salto di qualità sequestrando la raffineria,
come avvenuto per il siderurgico pugliese. Da un punto di vista economico,
sarebbe uno choc: nella sola raffineria – una delle più grandi e strategiche
d'Europa – lavorano circa 1100 persone, altre 500 nell'indotto, ma a questi
vanno aggiunti altre migliaia di operai delle ditte esterne. Non solo. A Gela
vengono lavorati ogni anno circa 5 milioni di tonnellate di greggio pesante e
semilavorati proveniente dai pozzi di Gela, Ragusa, Egitto, Libia e Iran, che in
Sicilia viene trasformato in benzina, cherosene, gasolio, gas e gpl. Un blocco
della produzione rischierebbe di mettere in ginocchio l'azienda amministrata da
Paolo Scaroni, mentre alle ripercussioni sociali si sommerebbero quelle
finanziare a Piazza Affari.
Comune,
Regione e ministero dell'ambiente, infatti, sembrano voler puntare – per ridurre
i danni all'ambiente e alla salute – sugli investimenti di recente "imposti"
all'Eni. Lo scorso gennaio la raffineria ha finalmente ottenuto l'autorizzazione
di impatto ambientale che prevede il rispetto di 200 adempimenti, "In ambito
emissivo" spiegano dalla Raffineria "sono stati prescritti limiti
particolarmente restrittivi, il 50 per cento in meno rispetto alle precedenti
autorizzazioni". L'Eni puntualizza che nell'ultimo decennio sono stati comunque
effettuati "una serie d'interventi migliorativi in campo ambientale, con un
investimento che si aggira sui 300 milioni: abbiamo realizzato un impianto di
trattamento dei fumi della centrale con la migliore tecnologia esistente, i
doppi fondi sui serbatoi di stoccaggio, la copertura del parco coke."
Sarà. Ma i
nuovi dati epidemiologici che "l'Espresso" ha consultato in esclusiva
fotografano una situazione ancora drammatica. Lo studio dell'Osservatorio
epidemiologico della Regione Sicilia ancora inedito è intitolato "Stato di
salute della popolazione residente nel sito di interesse nazionale per le
bonifiche di Gela", e consegna – ancora una volta – risultati agghiaccianti.
Anche perché le analisi della mortalità e delle malattie sono state fatte su
serie storiche assai recenti, "che confermano di fatto" ragiona Fabrizio
Bianchi, studioso del Cnr, "il perdurante cattivo stato di salute della
popolazione". Le cifre sulla mortalità comprendono il periodo 2004-2011, mentre
quella sui ricoveri e le dimissioni ospedaliere va dal 2007 al 2011.
Secondo
gli studiosi il rischio degli uomini di Gela di morire rispetto a coloro che
vivono nei Comuni vicini è più alto del 6,8 per cento, mentre per le donne
l'eccesso è statisticamente significativo sia sul confronto locale (più 12,3 per
cento) sia rispetto ai dati regionali (più 8,2 per cento). L'analisi delle
tabelle sulla "mortalità" in alcuni casi sono persino peggiori rispetto a quelle
di Taranto. Rispetto alle città più vicine, a Gela i maschi muoiono di più per
tutti i tipi di tumore (più 18,3 per cento), per il cancro infantile (più 159,2
per cento), per il tumore allo stomaco (più 47,5 per cento), alla pleura (più
67,3 per cento) alla vescica (più 9,6 per cento), per non parlare dell'incidenza
del morbo di Hodgkin (più 72,4 per cento), del mieloma multiplo (più 31,8 per
cento) e delle malattie del sistema circolatorio (più 14,2 per cento). Alto lo
"spread" anche nei confronti delle statistiche regionali: a Gela l'incidenza dei
tumori degli under 14 è maggiore del 68,1 per cento, più decessi anche per i
tumori al fegato (più 20,9 per cento), alle ossa (32,8 per cento), al testicolo
(più 209,4 per cento) e per le malattie cerebrovascolari (più 36,6 per
cento).
Sono
centinaia gli operai che hanno lavorato al petrolchimico ad esser finiti dentro
i nosocomi sparsi nella provincia di Caltanissetta. Molti di loro hanno lavorato
all'ex impianto Clorosoda, chiuso a metà degli anni '90. Un reparto foderato
d'amianto con 52 celle piene zeppe di mercurio, usato per produrre soda caustica
e idrogeno: secondo le testimonianze delle tute blu, il metallo veniva raccolto
con secchi e mestoli. Il genetista Bianca, perito di parte della procura gelese
che ha aperto un'inchiesta su 13 decessi sospetti indagando 17 dirigenti ed ex
dirigenti delle società dell'Eni che hanno gestito negli anni il Clorosoda (le
accuse vanno dall'omicidio colposo alle lesioni personali gravi), ha certificato
le presenze di tumori ai polmoni, all'esofago e alla tiroide, senza parlare
delle malattie cardiovascolari e all'apparato respiratorio. Gli operai
sopravvissuti oggi perdono unghie e capelli, ad alcuni si sono sbriciolati i
denti, probabilmente a causa dell'esposizione prolungata al mercurio.
I padri di
famiglia impiegati al petrolchimico, però, non sonno le uniche (e per ora
presunte) vittime del "Mostro". Centinaia di figli maschi dei gelesi sono
infatti nati malformati, colpiti in particolare dall'ipospadia, che secondo
Bianchi a Gela "risulta tra le più alte mai viste al mondo". Ma anche le donne
che non hanno mai messo piede all'Eni hanno probabilità record di ammalarsi.
Secondo le tabelle dell'Osservatorio, oggi anziane, quarantenni e ragazze gelesi
finiscono in ospedale per tumori allo stomaco (più 25,1 per cento rispetto a chi
risiede nei comuni vicini), alle ossa (più 28 per cento), alla tiroide (più 30),
al sistema nervoso centrale (più 100,6 per cento), all'utero (più 52,6 per
cento) e via elencando.
