un lurido cane il vigile urbano di milano .
i suoi tre colleghi ugualmente porci complici
Quando il comandante della polizia locale Tullio Mastrangelo arriva in via Crescenzago, accompagnato da due ufficiali, l’omicidio di Marcelo Valentino Gomez Cortes tecnicamente non è ancora compiuto. L’uomo è steso in terra a fianco all’auto dei vigili da cui Amigoni è sceso e ha sparato. Almeno tre soccorritori, arrivati con un’ambulanza e un’auto medica, stanno tentando disperatamente un massaggio cardiaco. L’operazione andrà avanti ancora per molti minuti (40 in tutto) prima che ci si arrenda a constatare il decesso. In questo contesto, il comando dei vigili raccoglie la versione di Amigoni, che sarà poi rilanciata da tutti i media. «Ho sparato dopo avere visto una pistola in mano all secondo uomo, poi fuggito, voltato di tre quarti».
Nella confusione succede che nella versione del comando la «pistola in mano al sudamericano» riferita da Amigoni diventi «un’arma puntata contro l’agente». Nessuno dei testimoni ha però visto una pistola oltre a quella impugnata dal vigile che ha sparato. In questura si sono presentati in tanti. E a legare le loro versioni c’è un punto importante che si sta rafforzando: «I due uomini in fuga, inseguiti dai vigili, non erano armati».
Sulla scena, oltre al comandante e al suo staff, mezz’ora dopo lo sparo ci sono tanti vigili. Anzitutto, i tre colleghi che erano in auto con Amigoni e che hanno partecipato all’azione. E ce ne sono altri arrivati poi: una vigilessa (la prima a intervenire sul posto), due dirigenti del comando di Zona 3, ufficiali del Radiomobile, il responsabile della Zona 1 e cinque uomini dei cosiddetti 'Giaguari', vigili anche loro, schierati in prima linea nella sicurezza. È confrontandosi con questi ultimi che Amigoni comincia a dar forma a quella che sarà poi la sua versione: «L’uomo disarmato si è trovato per sbaglio sulla linea di tiro».
Anche questo racconto entrerà nelle comunicazioni del comando dei vigili. Quello che manca è invece il racconto dei tre colleghi che hanno partecipato all’azione con Amigoni. Eppure sono lì. Poche ore dopo riferiranno alla squadra mobile di non avere visto alcuna arma nelle mani dei due fuggiaschi. E ricostruiranno uno scenario a dir poco surreale. «Abbiamo parlato con Amigoni — dice Mastrangelo — agli altri tre, che nulla c'entravano con quanto accaduto, abbiamo detto di mettersi subito a disposizione della magistratura».
I tre colleghi di Amigoni di cose da raccontare ne avrebbero avute. E già nell’immediatezza dell’omicidio le riferiscono ad altri colleghi e a persone di cui si fidano. Hanno visto il cileno barcollare e incespicare sulla neve, senza capire che fosse stato colpito dallo sparo. «Ha cominciato a barcollare, ma non sembrava ferito». «Pensavamo fosse inciampato nella neve». Di più: lo raggiungono e lo braccano, per arrestarlo. Lo ammanettano, addirittura, e con le mani legate dietro alla schiena lo portano all’auto. «Fino a quel momento era vivo, cosciente». A quel punto l’uomo si accascia e solo allora gli vengono tolte le manette. Sono gli stessi vigili a sollevargli la maglia: vedono il buco del proiettile al petto (quello di uscita, secondo i primi rilievi della balistica) e cercano di tamponare la ferita con le mani, con le dita, in attesa dei soccorsi.
A mezzanotte, dopo essere stato sentito dalla polizia, Amigoni si farà riaccompagnare alla sua auto dai colleghi del Nucleo operativo. Durante il tragitto non parlerà dell’omicidio. Racconterà del fatto che «la vita del pendolare è dura» e di essere preoccupato perché «mia moglie a quest’ora mi starà senz’altro aspettando sveglia».
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