La denuncia della Flai Cgil di Palermo: "Le scelte del tribunale di Marsala e dell'Agenzia delle Entrate, non hanno consentito il pagamento del credito d'Iva maturato sotto la gestione giudiziaria, un milione 800 mila euro, generando la rottura degli accordi di consolidamento del debito e decretando la chiusura"
Dovrebbero essere il simbolo della vittoria dello Stato sulla criminalità organizzata. Aziende e beni confiscati che riprendono nuova vita nel segno della legalità e che da imprese di mafia diventano esempi di lavoro pulito e redditizio. Il condizionale è d’obbligo perché in Sicilia la storia di un’azienda sottratta alla mafia finisce malissimo. Chiude un’azienda da un nome che non può non evocare la criminalità organizzata, il caseificio “Provenzano” di Giardinello, gestita in amministrazione giudiziaria e confiscata quattro anni fa alla famiglia mafiosa di Giuseppe Grigoli, prestanome di Matteo Messina Denaro. Il boss, ritenuto la primula rossa della mafia, che è sotto assedio da parte degli investigatori. Lo scorso dicembre i carabinieri del Ros aveva eseguito undici arresti nel Trapanese. Ieri per questa impresa è stata avviata la procedura fallimentare e alla porta sono stati messi i trentanove dipendenti rimasti. All’inizio erano prima cinquantadue, ma tredici sono stati già licenziati. La settimana prossima i lavoratori si riuniranno in assemblea per protestare pubblicamente contro i licenziamenti, mentre la Flai Cgil di Palermo chiede la cassa integrazione straordinaria per cessazione attività. Viene contestata l’inadeguatezza della legislazione per le aziende sottratte ai boss, che rispetto ai patrimoni e agli appartamenti confiscati riscontrano gravi problemi di sopravvivenza dovuti all’accesso al credito e necessitano di manager competenti in grado di gestire le reti di distribuzione del prodotto. “Oggi chiude un’azienda confiscata alla mafia malgrado l’esistenza di una normativa come la legge La Torre e nell’anniversario della strage di Falcone”, dice Nuccio Ribaudo, della Flai Cgil di Palermo. L’azienda “Provenzano”, al pari di tutte le aziende confiscate, era caratterizzata da una esposizione debitoria gravissima con circa 28 milioni di euro di debiti con le banche e dalla mancanza di liquidità necessaria per consentire la continuità dell’attività produttiva.
Il curatore giudiziario era riuscito a rimettere in moto l’azienda, con un prodotto di alta qualità che veniva commercializzato soprattutto all’estero. Era in preparazione anche un sito web per pubblicizzare i prodotti. “Tutto questo è avvenuto grazie ai sacrifici dei lavoratori, ai quali è stato diminuito il salario mensile e che ha accettato turni di lavoro flessibili. In questo modo la Provenzano, malgrado la crisi economica, è sopravvissuta per quattro anni – spiega Nuccio Ribaudo – Purtroppo le scelte del tribunale di Marsala, che gestiva le indagini sulla precedente gestione aziendale, e dell’Agenzia delle Entrate, non hanno consentito il pagamento del credito d’Iva maturato sotto la gestione giudiziaria, un milione 800 mila euro, generando la rottura degli accordi di consolidamento del debito e decretando la chiusura”.
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