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Per Marx la radice ultima delle crisi consiste nella contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive sociali e i rapporti di produzione capitalistici. Il modo di produzione capitalistico da un lato tende verso il massimo sviluppo delle forze produttive. D'altro lato, i rapporti di produzione e di proprietà che lo contraddistinguono (ossia il lavoro salariato, l'appropriazione privata della ricchezza prodotta, e l'orientamento della produzione al profitto anzichè al soddisfacimento dei bisogni sociali) inceppano periodicamente lo sviluppo delle stesse forze produttive, creando sovrapproduzione di capitale (un accumulo di capitale che non riesce a trovare adeguata valorizzazione) e sovrapproduzione di merci (un accumulo di merci che non riescono ad essere vendute a un prezzo tale da remunerare adeguatamente il capitale impiegato per produrle).
Scrive Marx: nel sistema capitalista “non vengono prodotti troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente. Al contrario. Se ne producono troppo pochi per soddisfare in modo
decente e umano la massa della popolazione” Il punto è un altro: “vengono prodotte troppe merci per potere, nelle condizioni di distribuzione e nei rapporti di consumo propri della produzione capitalistica, realizzare il valore e plusvalore in esse contenuti e riconvertirli in nuovo capitale”.
La crisi è il momento in cui tale contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione si manifesta, e al tempo stesso, il mezzo brutale attraverso cui si ripristinano le condizioni di accumulazione del capitale: “le crisi sono sempre soluzioni violente soltanto temporanee delle contraddizioni esistenti ed eruzioni violente che servono a ristabilire l'equilibrio turbato” (Marx). Profitto e accumulazioni vengono ripristinati per mezzo della distruzione di capitale e di forze produttive: aumento della disoccupazione e quindi abbassamento dei salari, fallimenti e quindi concentrazioni di imprese, deprezzamento di beni capitali, macchinari e materie prime e quindi miglioramento dei margini di profitto per chi li mette in opera.
Dal superamento delle crisi – ma diremmo anche dalla crisi stessa – il capitale nel suo complesso ci guadagna: ha stabilito un livello salariale più basso e che fa rimanere tale anche passata la crisi; per la crisi e in nome della crisi ha aumentato lo sfruttamento della forza lavoro (aumento dei carichi di lavoro, aumento dell'orario di lavoro, e quindi aumento del tempo di lavoro gratis per il capitale, licenziamento dei lavoratori, ma anche attacco alle tutele dei lavoratori, ecc.). Questo livello non sarà riportato esattamente ai livelli precedenti anche una volta superata la crisi, ma farà attestare ad un nuovo livello di sfruttamento e di salari che farà da “guida” per tutti.
Certo se il capitale nel suo complesso ci guadagna, al suo interno vi è una distinzione, i grandi capitali ci guadagnano, i piccoli o medi possono perdere, vengono o distrutti o assorbiti dalla concentrazione del grande capitale.
Si dice che la causa della sovrapproduzione è del “mercato”, come se il mercato fosse un entità separata dal capitale.
(Marx scrive) “La tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto del capitale stesso... il capitale tende a trascendere sia le barriere e i pregiudizi nazionali, sia l'idolatria della natura, sia il soddisfacimento tradizionale, modestamente chiuso entro limiti determinati, dei bisogni esistenti, e la tradizionale riproduzione di un vecchio modo di vivere. Nei confronti di tutto
ciò esso è distruttivo e agisce nel senso di un perenne rivoluzionamento, abbattendo tutte le barriere che ostacolano lo sviluppo delle forze produttive, l'espansione dei bisogni, la molteplicità della produzione e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello spirito”.
Ma l'universalità alla quale il capitale tende irresistibilmente “trova nella sua stessa natura ostacoli che ad un certo livello del suo sviluppo metteranno in luce che esso stesso è l'ostacolo massimo che si oppone a questa tendenza e perciò spingono al suo superamento”. “Il vero limite della produzione
capitalistica è il capitale stesso, è il fatto che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto d'arrivo, come fine della produzione” (Marx)
La crisi è il momento in cui si manifestano le contraddizioni del capitalismo e i limiti allo sviluppo del capitale che sono connaturati al capitale stesso.
Da questo ne viene che il mercato creato dal capitale, poichè è in funzione sempre della realizzazione del profitto e non della soddisfazione dei bisogni delle popolazioni, ha esso stesso un limite, che quindi accompagna le crisi non le risolve.
Nello stesso tempo il capitale mette in ridicolo ogni tentativo di riproduzione di un vecchio modo di vivere, di “soddisfacimento tradizionale”. Distrugge tutte le illusorie e stupide idee dei critici moralisti del capitale, perchè ogni “vecchio modo di vivere” è già rivoluzionato e la ruota della storia non può andare indietro, dato che i settori che vengono proposti come alternativi alla disumanità del capitale (agricoltura, turismo, green economy, ecc.) nel momento in cui il capitale ci mette i suoi tentacoli, ne fa fonte di profitto e non di soddisfazione di bisogni e anzi se la soddisfazione dei bisogni si presenta incompatibile con il suo profitto, distrugge i bisogni.
Queste stupidaggini che si rinnovano soprattutto nella crisi, si presentano in ultima analisi anche reazionarie, nel senso che sono conservatrici perchè vogliono contrastare non il limite del capitale ma il suo “merito storico”, lo sviluppo delle forze produttive.
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