Riportiamo un'interessante riflessione di una compagna sulla violenza
sessuale contro le donne detenute.
Nel sito Zeroviolenzadonne potete leggerlo coi link ipertestuali.
LA VIOLENZA CONTRO LE DETENUTE: NELLE CASERME, NELLE CARCERI E NEI CIE
di Sonia Sabelli
Abbiamo sempre detto che «per ogni donna stuprata e offesa siamo tutte
parte lesa». Ma cosa cambia se chi subisce una violenza sessuale è una
donna o una transessuale? Se è bianca o nera? Migrante o cittadina?
Imprenditrice, operaia o disoccupata? Lbera o detenuta? “Santa” o
“puttana”? Vorrei suggerire qui alcuni spunti di riflessione sulla
necessità di utilizzare le categorie di genere, razza e classe, per
reagire alla violenza sessuale oggi in Italia.
Nelle aule dei tribunali, le donne che denunciano uno stupro sono
spesso trattate come imputate e i difensori degli stupratori si
affannano a demolire la loro credibilità, facendo leva sulla loro
presunta immoralità e disponibilità. Niente di più facile se la vittima
eccede la norma morale ed eterosessuale, se attraversa i confini
dell’identità nazionale o infrange la linea del colore. Meglio ancora –
per distruggere la sua credibilità – se lei è una detenuta, una
lavoratrice del sesso o una “clandestina”, e se lo stupratore è anche il
suo carceriere. Infatti, sia che si trovi in carcere per aver commesso
un reato, sia che si trovi in un Cie perché non ha i documenti in
regola, lei è considerata “illegale” e rappresenta una “minaccia” per la
sicurezza pubblica che lui, invece, dovrebbe tutelare.
La donna che ha denunciato di essere stata violentata dai carabinieri
che l’avevano in custodia, in una caserma a Roma, è stata subito dipinta
dalla stampa come una ragazza madre, senza casa e lavoro: una ragazza
giovane e bella ma «dalla vita complicata». Mentre il comando generale
dei carabinieri si affrettava a sottolineare che i militari coinvolti
possono vantare un «foglio disciplinare immacolato», loro si difendevano
sostenendo che lei era «consenziente». Come se una persona privata della
propria libertà potesse essere libera di scegliere.
Inoltre, il sindaco di Roma ha assicurato che le «eventuali mele marce»
saranno immediatamente isolate; ma c’è chi si domanda se marce siano
solo alcune mele, oppure tutta la piantagione. A partire da questo
interrogativo, alcune femministe hanno compilato una lista dei più
recenti episodi di violenze sessuali compiute dagli uomini delle forze
dell’ordine, da distribuire l’8 marzo in diverse città. Nella maggior
parte dei casi si tratta di violenze subite da donne e transessuali
recluse nelle caserme, nelle carceri e nei Cie. Violenze che si
consumano proprio a partire dalla relazione di potere che si instaura
tra carcerate e carcerieri (così come nei secoli scorsi avveniva nelle
colonie, tra colonizzate e colonizzatori, o nelle piantagioni, tra
schiave e padroni).
In particolare, sembra che le molestie e i ricatti sessuali nei
confronti delle recluse nei Cie siano all’ordine del giorno: ogni
necessità legata alla loro sopravvivenza quotidiana (dal pacchetto di
sigarette alla scheda telefonica) può essere soddisfatta in cambio di
una prestazione sessuale fornita ai rappresentanti delle forze
dell’ordine o agli operatori degli enti gestori.
Nel 2009 noinonsiamocomplici – uno slogan con cui è stato avviato un
percorso di donne, femministe e lesbiche contro i Cie, come luoghi
privilegiati della violenza contro le migranti – ha diffuso un Dossier
sulle violenze fuori e dentro i Cie contro le donne migranti, che fa
risalire al 1999 le prime testimonianze di molestie sessuali nei
confronti delle detenute.
Emerge così una realtà in cui i carcerieri sono liberi di disporre dei
corpi delle recluse, coperti dalla connivenza istituzionale, perché
quello che avviene all’interno delle “gabbie” rimane confinato in questi
luoghi remoti e invisibili, veri e propri campi di internamento in cui
vige un perenne stato di eccezione. E se qualcuna reagisce,
difficilmente trova ascolto e sostegno.
L’esperienza di Joy – la donna nigeriana che ha denunciato un ispettore
di polizia per la violenza subita mentre era detenuta nel Cie di via
Corelli a Milano – dimostra che, in un’aula di tribunale, la parola di
una “straniera” conta decisamente meno di quella di un uomo in divisa.
Infatti, durante il processo, non solo il suo racconto non è stato
ritenuto “attendibile”, ma per di più Joy è stata ripagata con una
denuncia per calunnia.