Per quanto
riguarda la mortalità, impressionanti risultano i numeri sul tumore alla vescica
(più 81,2 per cento), quelli sugli avvelenamenti (più 146 per cento) e del morbo
di Hodgkin: in questo caso la percentuale è più alta del 907,3 per cento. "Non
sono dati ancora pubblici, preferisco non commentarli nel dettaglio", premette
Bianchi. "Ma di certo la situazione ambientale è pesante. Come a Taranto, anche
a Gela servono investimenti importanti per attenuare l'inquinamento. Oggi per
motivi di congiuntura la raffineria sta producendo di meno, ma non basta.
bisogna fare di più". Per ripulire la zona dai veleni, spiegava una ricerca su
costi-benefici pubblicata sulla rivista internazionale Environmental Health
nel 2011,
a Gela "i costi della bonifica ammonterebbero a circa 6,6
miliardi di euro. Una cifra molto più alta, dunque, dei fondi allocati per
bonificare il sito". L'Eni e lo Stato, in pratica, dovrebbero sganciare altri 6
miliardi se volessero ripulire il territorio.
Anche
Legambiente spara a zero sull'Eni e le istituzioni. Pietro Lorefice, ex
presidente della sezione di Gela che da sempre segue le vicende della
raffineria, spiega che le sorgenti inquinanti in passato sono state tante e
hanno devastato tutto. "Il polo produceva concimi chimici e polimeri, da poco
hanno completato la bonifica dei fosfogessi, sostanze tossiche e radioattive che
temo siano state in passato sversate anche a mare: l'Eni ha da poco tombato 6
milioni di metri cubi di rifiuti, che formano una collina alta una cinquantina
di metri. Paradossalmente, invece di fargli piantare un po' di alberi, hanno
permesso all'azienda di costruire sopra un nuovo impianto fotovoltaico. Peccato
che nemmeno un chilowatt dell'energia prodotta andrà a vantaggio dei gelesi".
Secondo Lorefice, però, è soprattutto l'uso del pet-coke ad essere ancora
pericoloso: "Si tratta di un carbone prodotto come residuo della raffinazione,
che viene usato come combustibile per la vecchia centrale termoelettrica
costruita vicino alla raffineria. La procura nel 2002 vietò l'uso del pet per la
presenza nel carbone di zolfo in eccesso bloccando di fatto tutto il complesso
industriale, ma un decreto del governo Berlusconi ha risolto il braccio di ferro
decidendo che il pet va classificato come "combustibile". A tutt'oggi lo
bruciano ancora, visto che da un punto di vista economico è molto conveniente".
E visto che – come ricorda l'Eni – la Corte di Giustizia europea ha sancito che
l'uso del pet-coke è del tutto lecito.
Legambiente se la prende anche con chi avrebbe dovuto
controllare e difendere il territorio_ "L'Arpa Sicilia ha messo qualche
centralina, niente di più. Comune e regione si sono sistematicamente girati
dall'altra parte. Rosario Crocetta? È stato sindaco per due mandati, ma ha fatto
solo chiacchiere. Spero che i pm ora vadano fino in fondo, perché gli episodi su
cui lavorano sono puntuali, ma circoscritti."
A parte
ambientalisti e medici dell'ambiente, rispetto ai tarantini i gelesi sembrano
meno reattivi davanti al Mostro. Se contro l'Ilva sono nate decine di
associazioni combattive, in Sicilia trionfa la rassegnazione. "Eppure", sospira
la pediatra, "noi e i nostri figli continuiamo ad ammalarci. Non solo
malformazioni al palato e microcefalie, ma scopriamo di continuo casi di diabete
infantile e carenze dell'ormone della crescita. Per non parlare di aborti
spontanei e infertilità". La rabbia un sentimento che scatta di rado: "Le coppie
interiorizzano il dramma, si colpevolizzano, infine si isolano: qualcuno ha
nascosto i figli malformati persino ai nonni".
Mentre per
settembre si aspettano i risultati delle nuove analisi sull'arsenico (tre anni
fa il Cnr scoprì che il sangue del 20 per cento del campione dei gelesi era
pieno di veleni, con livelli di metallo superiori anche del 1600 per cento al
tasso limite: i nuovi esami – da quanto risulta a "l'Espresso" – proveranno la
presenza dell'arsenico inorganico 3 e 5, quello più cancerogeno), e molti non
mangiano più il pesce e le vongole pescate sulla costa, tutti guardano alle
prossime mosse della procura. Che ha deciso, cosa assai rara, di essere parte
nel processo civile che un comitato di genitori di bimbi malati ha intentato
contro l'Eni.
Non sarà
semplice ottenere i danni, visto che la connessione tra veleni e la singola
malformazione è molto difficile da dimostrare. Qualche anno fa ci provarono in
sede penale i pm di Siracusa che indagavano sul petrolchimico di Priolo, ma
prima dell'inizio del processo per avvelenamento fu deciso di archiviare tutto.
Dopo qualche mese, però, la stessa procura annunciò che la Sindyal aveva offerto
16,5 milioni di euro da girare a 180 famiglie di bimbi nati con malformazioni
cerebrali e altre anomalie. Anche se nessuno glielo impone, l'azienda apre il
portafoglio e paga come fosse direttamente responsabile. La cifra – anche se
alta – paragonata al fatturato totale dell'Eni è irrisoria:
nel 2006
l'utile superò i 9,2 miliardi di euro. In Sicilia nessun
dirigente del gruppo è mai finito in prigione.
L'Espresso
6 giugno 2013
Nessun commento:
Posta un commento