Le motivazioni dell’assoluzione dell’ispettore Vittorio Addesso sono
una summa dei peggiori stereotipi razzisti, al servizio di una strategia
che mira a demolire la credibilità di Joy. Come si legge nel documento,
in un processo per stupro le dichiarazioni della vittima «possono
costituire da sole prova sufficiente per l’affermazione della
responsabilità penale» dello stupratore, ma ciò può avvenire «solo dopo
avere doverosamente e rigorosamente vagliato l’attendibilità della
persona offesa».
Ecco che allora – nella peggiore tradizione dei processi per stupro, in
cui la vittima si trasforma in imputata – si sottolineano (anche
graficamente) le «numerose incongruenze» delle dichiarazioni di Joy; la
si dipinge come colei che capeggia la protesta delle recluse nigeriane,
che nel Cie si distinguono per «comportamenti particolarmente violenti e
scomposti»; e si fa notare che nessun’altra detenuta, né nigeriana, né
di «razza bianca» (sì, sembra incredibile ma c’è scritto proprio così)
ha testimoniato a suo favore. Dimenticando che le altre ragazze presenti
sono state «deportate in Nigeria prima di poter parlare».
Inoltre Hellen, l’unica teste a suo favore, che però si esprimerebbe
«in modo un po’ disordinato», non sarebbe attendibile perché condivide
con Joy la nazionalità, la condizione di “irregolarità” e l’accusa di
aver partecipato alla rivolta contro la legge che ha prolungato la
detenzione nei Cie fino a sei mesi. Così, dimostrata l’«inattendibilità
delle dichiarazioni delle due donne», e dimostrato che il loro racconto
è illogico e inverosimile semplicemente perché descrive una situazione
«assurda» (!), il giudice conclude con certezza che il fatto non
sussiste.
Sono invece considerate attendibili le dichiarazioni dell’ispettore
Addesso, che respinge «con fermezza» le accuse, suggerendo che la
denuncia è uno strumento per ottenere un permesso di soggiorno e
sfuggire così all’espulsione, e quelle di Mauro Tavelli, l’altro
ispettore in servizio a via Corelli, poi condannato a sette anni e due
mesi di reclusione per aver violentato una transessuale brasiliana
reclusa nello stesso Cie. Ma di questo non si fa cenno nel testo, così
come non si accenna nemmeno al fatto che Joy, come tante altre ragazze
nigeriane rinchiuse nei Cie, è una vittima di tratta e in quanto tale ha
diritto a un permesso di soggiorno.
Non è un caso che, a parte poche eccezioni, la stampa non abbia
dedicato alcuna attenzione a questa vicenda: la reazione dei media e
dell’opinione pubblica italiana di fronte alla violenza sessuale è
fortemente condizionata dall’etnicità degli stupratori e delle vittime;
le prime pagine della cronaca sono riservate allo “stupratore immigrato”
e una donna nera violentata da un uomo bianco non fa notizia.
Stupisce invece che – nonostante alcuni collettivi di femministe e
lesbiche abbiano avviato un percorso di lotta con Joy, che è riuscito a
bloccare i numerosi tentativi di chiuderle la bocca rispedendola in
Nigeria – le donne non si siano mobilitate in massa al suo fianco. Se la
grande manifestazione femminista del novembre 2007, all’indomani
dell’omicidio di Giovanna Reggiani, era stata capace di denunciare la
strumentalizzazione della violenza sessuale a fini razzisti, oggi non
siamo state in grado di fare altrettanto. E invece, davanti al rischio
che Joy si trovi ancora in un’aula di tribunale a dover fronteggiare,
stavolta nel ruolo di imputata, un procedimento per calunnia, è
necessario continuare a mantenere alta l’attenzione, allargando la
mobilitazione e moltiplicando le iniziative a suo favore.
Mentre le leggi che dovrebbero contrastare la violenza sessuale
sembrano spesso orientate solo a proteggere i corpi delle donne bianche
e di classe media dalla minaccia dello “straniero stupratore”
(giustificando provvedimenti xenofobi e securitari), la lotta contro le
violenze subite dalle migranti recluse nei Cie rimane confinata solo a
una parte del movimento femminista e/o antirazzista. Invece dovrebbe
essere una priorità per tutte noi. Una strategia efficace contro lo
stupro non può prescindere, infatti, dal riconoscimento
dell’intersezione di genere, razza, classe e dalla necessità di
contrastare sia il sessismo che il razzismo, non solo sostenendo le
donne migranti che subiscono la violenza sessuale, ma soprattutto
lottando insieme per smascherare la manipolazione razzista e classista
dello stupro.
Per maggiori informazioni: noinonsiamocomplici
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